Quando Stalin uccise di fame milioni di ucraini

Da quasi due anni assistiamo alla tragica vicenda della guerra in Ucraina, con gravi episodi di violenza e morte insensata di cui veniamo ogni giorno informati dai media.

La Russia non riesce ad avanzare come vorrebbe il suo leader, ma controlla abbastanza agevolmente le regioni conquistate e sfrutta la supremazia aerea per continuare a colpire obbiettivi militari e, soprattutto, civili.

Una carestia che costò la vita a circa 7 milioni di persone

Questa situazione tanto drammatica, che è già costata la vita a decine di migliaia di persone, paradossalmente è molto meno grave di quella imposta all’Ucraina nel corso degli anni Trenta del Novecento dall’Unione Sovietica di Stalin.

Il leader comunista, infatti, nell’ambito della sua politica di collettivizzazione forzata delle terre, aveva deciso di eliminare fisicamente i kulaki ucraini, ossia i piccoli contadini che coltivavano appezzamenti di loro proprietà.

Per raggiungere lo scopo, impose, tramite l’esercito e la sua polizia politica, l’Ogpu, la confisca del grano e di ogni derrata alimentare, condannando in questo modo alla morte per fame dai 4 ai 7 milioni di persone (Lo stesso fece anche Mao coi suoi concittadini, arrivando qui a uccidere addirittura 50-60 milioni di cinesi).

Un romanzo storicamente accurato

Il nuovo romanzo di Ruggero D’Alessandro, La terra del grano nero (Castelvecchi, Roma 2023 125 pp. 16 euro) ci porta con penna capace dentro questo contesto fatto di disperazione, rabbia, lotta per la sopravvivenza.

È un paesaggio desolato quello che incontriamo in queste pagine, dove vengono catapultati da Mosca due funzionari della Ogpu, il carrierista e cinico maggiore Michail Salomov e la bella e determinata tenente Ljudmila Gromov.

Il loro compito è quello di indagare sulla misteriosa scomparsa di un graduato inviato in missione in uno dei tanti paesi sconvolti dalla fame e di cui sono state perse le tracce.

Il passo, l’intreccio del libro, i toni sono nelle battute iniziali quelli del romanzo giallo, dove le molte domande poste dal caso che i due protagonisti devono affrontare e il contesto del tutto originale – ricostruito con grande perizia storica, senza però appesantire la narrazione – catturano subito il lettore.

Lo sviluppo dei personaggi

Proseguendo però con lo sviluppo della vicenda, ci accorgiamo che lo spunto noir è soltanto l’occasione offerta all’autore per indagare l’animo umano, facendo de La terra del grano nero un romanzo di formazione.

Assistiamo infatti all’evoluzione dei protagonisti Salomov e Gromov verso una nuova consapevolezza sulla realtà del regime staliniano che li porterà a rivedere le proprie scelte di vita, fino a scoprire un orizzonte di nuovi valori in grado di trasformarli in persone diverse.

Intorno a loro, si rivelano le figure secondarie, ma molto forti e ben delineate dall’autore, dei contadini impoveriti e affamati e dei poliziotti con cui i due funzionari della Ogpu sono chiamati a collaborare.

È un mondo di diffidenze quello che devono affrontare, fatto di menzogne, depistaggi, nascondigli il cui unico scopo è quello di cercare di sopravvivere. In questo contesto estremo, l’uomo rivela la gamma delle sue possibilità, da chi è in grado di esprimere comunque una generosità verso l’altro, a chi invece è disposto a ogni compromesso pur di salvare sé stesso, dimenticando la pietà e la propria dignità di essere umano.

Il libro spiegato dal suo autore

Dentro questa terra desolata, compare come una luce improvvisa la figura fragile e meravigliosa di Olena, una ragazzina di tredici anni che Salomov e Gromov salvano da morte certa e diventa un forte fattore di coesione, non soltanto per i due poliziotti, ma per l’intera comunità di disperati.

Cercando di salvare lei, i contadini potranno salvare sé stessi, mentre i due agenti troveranno l’uscita dal vicolo cieco in cui si era cacciata la loro vita fino a quel momento, anche se, come in ogni grande romanzo, l’epilogo non sarà felice per tutti i protagonisti.

Incontriamo Ruggero D’Alessandro per discutere con lui di questo suo ultimo romanzo.

Ci potrebbe illustrare il contesto storico in cui si svolge la vicenda?

Si tratta di un quadriennio (1929/33) nell’Unione Sovietica di Iosif Stalin. Il suo potere assoluto e spietato è ormai consolidato dalla fine del decennio precedente, avendo messo in minoranza le opposizioni interne al partito comunista. L’Holodomor è un termine ucraino che indica uccisione tramite carestia. Il dittatore intende raggiungere quattro scopi organizzando una carestia dalle dimensioni mai viste e che produce dai 4 ai 6 milioni di morti. Anzitutto si deve realizzare la collettivizzazione forzata delle terre e della produzione agricola – malgrado la maggioranza dei contadini sia contraria. I sistemi sono tipicamente terroristici e causano il citato genocidio. In secondo luogo, Stalin vuole affermare metodi e ideologia che caratterizzeranno il quasi trentennio in cui resta indisturbato al comando dell’immenso Paese euro-asiatico. Terzo, si compie una vera pulizia radicale nel partito comunista dell’Ucraina, reso prono ai desiderata di Mosca e del tutto stalinizzato. È significativo che proprio in quel lasso di tempo emerge la figura del futuro capo della OGPU (poi NKVD), Lavrentij Berja, che infatti è ucraino. Infine, elemento tutt’altro che secondario, si crea quell’atmosfera mista di terrore, fame, omertà che anticipa gli anni delle “purghe”, i “processi di Mosca” fra il 1936 e il ’38. La scusa sarà, nel dicembre 1934, l’omicidio del potente segretario generale del partito di Leningrado, Sergej Kirov, assai popolare tanto da fare ombra allo stesso dittatore. Non sono pochi gli studiosi che attribuiscono tale assassinio allo stesso Stalin.

Nei suoi precedenti romanzi ha scelto come ambientazione sempre l’Italia, soprattutto la Sicilia e Palermo. Questo libro è stato scritto prima dello scoppio della guerra in Ucraina. Come è dunque arrivato a scegliere questo argomento?

Grazie alla scoperta nell’autunno ‘19 del volume sull’Holodomor della storica e giornalista statunitense Anne Applebaum; La grande carestia (edizione italiana Mondadori) è un gioiello di ricostruzione e analisi. Proprio leggendo quelle pagine mi è venuta poco a poco in testa la storia poi sviluppata un paio di mesi dopo nel romanzo.

Il gusto dell’ambientazione storica è prevalente nei suoi libri. Che ruolo ha la storia nel suo lavoro di autore?

Un elemento mi sembra naturale quanto arricchente la forma romanzo: il dialogo fra la storia dei personaggi, quello che gli anglofoni chiamano plot, in riferimento a film e libri, e la Storia dell’umanità.

Abbiamo detto all’inizio che i personaggi vivono un’importante evoluzione durante il racconto. Cosa ci può dire del maggiore Salomov?

M’interessava provare a raccontare un personaggio dai tratti decisamente respingenti: cinico, arrampicatore sociale, ambizioso, donnaiolo. Ma al contempo assai intelligente e appassionato di filosofia e letteratura: elementi inediti per un alto ufficiale della spietata polizia politica, l’OGPU dell’epoca staliniana. Per, poi, via via nello svilupparsi del racconto farlo cambiare in meglio, spero in modo non brusco ma credibile. È una bella sfida per uno scrittore.

Accanto a lui c’è la figura bellissima della Gromov. Ce la può raccontare brevemente?

È una ragazza cresciuta, si direbbe, a pane e ideologia bolscevica. Per ovvie questioni anagrafiche – è nata intorno al 1906, 1907 – ha conosciuto quasi soltanto la realtà della Russia trasformata in Unione Sovietica. Nel viaggio in Ucraina cambia anche lei; cerco, comunque, di mantenere due identità diverse fra lei e Salomov. La conquista di una diversa visione del loro mondo li farà avvicinare.

Il terzo elemento di forza è costituito da Olena, la ragazzina tredicenne di cui i due poliziotti diventano i protettori. Cosa ci può dire di lei?

È un personaggio che concentra in sé caratteristiche che mi sembrano farsi specchio della tragedia vissuta dalla terra d’Ucraina nella prima metà degli anni Trenta. Anzitutto, Olena è un’adolescente spinta a crescere troppo velocemente, a cui sterminano l’intera famiglia. Deve sperimentare lezioni inedite a quell’età: sfuggire ai propri nemici – i poliziotti stalinisti – procurarsi un po’ di cibo in un mondo che ne è ormai quasi del tutto privo per volontà politica, mantenere la forza per restare in vita. L’immagine del formarsi di un trittico, ovvero il maggiore, la tenente, la ragazzina, che ricorda una famiglia, è un effetto del tutto intenzionale.

Uno dei protagonisti del libro è certamente il paesaggio. Ci racconti un po’ del suo metodo di lavoro e di come è riuscito a ricostruire un contesto che oggi possiamo solo immaginare.

Non ho ancora avuto la fortuna di visitare quelle terre: e visto il dramma dell’aggressione subita dalla Russia putiniana chissà quando potrò andarci. Mi sono basato su alcuni intensi ricordi del viaggio nella regione di Pietroburgo e Vyborg che ho fatto nel ’16; ai quali ho aggiunto le foto raccolte nel volume della studiosa statunitense.

Non è possibile naturalmente estrapolare da un romanzo un messaggio, ma uno dei temi forti che emerge dal racconto è la possibilità offerta e chiunque, in qualsiasi contesto, di poter operare per un bene che salva chi lo compie, indipendentemente dal suo destino. Cosa ci può dire a riguardo?

Un antico detto ebraico, tratto dal Talmud, così recita: “Chi salva una vita, salva il mondo intero”. Ed è giustamente riportato nel capolavoro di Spielberg La lista di Schindler. Non credo siano necessarie ulteriori spiegazioni.