Carrère non meditava, ora medita. Da giovane incontra William Hurt che meditava già e con l’aria figa di chi ha visto l’Asia e l’altro mondo: gli dice che vuole essere una persona migliore. Lui, giovane e coglione, gli chiede perché ci tiene tanto. Hurt fa il piacione, cincischia, poi gli sussurra: per essere un attore migliore. Carrère capisce che per essere uno scrittore migliore deve diventare una persona migliore. Si mette a meditare. Poi ci scrive un libro, ma non guarisce. In mezzo ci infila un mucchio di cose, persino uno spot per la scuola Holden di Baricco, dalla strage di Charlie Hebdo al dramma dell’emigrazione, dal suo ricovero in ospedale alle sue scopate, per poi dirci – sul finale – che due delle donne raccontante non sono proprio vere, forse per mettersi in guardia dagli attacchi che ha già ricevuto, preoccupandosi di un problema che non esiste: non conta la verità, ma la sua restituzione. Se persino Carrère si preoccupa della verità, come Marco Travaglio, allora è finito tutto.
Un libro di dubbi, malattie, dolori e meditazioni, questo Yoga (Adelphi). Un frittatone che commuoverà tutti quelli che l’hanno comprato per postare la foto della copertina fra le proprie mani. Emmanuel Carrère cerca la riconciliazione con se stesso e la propria vita, finendo per mostrarci tanta sofferenza e poca sostanza. Leggendolo – visto che è lo scrittore più influente d’Europa, non il più bravo – viene da ripensare a David Foster Wallace anche perché son quasi coetanei: Carrère è del 1957, e l’americano era del 1962. Solo che DFW aveva trasformato la sua inquietudine in un vortice di pagine, Carrère ne fa stagno e soprattutto meditazione. Un libro calmo, con qualche pagina da vecchio Emmanuel, tanto che per tutta la lettura risuonano le parole di Ėduard Limonov nelle interviste successive al celebre libro, che si arrogava il diritto del successo del francese. In realtà ci sono altri grandi libri, ed è innegabile che Carrère sia fondamentale per la letteratura d’oggi, come è innegabile che questo sia un libro cencioso. Tante, troppe toppe, ammicchi, ricerca dell’effetto, confessioni al limite della rivista patinata, poesiole, e compiacimenti con restituzione persino di interviste e articoli di altri su di lui, come nel caso dell’americano Wyatt Mason per il New York Times Magazine. C’è a chi piace, in fondo la letteratura è gossip fatto bene, a prescindere del personaggio – vero o inventato –, il punto è che questo nostro compagno di scuola che ci racconta tutto, sembra aver poco da dire. Dovrebbe soddisfare la curiosità esotica dei lettori, invece aggiorna l’album di famiglia.
È quasi sempre stato così, ma in Yoga succede una cosa stranissima: più Carrère elargisce dettagli su di sé, più precipita in basso dal punto di vista letterario, più fa diario più cresce la noia, dicendoci che per funzionare ha bisogno degli altri, perché da soli si vale poco. È un contrappasso meraviglioso, al culmine dell’autofiction, dopo una preparazione passata persino per il vangelo di Luca, oplà, sopraggiunge la noia flaianesca con conseguenze sordiane: Carrère facce Tarzan.
Sembra un Proust che gioca alla Playstation contro il suo personaggio letterario, in una partita continuamente interrotta da sms dell’uno all’altro e viceversa, i sussulti arrivano quando quegli sms li manda qualcuno di estraneo, come nel caso del suo editore, Paul Otchakovsky-Laurens.
La ricerca di dio diventa ricerca di sé, la ricerca di sé diventa letteratura, e poi riscrittura, e dopo perdita di senso. È l’epica del pollaio che si fa metanarrazione.