Nel 2022 il mondo della storiografia contemporaneista viene felicemente scosso da un volumone subito considerato capolavoro, una ricerca che resterà negli anni e nei decenni.
Si tratta del profilo assai originale che del secondo conflitto mondiale traccia uno storico conosciuto e stimato già da qualche decennio: il 75enne Richard Overy, professore in pensione che ha insegnato in diversi atenei britannici (Oxford ed Exeter, fra gli altri).
I due caratteri che emergono alla lettura delle prime pagine sono la lunghezza e quattro punti chiave che lo stesso autore illustra nella Prefazione con notevole capacità sintetica.
Il totale delle pagine ammonta a 1300 nell’edizione italiana curata da Einaudi e tradotta da Luigi Giacone.
Overy chiarisce da subito (p. XX):
Questa nuova storia della Seconda guerra mondiale si basa su quattro presupposti principali.
Una nuova data per l’avvio della guerra
In primo luogo è necessaria una nuova cronologia: le ostilità iniziano, infatti, nei primi anni Trenta, non nel 1939; e sullo scacchiere dell’Estremo Oriente, anziché su quello europeo. Non per nulla lo studioso britannico apre e chiude la sua storia rispettivamente con il 1931 e il 1945.
Non è certo un caso che entrambi gli estremi della periodizzazione riguardino la zona fra Cina, Giappone, arcipelaghi e isole dell’Oceano Pacifico: l’anno 1931 è, infatti, quello dell’invasione nipponica della Manciuria, strategica regione cinese.
Secondo punto: il conflitto dev’essere analizzato dal profilo della globalità, non limitatamente alle sconfitte subite da Germania, Giappone, Italia e alleati minori sul fronte dell’Asse.
In terzo luogo, la seconda guerra mondiale va ridefinita come una sequenza di guerre diversificate: si va dai conflitti interni a quelli sullo scacchiere intercontinentale, dalle guerre civili alle forme di autodifesa civica.
I tre elementi si fondono poi nel quarto: il conflitto 1931/45, che opportunamente l’autore definisce “la lunga Seconda guerra mondiale“, rappresenta l’ultimo conflitto imperiale.
In altri termini, l’estate 1945 che vede la resa incondizionata dall’Impero del Sol Levante, iscrive nel registro della Storia la parola Fine per i decenni del colonialismo tradizionale. Quello, cioè, nato nel XVI secolo e perfezionatosi nel corso del XIX.
Le giustificazioni alle stragi
Dai grandi sistemi di conquista, sfruttamento, espansione delle terre d’oltremare si affermano nei secoli successivi sei Paesi, tutti strategicamente affacciati sull’Oceano Atlantico: Spagna, Portogallo, Francia, Olanda, Belgio, Regno Unito. L’ultimo, già nel ‘700, s’impone come l’impero al culmine per ricchezza e potenza – perfino più esteso di quello di Carlo V d’Asburgo nella prima metà del ‘500.
Le velleità di espansione germaniche, nipponiche, italiche mirano proprio a sfidare il nemico britannico. Dopo la sconfitta dell’Asse saranno tre grandi blocchi, imperiali in modo diverso (tardo capitalistico e globalizzato), a prendere il loro posto: USA, URSS (fino al 1991, poi Russia) e Cina.
Una simile impostazione viene considerata, già all’uscita dell’opera, rivoluzionaria dal profilo della storiografia sul periodo 39/45.
Molte sono le domande che l’ex docente della Exeter University si pone: dall’articolazione dello sforzo economico bellico alla mobilitazione di decine di milioni di uomini e donne componenti le forze lavoro dei Paesi coinvolti, dalla giustificazione ideologica e morale elaborata dai partiti al governo di quegli stessi Paesi fino alla considerazione degli immensi danni umani e materiali sofferti dai continenti europeo, asiatico e africano. Ma Overy pone anzitutto due domande cruciali:
- Perché si giunge nel 1945 a totalizzare cinque volte i morti rispetto a quelli causati dal conflitto 14/18? (rispettivamente 60/68 milioni e 15/17)
- Perché i perpretratori dei diversi crimini (di guerra, contro l’umanità, contro la pace) hanno aderito al progetto genocida e alla conduzione così spietata della guerra?
Riguardo alla seconda questione è rilevante notare che lo studioso britannico si riferisce a entrambi gli schieramenti in campo, l’Asse e gli Alleati. Si pensi, per fare i due esempi più paradigmatici, alle due bombe atomiche su Hiroshima e Nagasaki, come ai bombardamenti a opera del Bomber Command della RAF sulla Germania fra 1941 e ’45 (con i 35/40.000 morti fra gli abitanti di Dresda nella notte del 13/14 febbraio 1945) responsabilità diretta dell’ammiraglio dell’aria Arthur Harris.
Raramente l’indice di un volume è così esplicativo: nel caso di Blood and Ruins rispecchia profondamente l’articolazione dell’intera opera. L’autore distingue gli undici capitoli in due sezioni tematiche:
I primi cinque narrativi, con l’analisi delle vicende belliche lette alla luce dell’evento, a giudizio di Overy, più significativo: la veloce realizzazione e il correlativo declino dei progetti imperiali tedesco, italiano, giapponese;
Dal sesto all’undicesimo troviamo i capitoli tematici; vengono trattate questioni concernenti l’economia, la morale, l’ideologia, la guerra civile, quella che l’Autore definisce efficacemente “geografia emotiva”, il passaggio dalla forma Impero alla forma Nazione, fino ai crimini commessi in quei quindici anni.
Le violenze di genere e il conflitto
Quando s’incontrano la morale e la figura del criminale di guerra lo storico parla di “supposta superiorità morale”, pressocchè impossibile da attribuire a una delle parti in causa. Senza per nulla trascurare la necessità vitale di lottare contro i fascismi europei e il sanguinario imperialismo giapponese, resta pur vero che si possono discutere molte decisioni strategiche degli Alleati. Overy, coerentemente, intitola il paragrafo che tratta questa tematica: Una guerra non esattamente “buona”.
Si pensi a questo passaggio relativo all’URSS di Stalin (p. 810):
A eccezione del genocidio sistematico, l’apparato repressivo sovietico si era macchiato di quasi tutti gli altri crimini contro l’umanità elencati a Norimberga: deportazioni di massa in campi di lavoro e di concentramento su vasta scala; gestione di lager con un livello sistematico di soprusi e uccisioni che uguagliava quello dei peggiori campi di concentramento del Terzo Reich; intolleranza verso ogni forma di credo religioso (…)
Non deve dunque stupire che a distanza di 78 anni dalla conclusione del conflitto più sanguinoso della Storia, dopo decine di migliaia di volumi, capitoli in opere collettive, articoli su riviste, paper a convegni, l’ennesimo libro riesca ancora a stupire e incantare (nella considerazione della tragicità di quella quindicina d’anni).
Oltre a un paragrafo (Un impero “epurato dagli ebrei”) in cui Overy è capace di sintetizzare in ventidue pagine i punti essenziali della Shoah, uno dei non pochi aspetti inediti evidenziati nel volume è la violenza praticata contro le donne – Le violenze di genere e la guerra.
Quando l’uomo diviene strumento nelle mani di altri uomini (citiamo a memoria Primo Levi) non si finisce mai di scoprire avvenimenti inesplorati e letture innovative.
La seconda guerra mondiale, in fondo, è stato un buio assoluto della mente e dell’umanità lungo quindici anni, che ha toccato in modo diretto e non i cinque continenti, prodotto circa 65 milioni di cadaveri, sterminato per buona parte interi gruppi etnici e religiosi come Ebrei, Zingari, Slavi, minoranze religiose e sessuali, avversari politici di ogni colore e ideologia.
In questo buio ci è di grande aiuto la maestria di storici come Richard Overy.