La morte, il ricordo, l’eredità di Gabriel García Márquez

Aveva rifuggito la morte per tutta la vita, ma ciò che più disprezzava Gabriel García Márquez della sua scomparsa, era la certezza di non poter essere presente per raccontarla.

Così, anche per assolvere a un compito cui il padre non avrebbe potuto portare termine, Rodrigo García scrive Addio a Gabo e Mercedes (Mondadori 2023, pp. 160, traduzione di Giulia Poerio), accostandosi per la prima volta al terreno, dominio unico, di un genitore inimitabile: la letteratura.

Perché Rodrigo García – regista, sceneggiatore e produttore cinematografico – ha scelto la metà del mondo che a Gabo non interessava: una carriera negli Stati Uniti, l’inglese nella comunicazione e l’inquadratura come unità narrativa.

Più per inclinazione personale ed evitare un paragone, che per entrare in conflitto. Solo dopo la scomparsa dello scrittore, nel 2014, decide di smarcarsi dal ruolo di figlio e inizia a prendere appunti.

Un ritratto della fine

Ma pur avendo la possibilità di riportare nel dettaglio un memoir con ricordi, aneddoti e avvenimenti su Gabriel García Márquez, il Premio Nobel per la letteratura colombiano che tutto il mondo conosce, Rodrigo García sposta il baricentro sulla cronaca di una morte annunciata di un padre, che per tutta la vita ha avuto come unica priorità la scrittura.

Non c’è volontà di rimarcare e riattraversare le tappe fondamentali di un personaggio pubblico, quanto prendere le misure, da figlio, del dolore e della perdita, estraniamento e reazione.

Gli ultimi momenti di lucidità 

E le pagine di Addio a Gabo e Mercedes scorrono con dolorosa rapidità e coscienza, l’ineluttabilità della fine e l’accelerazione degli eventi, come se la morte procedesse su un piano inclinato: appena cominciata la discesa è impossibile fermarla e tutto acquista sempre più velocità.

Anche per questo la scrittura di García non conosce tentativi di emulazione del padre: non ci sono lunghe digressioni e prove per ostacolare e prendersi gioco del tempo che passa.

Brevi ricordi, insegnamenti – tra tutti “Non essere disonesto” e “Cerca di perdonare i tuoi amici, così forse loro perdoneranno te” – , istantanee di una normalità irrecuperabile, come i momenti di consapevolezza dello scrittore in agonia.

La morte di un uomo che apparteneva a tanti

E trasgredendo, in parte, a una ricerca e tutela della privacy che la madre Mercedes aveva sempre inseguito, García apre al lettore le stanze della malattia, la camera mortuaria, la sala per la cremazione, non solo perché il padre “apparteneva anche a molte altre persone” che non fossero amici o parenti, ma per restituire un’esperienza personale del lutto che spetta a ognuno.

A sorprendere di Addio a Gabo e Mercedes non è solo la straordinarietà della morte di Marquez, come della moglie, anni dopo, ma l’universalità di ragionamenti, dinamiche famigliari e anche risate inaspettate che restano nella memoria dei giorni terribili.

Nella stanza con lui 

Come le infermiere che si alternano al capezzale dello scrittore, il memoir offre l’opportunità di restare in quella stanza, ciascuno con la mente da un’altra parte: “Lo sfondo svanisce e ciascuno ha il proprio incontro individuale, non solo con il defunto ma anche con l’evento in sé, come se la morte fosse una proprietà comune. Non si può negare a nessuno un rapporto personale con la morte, l’appartenenza a quel club.” Ed è in questo comune sentire che la letteratura vive.

Sovvertendo l’immagine canonica dell’assenza, García riempie le pagine con l’immanenza della morte, una realtà che non si determina solo nella mancanza dei battiti, ma nei pensieri che quotidianamente riportano a ciò che non è più: “Penso a mio padre ogni mattina quando mi asciugo la schiena con un telo nel modo in cui lui mi ha insegnato a farlo… Ricordo mia madre ogni volta che accompagno un ospite che sta per andarsene all’ingresso, perché non farlo sarebbe imperdonabile, e ogni volta che verso dell’olio d’oliva sul cibo”.

Ciò che rimane

Un bagaglio di gesti e idee, sguardi e caratteri, che non si esaurisce, ma sopravvive con figli, nipoti e amici. Una magia propria del Messico, casa scelta da Marquez come residenza, pari a quella della coincidenza della morte di Úrsula Iguarán, descritta in Cent’anni di solitudine: come il suo personaggio, muore di Giovedì Santo, con “uccelli disorientati che vanno a sbattere contro le pareti e cadono morti”.

E se la vita, come la morte, supera spesso l’immaginazione e la coincidenza, non si può che attraversarla per farne letteratura: “Io so solo che non vedo l’ora di raccontarlo a mia volta”.

È un diario intimo nei giorni della resa Addio a Gabo e Mercedes, un tentativo riuscito di restituire un po’ del privato (che non sia segreto) all’immagine pubblica, senza abbondare il pudore.

Un inventario di frammenti quotidiani – lo scandire delle ore lavorative di Marquez, la disperazione della perdita della memoria, la voracità di letture, persone e vite diverse – che attraversano la mente di un figlio nel momento in cui il padre sta per abbandonarlo. Un padre grande come un pianeta.