Giuseppe Zangara: il fallimento del colpo giusto

«Un fotografo, almeno un fotografo, per lasciare un ritratto da mettere sulla mia tomba ora che ritorno a casa. Attacca i fili boia, voglio rivedere lo Jonio».

Joe si era sempre sentito fuori posto in America, ci era rimasto solo per compiere la sua missione: dieci anni aveva atteso per cogliere l’occasione giusta, un tempo infinito a porgere calce ai mastri, a correre come un passero sui viali d’acciaio dei grattacieli in costruzione, a ingrassare il nemico. La missione l’aveva fallita perché i poveri spesso non hanno mezzi sufficienti per atterrare i tiranni. Era finita, ora non gli importava più, gli mancavano le querce e i lecci di Rudina dietro al suo paese, il velluto a coste con le righe scompigliate del suo mare che lo salutava sull’uscio di casa, a ogni alba. Il profumo delle ginestre spinose a primavera, l’odore del mosto che dopo la vendemmia faceva le bolle dentro i tini, l’aria che imprigionava zagare e gelsomini e ne teneva in giro il ricordo, fottendosene del succedersi delle stagioni, il pane caldo stretto al petto delle sere d’inverno, le grida della mietitura. Il sentore di povertà che inondava le case, le vie del paese, rendeva tutti uguali.

Tutta la vita di Giuseppe “Joe” Zangara era stata una mancanza: sua madre l’aveva mollato per il cielo che aveva solo due anni e lui quel cielo perennemente azzurro l’aveva sempre odiato. La scuola l’aveva mollato, mandandolo nei campi dopo due mesi. L’aveva raccattato l’anarchia, sullo spiazzo davanti alla chiesa, e a tredici anni aveva assaggiato le carezze del Re dritto sui denti: lo Stato finanziava le conquiste del Dodecanneso, le imprese di Libia, mentre il suo paese raccoglieva le macerie del terremoto del ‘5, poi del ‘7 e infine dell’’8. La Calabria insorse contro il Regno e i carabinieri reali le spararono addosso, era il ’13 e Giuseppe aveva 13 anni, partì da lì la sua missione, avrebbe ucciso il capo del male. Il Re d’Italia non lo uccise pure quella volta, nel ’22, per mancanza di soldi: lo fecero scendere dal treno per Reggio, senza biglietto, il Re fece la sua passeggiata sul lungomare reggino e andò via incolume.

Mancava, a Giuseppe, la sua terra ingrata che l’aveva mollato su un piroscafo napoletano, e dopo trentatré anni l’avrebbe mollato la vita, e lui il supplizio della sedia elettrica lo voleva affrontare con più gioia di Nostro Signore. Non aveva paura di morire, solo non gli andava giù di farlo senza un giornalista che raccontasse del suo coraggio, per questo incitava il boia a fare in fretta. E non gli andava giù di averlo fallito il suo obiettivo, il secondo tiranno scappato alla sua spada: quella stupida calibro trentotto a canna lunga non li valeva neanche i suoi otto dollari, ma lui aveva solo quelli e non avrebbe potuto permettersi altro, la pistola aveva sbagliato mira e invece di ammazzare F.D. Roosevelt, ammazzò Anton Cermak, il sindaco di Chicago. E nessuno ora avrebbe potuto dire se il mondo sarebbe cambiato senza quel presidente americano. E l’anarchia di cui Giuseppe era figlio non avrebbe mutato le sorti del mondo. Gli era mancato il colpo giusto, come in tutta la sua vita sempre qualcosa di importante gli era fuggita via al momento opportuno. Così si sforzava, non avrebbe voluto morire, avrebbe semplicemente voluto tornare a casa a Ferruzzano, ma era tardi ormai e questa volta il coraggio non doveva abbandonarlo. Lo tenne stretto, lo prese fra i denti. «Ecco come muore un anarchico», disse al boia che per pochi dollari lo avrebbe fritto. Giuseppe strinse gli occhi, in un attimo planò sui fianchi dritti e ispidi dell’Aspromonte, superò d’un balzo Rudina e tornò a Ferruzzano.