Uno, nessuno e centomila Lucio Dalla

Berretto, panama e parrucchino. Se Guglielmo Speranza, protagonista de Gli esami non finiscono mai di Eduardo De Filippo, presenta nel prologo tre posticci di barbe per segnalare allo spettatore lo scorrere del tempo negli atti successivi, Lucio Dalla ha indicato l’epoca e interpretato l’evoluzione della società italiana attraverso il copricapo del momento: dalla coppola di Gesù bambino nel porto al cappello di lana della copertina omonima,  dal panama bianco del video di Caruso fino al toupet castano chiaro dell’ultimo Sanremo della sua carriera. Una galleria di icone e modelli da non poter eguagliare la trasformazione e il gioco da performer di David Bowie, ma che ha marcato i passaggi del lungo percorso musicale del cantautore bolognese. E se nel pubblico c’è chi ha preferito la collaborazione con il poeta Roberto Roversi alle coreografie di Attenti al lupo, le liriche appassionate alla Wystan Hugh Auden di Tu non mi basti mai agli atterraggi alieni da Flaiano in Merdman – perché «sembrano esistere molti Dalla diversi» – in realtà non è così semplice ricomporre un unico ritratto, profilo e voce dell’artista che per più di quarant’anni ha continuato, con coscienza ed ironia, a definirsi «un canzonettaro». Lucio Dalla per tutta la sua vita «non cambierà mai d’abito – sembra suggerire di nuovo De Filippo – non può e non deve: l’eroe di questa commedia non è un tipo, bensì il prototipo di noi tutti», una complessità che preferirà sempre arrogarsi il diritto ad essere un uomo confuso che un uomo concluso, che sceglierà ogni volta l’interazione con il pubblico alla clausura con la stampa, il parlare di tutto invece che al parlare di niente. Per Lucio Dalla, come per Guglielmo Speranza, basta un unico vestito, uno qualunque, o meglio: quello di chi vuole essere una persona qualunque. È da questa ricerca, da questa possibilità di ricomporre un solo Dalla che parte l’indagine di Jacopo Tomatis: una raccolta di interviste al cantautore, E ricomincia il canto (il Saggiatore, pagg. 376, euro 22), che passa al setaccio dichiarazioni e interventi radiofonici con l’obiettivo di individuare un massimo comune divisore, un nucleo identitario dell’artista dallo sconvolgimento sanremese di Pafff… bum! (1966) all’ultimo tour e disco dal vivo con Francesco De Gregori, Work in Progress (2010). Traguardo non impossibile ma faticoso, anche perché Lucio Dalla, sovvertendo un titolo di Franca Valeri, può essere: bugiardo sì, ma non reticente.

Parla di tutto Lucio Dalla, non si smarca dai giornalisti ma va loro incontro e li accontenta, si concede e seduce, rettifica ma non rimprovera; discute di religione con Ludovica Ripa di Meana e fumetti con Monica Vitti, della Germania democratica e Berlino est con Panorama e di basket, reduce di una partita della Sinudyne, con il Guerin sportivo, dei movimenti a Bologna del ’77 e della nuova onda disco. Il suo è un obiettivo da grandangolo fissato sulla società: da «inguaribile e incorruttibile voyeur» ama perdersi nella gente per osservare e non per esserne protagonista, per raccontare cantando prima di fare poesia. Ed è proprio da questa eterogeneità di tempi e spazi, da questo inesauribile interesse per gli altri a non fraintendere e a non essere frainteso, che risalta uno dei cardini fondamentali del cantautore per comporne il ritratto: un nuovo rapporto della musica pop con la comunicazione. Se i tempi della canzone d’amore sono finiti e gli inni di protesta hanno prodotto solo false rivoluzioni e violenza, Dalla avverte l’esigenza di scrivere canzoni che lui stesso definirà «di proposta», «che parlino di cose reali, quotidiane. E che servano da collegamento tra me e gli ascoltatori e tra gli ascoltatori e se stessi, al di fuori di tutte le strutture imposte, falsamente di impegno». Se Pirandello ne Il fu Mattia Pascal vuole aprire «uno strappo nel cielo di carta del teatrino» per rompere l’alienazione della marionetta Oreste e farne un Amleto, spezzare il meccanismo della tragedia antica e costringere l’uomo al dubbio dell’età moderna, allo stesso modo Lucio Dalla vuole squarciare e scardinare il parametro della canzone per mettere il pubblico di fronte alle sue angosce e fantasmi, farne entrare in crisi i riferimenti e recuperare l’incontro con il suo prossimo, con grande allegria. Per una società che cambia, occorrono «uomini nuovi».

Ci sarà sempre un rinnovamento a cui prepararsi ma per Lucio Dalla, a dispetto de L’anno che verrà, non sarà mai una novità. Se il presente l’annoia e il passato – anche se pieno di jam session con Chet Baker e Charles Mingus – lo infastidisce, essendo solo «una cosa che brucia in un secondo e mezzo», è il futuro ad interessarlo realmente. Così come i testi delle sue canzoni si riempiono di avvenire e domani, anche nelle interviste Lucio Dalla ritorna spesso sulla sua fiducia nel prossimo. Un ottimismo che non ha vaneggiamenti entusiastici, al contrario un’analisi puntuale della realtà, un accostamento prudente, al netto delle delusioni e dei fallimenti, che non reprime la sua forza di volontà: «La civiltà di un popolo si misura anche dalle canzoni che ha. Ma l’operazione uomo nuovo è importante in tutti i settori, nel cinema, nella scuola, in politica. C’è un obiettivo comune da raggiungere, la pace sociale. Senza la quale proprio non si avanti, non si vive». È questa cura per il futuro che lo spinge nel 1983 a intervenire in un dibattito sugli euromissili e chiedere a Bettino Craxi se l’Unione Sovietica è da considerare realmente un pericolo per l’Europa ed è la stessa attenzione che lo porta a criticare costantemente il Partito Comunista, colpevole di restare sempre un passo indietro, distante dalla realtà e «in un ritardo angosciante».

Un differimento dal mondo e dal tempo che il cantautore non perdona al suo gruppo politico, anche perché è una tensione continua al cambiamento che caratterizza la sua musica in quarant’anni. Un’apertura che non lo conduce allo snaturamento, ma solo alla curiosità di conoscere nuove strade: come i cani delle sue canzoni, Dalla non teme di essere senza padrone, ma si serve della libertà per andarsene in giro, fermarsi un po’ e sperimentare suoni e parole, annusare il pubblico per conoscerlo e farsi riconoscere: «Faccio questo lavoro perché amo la gente che ascolta le canzoni. La amo e la rispetto, quindi mi seccherebbe prenderla in giro con dei lavori standard».

E ricomincia il canto restituisce voce e visione di un artista che manca al panorama musicale, tanto quanto a una società sempre più satura di solitudini, egoismi e di eterni riformisti musicali nati già vecchi. Un funambolo che riesce a mantenere l’equilibrio tenendo testa a Giorgio Bocca, restare sul filo scherzando con Gabriella Ferri e paragonando Canzonissima a una donna delle pulizie. Un’eccezione che ha sempre ascoltato per farsi ascoltare, pensato al futuro per costruirlo e non ha mai temuto di cambiare per farsi accettare. Un unico e solo Lucio Dalla. «Mi secca dirlo, ma probabilmente sono bravo, questa è l’unica ragione del successo», come fare a non essere d’accordo con lui?