Steven Spielberg si racconta: la famiglia, E.T., Truffaut e il “vaffa” di John Huston

Una sessantina di film da regista, 3 Oscar vinti, Steven Spielberg è nel senso più alto del termine un grande “artigiano” del cinema. Che ha saputo passare con facilità da film di puro intrattenimento come quelli di Indiana Jones, ad altri più “visionari” come Incontri ravvicinati del terzo tipo, E.T, a storie “impegnate” come Salvate il soldato Ryan e soprattutto Schindler’s List sulla Shoah, un film molto personale per il regista settantaseienne di origini ebraiche.

All’ultimo festival del cinema di Berlino, Spielberg ha ricevuto l’Orso d’oro alla carriera e, in quell’occasione, ha anche “accompagnato” il suo ultimo film The Fabelmans, uscito lo scorso dicembre e in gara agli Academy award 2023 con 7 candidature, tra cui miglior film, regia e sceneggiatura e una nomination per Michelle Williams come miglior attrice protagonista.

Un film dichiaratamente intimo, nel quale racconta la storia della sua famiglia: il padre Arnold, un ingegnere elettronico, sua madre Leah Adler, casalinga e appassionata pianista, e le sue tre sorelle minori Anne, Sue e Nancy. E gli inizi del suo amore per il cinema quando era ancora un ragazzino e già “tagliava e cuciva” pellicola sul tavolo di casa.

Perché raccontare la sua storia proprio adesso?

Non posso dire con certezza per quale ragione fosse arrivato il momento giusto per farlo. Non so spiegare in modo cosciente il timing di nessuno dei miei film. Ma durante i primi mesi della pandemia mi sono ritrovato a casa con mia moglie, i nostri figli e il cane. Durante il lockdown non si poteva uscire e, quindi, avevo un sacco di tempo per pensare. Eravamo tutti molto spaventati per Covid in quei mesi e questo, forse, mi ha spinto a riflettere sugli anni che passano, sulla morte. Mi sono domandato: “C’è un film che non ho avuto il tempo di fare fino a oggi?”. E la riposta è arrivata: portare sullo schermo la storia della mia famiglia. In qualche modo, ho sempre saputo che mi sarebbe piaciuto. Ma è anche vero che tutti i miei film sono, in modo diverso, “personali” e che molti hanno al centro la famiglia.

Famiglie spesso problematiche, con genitori separati…

Vero. Credo che sia stato il mio subconscio a spingermi in quella direzione. I traumi dell’infanzia si riflettono sempre nel lavoro degli artisti, che si tratti di film, musica, pittura e così via. Il divorzio dei miei genitori è stato traumatico anche se avevo già 19 anni. Non mi spingerei a dire che ho usato il cinema come terapia per curare quella ferita. Almeno non l’ho fatto intenzionalmente. Però sono stato sempre attratto da un certo tipo di storie. Per esempio, L’impero del sole parla di un bambino che viene internato in un campo di concentramento in Giappone senza sapere dove siano finiti il padre e la madre. Fare un film è un grosso impegno e quello che racconto deve avere un forte significato per me, a livello anche personale.

Anche in The Fabelmans ha lavorato con Janusz Kamiński, il direttore della fotografia di tutti i suoi film da trent’anni. Come vi siete trovati?

Cercavo un direttore della fotografia per Schindler’s List e non lo trovavo. Un giorno vidi Fiore selvaggio, un film per la televisione diretto da Diane Keaton. Mi colpì per l’uso dei colori, la contrapposizione tra tinte calde e fredde. In quel periodo dovevo produrre un pilot per il canale ABC e mi affidai a Kamiński per la fotografia. E, di nuovo, il suo lavoro fu incredibile. A quel punto decisi che era arrivato il momento di conoscerlo di persona. Volevo girare Schindler’s List in bianco e nero e gli chiesi se lo avesse mai fatto. “Il bianco e nero è l’unica cosa che potevamo permetterci nelle scuole di cinema in Polonia”, mi rispose. Dal 1993 a oggi non abbiamo mai smesso di collaborare.

Com’è stato lavorare con François Truffaut che scelse per il ruolo del ricercatore francese Claude Lacombe in Incontri ravvicinati del terzo tipo?

Truffaut era un bambino nell’animo. Non piaceva a nessuno perché era piuttosto “selvaggio”. Ma io gli sono grato perché è anche grazie a lui se finii per realizzare E.T . Aveva appena girato Gli anni in tasca e si era divertito molto a lavorare con i bambini. Così, un giorno, mi disse in un inglese un po’ acciaccato con forte un accento francese: “You need to make a movie with the kids”. Non l’ho mai dimenticato.

Tornando a The Fabelmans, sua madre era come la racconta sullo schermo?

Mamma era una casalinga ma anche una bravissima pianista. Ed era una donna piena di gioia che celebrava la vita tutti i giorni. Era istintiva nelle sue decisioni e se si metteva in testa di fare una cosa nulla poteva fermarla. Michelle Williams è una sua “copia” fedele. Prima di cominciare a girare il film, mi ero ripromesso di non farmi prendere dall’emozione ma quando ho visto lei e Paul Dano vestiti come mia mamma e mio papà, tutti i miei buoni propositi sono andati in fumo.

Il film rivela un segreto che lei e sua madre avete condiviso per decenni. Lei si era reso conto della sua relazione con il miglior amico di suo padre che, dopo il divorzio avrebbe sposato, ma non disse nulla in famiglia.

Negli anni ne avevo parlato con mia madre e lei mi aveva incoraggiato a raccontarlo in un film. Credo che sarebbe felice del fatto che finalmente abbia deciso di rivelare il nostro segreto. I miei figli sono grandi ormai e il fatto di vederli andare via anche questo, forse, mi ha spinto a raccontare la storia della mia infanzia. Mio padre è morto di recente, nel 2020 a 103 anni, mia mamma a 97, nel 2017. Tutte cose che mi hanno portato a riflettere sul passato.

Sta già lavorando a un nuovo film?

Vorrei tanto poter dire di sì. Sono stato impegnato a girare a distanza ravvicinata due film, West Side Story e The Fabelmans che, anche se in modo diverso, considero molto personali. Era tutta la vita che volevo fare un musical e West Side Story secondo me è il miglior mai scritto per Broadway. Ero ancora impegnato nella post produzione, quando ho cominciato a lavorare alla sceneggiatura di The Fabelmans e l’ho girato prima ancora che West Side Story arrivasse al cinema. Questi due progetti mi hanno impegnato così tanto che non ho avuto il tempo di pensare a che cosa fare dopo. E tuttora non ne ho la minima idea. Da un lato è una bella sensazione, dall’altro è terribile. Mi dà modo di occuparmi della mia vita, ma al tempo stesso io ho bisogno di lavorare. Nei prossimi mesi cercherò di capire quale potrebbe essere il mio prossimo film.

Finora ce n’è uno fra i tanti che ha realizzato che ama in modo particolare?

Lo so che suona come un luogo comune, ma i film sono come i figli, voglio bene a tutti allo stesso modo. Però ce ne sono stati alcuni che mi hanno dato più filo da torcere dal punto di vista fisico o psicologico. Alla prima categoria appartiene Lo squalo. Dal punto di vista emotivo, invece, almeno fino a The Fabelmans, il più difficile era stato Schindler’s List. Ricreare certe scene della Shoah è stato davvero intenso.

Fatica a parte, sul set si diverte?

Il mio cognome, di origine austriaca, significa “play montain”. Ed è per questo che a 14 anni copiai il logo della Paramount e chiamai la mia “casa di produzione” Play Mountain Production. Chiamarmi così mi ha aiutato a capire il senso di quello che faccio: se non gioco mentre lavoro, allora non c’è modo di divertirmi. Devo farlo anche quando si tratta di film difficili, impegnativi, faticosi.

Alla fine di The Fabelmans c’è una scena in cui incontra per pochi minuti John Ford, interpretato da David Lynch, e che si conclude con il regista che poco amichevolmente le intima di “andarsene dal mio cazzo di ufficio”. Andò davvero così?

Assolutamente. Quelle battute sono le più vicine alla realtà di tutte quello che ho messo nel film. E la ragione è che ho raccontato ai miei amici quello che mi disse così tante volte che lo ricordo parola per parola. Per molto tempo mi sentii imbarazzato per quello che era successo. Mi ci sono voluti vent’anni per capire che, invece, mi aveva fatto un regalo. Non mi incontrò per sentirmi dire quanto amassi il cinema e i suoi film. Mi diede dei consigli, magari in maniera troppo brusca, ma a posteriori li ho capiti e mi sono tornati utili. Allora avevo solo 16 anni.

I suoi di consigli per un giovane aspirante regista?

Trovate storie interessanti. Ci sono così tante opportunità per imparare a girare bene una scena. Quello che conta è avere una buona sceneggiatura. Provate a scrivere e se non funziona, cercate qualcuno più bravo di voi e fate squadra.

Che cosa significa ricevere un Orso d’oro alla carriera?

Lo considero un grande onore. Vuol dire che qualcosa di buono devo pur averlo fatto. Sono consapevole di quello che so fare bene e del 99 per cento delle cose che mi piacerebbe saper fare, ma per cui non ho abbastanza talento. Ma l’aspetto più importante del ricevere un premio alla carriera è che ti obbliga a riflettere sul passato, cosa che non faccio spesso.