The Ripper, the pig is dead

A diciotto anni, Helen Rytka aveva appena avuto il tempo di cominciare a diventare adulta. Aveva vissuto l’infanzia e l’adolescenza costantemente sola e permanentemente privata del caldo abbraccio di un genitore. Tutto quello che voleva davvero era essere amata. Finda quando era piccola, insieme ai suoi fratelli, era stata sbattuta per tutta la vita da un posto all’altro, da una casa di cura all’altra in tutto lo Yorkshire, da Leeds a Bradford, da Knaresborough a Dewsbury. Alla fine è capitata a Huddersfield, dove è morta per mano dello Squartatore. Un rapporto preparato dalla polizia del West Yorkshire per il direttore dei pubblici ministeri ha riassunto la storia della desolante esistenza di Helen in queste poche parole: “Aveva vissuto una vita breve e triste“. (Wicked Beyond Belief – The Hunt for the Yorkshire Ripper, Michael Bilton, Harper Press)

Il filone dei documentari sui serial killer è vasto, come è giusto che sia. Il mondo non è affatto una ball of magic, come – sbagliando – diceva Dylan Thomas. È piuttosto una fossa biologica piena di sappiamo cosa, che regolarmente tracima e ricopre tutto quello che incontra, distruggendo ogni forma di bellezza e innocenza. Dite che sono pessimista? Può anche essere, ma questo non significa che io abbia torto. Amo questo genere di documentari, sebbene mi facciano orrore puro, proprio perché mi ricordano che tutto sommato mi è andata bene. Ora, veniamo a noi. Mi si chiederà perché recensisco questa serie-documentario se in fin dei conti parlano tutti della stessa cosa e cambiano solo le vittime e i killer. Beh, è presto detto: perché The Ripper non è una serie come tutte le altre del genere. Ma andiamo per gradi: dal 1975 al 1980 nello Yorkshire, quello di David Peace e del suo Red Riding, un misterioso serial killer trucida tredici donne e cerca di ucciderne almeno altre sette (vado a memoria, non ho voglia di andare a controllare). Comincia con delle prostitute, e qui c’è il primo problema. Le prostitute non esistono, e se crepano di coltello o di martello, se la sono cercata, e che i loro figli si fottano, in un modo o nell’altro. Quando la Polizia dello Yorkshire finalmente si accorge che c’è uno schema, e che a rischio non sono solo puttane, ma anche madri e mogli, parte la caccia. Inutile dire che anche le donne morte erano madri e mogli, ma erano puttane, e le puttane non esistono. C’è un capitolo del libro che vi ho citato all’inizio che si chiama A Miserable Place To Die. Non ve lo traduco per rispetto delle vostre nozioni di inglese, ma vi assicuro che guardando la serie vi accorgete che i posti in cui il serial killer va a pescare queste donne, queste ragazze, queste mogli, queste madri, queste persone, cazzo, è davvero un posto di merda, forse più per camparci che per schiattarci. E insomma il killer, che si chiama Peter Sutcliffe e che, con mia enorme e laica soddisfazione, è recentemente schiattato di Covid (sono una persona civile e l’idea stessa di pena di morte mi ripugna, ma mi riservo il diritto di gioire se schiatta uno così), terrorizza l’Inghilterra. Siouxie and the Banshees ci scrivono perfino una canzone nell’LP Juju: Night Shift (Night Shift was about the Yorkshire Ripper, not Bela Lugosi, or whatever. Goth was pantomime).

E veniamo alla serie. E veniamo a me che vi dico perché è diversa dalle altre del genere e perché dovreste vederla. Perché comincia con le testimonianze dei figli della prima vittima (non so se vi ho detto che anche le puttane possono essere mamme) e da quel momento in poi, dopo aver visto quei volti, sentito queste persone parlare della loro mamma, da quel momento in poi, dicevo, in questo mare di racconti trucidi e di indagini poliziesche, di lettere e nastri del serial killer, di capi della polizia e investigatori improbabili, di schifosi Sunday papers a caccia di merda, affiorano scogli di umanità. Ogni tanto, quando il racconto sta virando verso il morboso -o peggio, sul tecnico-investigativo- salta fuori qualcuno, un testimone, una vittima mancata, perfino qualche semplice poliziotto senza gradi che dice qualcosa di umano. Di decente. Di vero, di coinvolgente, fosse anche un povera ragazza buttato lì. Oppure c’è un essere umano che, per un secondo, distoglie lo sguardo dalla telecamera perché, in un barlume di dignità, cerca di trattenere le lacrime. Sono questi i momenti che rendono The Ripper una serie diversa dalle altre: e se all’inizio non notate quello che vi ho appena raccontato, beh, vi garantisco che ve ne renderete conto finito di guardare l’ultima puntata, quando finalmente Sutcliffe viene condannato. Sentirete il retrogusto. E gioirete nel vedere il maiale in catene. Anche se, nel frattempo, una figura altrettanto sanguinaria, che avrebbe rovinato ben più di una manciata di famiglie, stava per abbattersi sull’Inghilterra: una donna di nome Margaret Thatcher. Su Netflix.