Vita e destino: la Russia e la vittoria sul nazismo

Tra le ricorrenze della Russia contemporanea, il 9 maggio, anniversario della fine della Seconda guerra mondiale in Europa, è di certo la più significativa. Nonostante la Giornata della Vittoria (Den’ Pobedy) sia direttamente legata all’affermazione dell’Unione Sovietica come superpotenza globale, fino al 1991 vi sono state solo quattro parate ufficiali (24 giugno 1945, 9 maggio 1965, 9 maggio 1985, 9 maggio 1990), e solo dal 1965 la data è diventata giorno festivo. Può sembrare un paradosso, ma è nella Federazione Russa, nata sulle rovine dell’Urss, che il 9 maggio assume un significato diverso, ed è con Putin che diventa una possibilità di utilizzo del passato per legittimare il presente. Prima di questo, è necessario provare a capire il perché del legame sentimentale con la memoria di una guerra terribile, volta alla distruzione totale dell’allora Unione Sovietica, e provare a farlo attraverso un film potrebbe aiutare a orientarsi meglio.

I numeri della Grande guerra patriottica, come è nota in russo, raccontano della tragedia dei popoli dell’Urss, vittime di una guerra di sterminio inimmaginabile, forse, oggi. 27 milioni di caduti, di cui più di 8 milioni militari, intere città rase al suolo, villaggi dati alle fiamme assieme agli stessi abitanti, la distruzione delle comunità ebraiche nelle repubbliche baltiche, in Bielorussia e in Ucraina, la morte per fame di più di un milione e mezzo di abitanti durante i 900 giorni dell’assedio di Leningrado. La Bielorussia, territorio particolarmente colpito dalle operazioni degli Einsatzgruppen tedeschi, nel 1939 contava 10 milioni circa di abitanti. Solo nel 1989 riuscì a recuperare le perdite demografiche del periodo 1941-1945, o scritto in un modo diverso: nel giro di tre anni di guerra, tanti quanti durò l’occupazione nazista, vennero uccisi 1 milione e 410 mila civili, pari al 22,4% della popolazione della piccola repubblica sovietica. È in questo scenario che è ambientato uno dei film sovietici più crudi e belli dedicati alla guerra mondiale, Idi i smotri (Va’ e vedi), citazione dell’Apocalisse, diretto dal visionario regista Ėlem Klimov e uscito nel 1985 per i 40 anni dalla vittoria sul nazismo. La pellicola racconta di come un ragazzino, Florian, si unisce a un gruppo di partigiani e lascia il proprio villaggio, per poi affrontare l’inferno della quotidianità dei territori occupati sotto amministrazione tedesca. Il ragazzo scampa alla distruzione della base partigiana nel bosco, dove era stato lasciato assieme ai feriti di guardia durante una sortita, durante un bombardamento, per poi tornare al villaggio deserto, dove non trova più la madre e le due sorelle piccole. Nella ricerca della propria famiglia e degli abitanti, scappati su un’isola poco lontana, Florian non si accorge dei corpi di alcuni contadini fucilati dietro una casa, tra cui forse vi sono sua madre e le sue sorelle, come scoprirà una volta giunto sull’isola. E qui vi è uno dei momenti forse più “letterari” del film, in cui Klimov si riallaccia alla grande tradizione dei Tolstoj e dei Dostoevskij, il tormento interiore, l’interrogarsi da parte del ragazzo di aver fatto o meno la scelta giusta nell’unirsi ai partigiani, il dolore di non aver ascoltato le proteste della madre che lo implorava di non partire. A convincerlo di non aver avuto scelta sono i suoi compaesani, che lo salvano dal suicidio.

Negli occhi di Florian vi è l’orrore vuoto, un orrore destinato a crescere e ad arrivare al culmine quando si trova durante una operazione anti-partigiana di reparti nazisti e collaborazionisti in un villaggio vicino. Le famiglie di contadini vengono chiuse in un granaio, le porte sbarrate, un ufficiale delle SS invita gli adulti a uscir fuori ma a lasciare i bambini dentro. In sottofondo, un altoparlante montato su un camion gracchia instancabilmente l’invito in un russo barcollante a sfollare il villaggio, andare con loro in Germania, paese di «grande e incommensurabile cultura», mentre Florian riesce a uscir fuori dal granaio poco prima che prenda fuoco. La musica viene diffusa a tutto volume per soffocare le grida dei contadini nel rogo, sotto lo sguardo vitreo del comandante e le risate grasse della soldataglia, che spara e getta bombe sul granaio. Florian viene preso e usato per una foto ricordo dei soldati, con una pistola alla tempia, per poi essere gettato nella pazzia. Il ragazzo si risveglia nel bosco, il reparto nazista è caduto in un’imboscata partigiana, e gli ufficiali provano a discolparsi, a evitare la morte dopo il massacro nel villaggio. Uno di loro però è un nazista convinto, forse cerca la “bella e eroica morte”, e si lancia in uno sproloquio dove espone i punti fondamentali del fascismo, concludendo con una frase eloquente: «non tutti i popoli hanno diritto alla vita, e voi non dovreste esserci». Se fino a quel momento al comandante partigiano era riuscito di tenere a bada i suoi, la frase del nazista è una sentenza di morte immediata, una ragazza fa fuoco e viene seguita dai suoi compagni. Intanto Florian fucila un ritratto del Führer, con la scritta in bielorusso di Hitler liberatore. Il ragazzo spara, e le immagini della guerra e dell’ascesa del nazismo vanno a ritroso, fino ad arrivare al putsch di Monaco e alla Prima guerra mondiale, e Florian spara, spara, spara, forse nel tentativo di riportare indietro il suo piccolo e grande mondo a quel che era prima, di ricacciare l’orrore, di cancellare l’abominio. Poi l’inquadratura si ferma su una foto di Hitler bambino in braccio alla madre, e Florian non ce la fa, non spara. In questo, probabilmente, c’è l’enorme differenza tra chi aveva fatto voto di eliminare quei popoli senza “diritto alla vita” e chi ha dovuto imbracciare le armi per rivendicare la propria esistenza.

Perché raccontare di Idi i smotri? Il 9 maggio a livello ufficiale oggi è presentato come una giornata di esposizione della propria potenza militare, con la grande parata che attraversa Mosca e termina nella Piazza Rossa, dove, vicino al Mausoleo debitamente oscurato, Putin annualmente commemora i caduti e al tempo stesso usa l’occasione per esprimere la sua visione sulla politica estera. Persino il simbolo coniato nel 2005, il Nastro di San Giorgio, ha a che fare relativamente con la Grande guerra patriottica, riproponendo nelle forme un’altra onorificenza anch’essa sì di guerra, ma dei tempi imperiali, l’Ordine di San Giorgio, ma riprendendo i colori del Nastro della Guardia, usato dal 1942 per alcune decorazioni dell’esercito e della flotta dell’Urss. E vi è una certa dissonanza a vedere in questi giorni le pilotki, le bustine militari, esposte vicino alle casse dei supermercati, tra un ovetto Kinder e l’ultima offerta sull’acqua Borjomi, o le divise per bambini, usanze che ai tempi sovietici non vi erano. È cambiata anche la percezione del minuto di silenzio, che fino al 1991 univa l’immenso territorio da Kaliningrad a Vladivostok, da Tbilisi a Murmansk, in un ricordo commosso dei caduti: oggi c’è ancora, ma sembra essere un elemento secondario, tra minacciosi adesivi attaccati ai lunotti delle macchine in cui è scritto “possiamo ripeterlo” e sconti di vario tipo per la Giornata della Vittoria. Ma resta qualcosa di ben più profondo, un sentimento di riconoscenza verso chi ha combattuto e chi è morto durante la guerra, rappresentata dalle fotografie dei propri cari pubblicate sui social network e anche portate in giro durante la sfilata del Reggimento immortale, iniziativa nata dal basso per poi vedere da anni tentativi di appropriazione della grande politica (senza riuscirci fino in fondo). Un sentimento di riconoscenza e d’amore che nasce proprio dagli orrori della guerra, dai villaggi incendiati, dalle fosse comuni, dai soldati morti per fame nei lager nazisti (la cifra arriva attorno ai 3,5 milioni), per avere il diritto a vivere in pace. E questo sentimento è molto più forte dei saldi e delle parate annuali, prevale sulla retorica del giorno di festa, e permette di unire, perché la guerra e la memoria sono sempre una grande questione privata.