Shirley Jackson: orrore e quotidiano

Torte al limone, quadri stregati e posaceneri parlanti. Perché è negli oggetti dei salotti o delle camere da letto, appena sotto la loro superficie, che si nasconde l’orrore: se per Jean-Paul Sartre l’inferno sono gli altri, per Shirley Jackson è la quotidianità il vero incubo. Così i racconti de «La luna di miele di Mrs Smith» (Adelphi, traduzione di Simona Vinci, 279 pp., 19 euro) compongono un album di istantanee, un inventario della paura nell’America anni cinquanta, tra l’ipocrisia rassicurante della ritualità famigliare, con i suoi ruoli e le sue regole, e il vortice inarrestabile, il meccanismo ineludibile che innescandosi fa crollare ogni certezza.

Come Norman Rockwell in quegli stessi anni dipinge momenti privati, l’America dei sobborghi e delle piccole città andando oltre lo sguardo patinato per diventare osservazione, Shirley Jackson fotografa il quotidiano con vertigini di ironia ed elegante crudeltà, restituendo ogni dettaglio. Ed è soprattutto nei dialoghi tra mogli assassine e mariti abitudinari, tra madri protettive e figli spietati che sta tutta la forza della narrazione: la capacità di estrarre l’invisibile dalle battute di routine e dalla chiacchiera – Moravia avrebbe dovuto riservarle un posto nel saggio sull’argomento, al fianco di Čechov e Beckett – mettere al negativo le parole come in una lastra, per far emergere il non detto, il potenziale pericolo, la noia e la frustrazione (Sua moglie chiuse bruscamente la porta. «Non potrei mai vivere con un uomo che non parla» disse, e la sua voce suonava diversa. «Perfino quello che dici tu di solito è meglio di niente»). Niente di ciò che si pensa va pronunciato e niente di ciò che appare in superficie corrisponde alla realtà. Shirley Jackson ama scardinare ruoli prestabiliti e ricucirli, sorprendere tessendo la trama di comicità surreale, così sarà il Diavolo ad essere ingannato dagli esseri umani,

«Con questo offro la mia anima al diavolo. Non è neanche lontanamente legale!»,

i figli delle famiglie perbene a rivelarsi dei criminali, la giovane amante a manovrare e inquietare il professore. Sono le donne catturate dai rigidi schemi della società – come la stessa autrice, del resto – obbligate al canovaccio di creature fragili e involute, che custodiscono e aprono mondi di visioni e incubi: è mettendo da parte una bontà stucchevole e precostruita, prestando il fianco al male e alla capacità di compierlo, che finalmente il femminile si separa dal fondale per guadagnarsi il proscenio. E il capovolgimento dagli interni famigliari si allarga e passa all’esterno per indagare la dinamica sociale. Se ne «La lotteria» è la ferocia della comunità, necessaria per far sopravvivere il suo equilibrio, a essere il moto centripeto dell’azione, ne «La luna di miele di Mrs Smith» è la sua inerzia a essere il principio che governa il racconto: tutti osservano e giudicano, assistono e nessuno interviene («Santo cielo!». Mrs. Jones spalancò le braccia sconfortata. «Non ti rendi conto della situazione? Lo sanno tutti.»). Come avrebbero spiegato gli psicologi Latané e Darley per l’omicidio di Kitty Genovese, è il desiderio di essere spettatore, senza alcuna responsabilità diretta, a determinare il comportamento degli altri, aspettando sempre che sia il prossimo a occuparsene. Con «La luna di miele di Mrs Smith» Shirley Jackson ci consegna un’antologia per decifrare i vari piani della realtà, spostandosi con facilità dal gotico dal noir, dalla satira di costume al black humor, potendo per una volta essere spettatori, senza sensi di colpa.