La vita di Susan Sontag in quattro atti (e un epilogo)

Benjamin Moser, premio Pulitzer nel 2020, ha pubblicato una monumentale biografia di Susan Sontag basandosi su molteplici fonti, dagli archivi riservati della scrittrice alle centinaia di interviste realizzate dal giornalista.

Fra di esse spicca quella ad Annie Leibovitz, per circa venti anni amica e intima compagna di Susan. Michael Cunningham ha detto che se risulta arduo immaginare la cultura americana senza i contributi poliedrici di Sontag, diventerà quasi impossibile rievocarne in modo adeguato l’esistenza senza l’avvincente racconto di Moser.

Non ci si lasci intimidire né ingannare dalla lunghezza: le quattro macroparti dell’opera, suddivise in capitoli per un totale di quarantatré, più l’epilogo che funge da sigillo della parabola umana di Susan e della narrazione stessa, diventano una lettura quasi compulsiva, una sorta di romanzo epico fitto di colpi di scena e di scarti narrativi che mettono in scena una vita lunga 71 anni ma feconda di esperienze come poche altre.

Una figura chiave del XX secolo

Susan è stata una delle protagoniste più originali della cultura americana del ventesimo secolo, al di là degli incantesimi o delle idiosincrasie che suscitava intorno a sé. Mai, in ogni caso, passava inosservata. Lasciò segni, disseminò parole e suggestioni nei mondi non soltanto accademici della letteratura, della fotografia, dell’indagine sociologica e della politica come gesto impegnato. Era bulimica e curiosa verso ogni ambito del sapere e a tale volontà di conoscenza non si sottrassero la scienza, i progressi della medicina e le rivoluzioni della psicologia moderna postfreudiana.

Moser parte dall’infanzia e rievoca le figure della madre, bellissima e problematica, incline all’alcol e al culto di un’estetica lussuosa che inseguirà fino alla fine, e del padre, mitizzato anche perché precocemente scomparso, quando Susan aveva solo cinque anni.

C’è una fotografia del 1919 che ritrae mamma Mildred e la nonna Sarah Leah, mentre prendono parte a un docufilm realizzato a Hollywood, allora poco più di un quartiere dimesso e periferico dove si iniziava a pensare e a parlare della settima arte, sul massacro subìto dagli Armeni.

Il “fascino” dell’orrore

Susan stessa, da adulta, sarà a lungo ossessionata da questioni legate alla crudeltà e alla guerra che ne fa un uso smodato e incomprensibile. Il problema, per lei, non era un’astrazione filosofica: i soggetti ritratti nelle sue foto dal fronte non realizzano quanto sia loro prossima la catastrofe. Nessuno lo sa mai.

La frattura per Susan avvenne in una libreria di Santa Monica, dove un giorno entrò e vide alcune fotografie dell’Olocausto. Sentì una sorta di vocazione e di repulsione morbosa verso le immagini che ritraevano l’orrore, ma ne fu conquistata. L’affermazione di sé come donna pensante doveva transitare anche da lì.

Miss Librarian a New York

Era molto bella, eppure nessuno quanto lei dedicò meno impegno alla cura del corpo, rasentando talvolta la sciatteria e la mancanza di igiene. A trentadue anni era già “Miss Librarian” e frequentava la crema di New York, fra cui i Kennedy e Richard Avedon. Cultura alta e bassa: cercava di mescolare tutto.

L’interesse verso la fotografia e il cinema crebbe parallelamente alla voracità nei confronti della grande letteratura, soprattutto europea: riteneva che enorme e incolmabile fosse il divario tra una cosa e una cosa percepita. Per Sontag, scattare foto era un atto di violenza, soprattutto se si trattava di “foto rubate”, prese di nascosto dal soggetto. “Un’immagine corrompe la verità e offre un’intimità fasulla”, sentenziava.

L’omosessualità negata

Il successo letterario di Sontag fu rapido e spettacolare, agito sotto gli occhi del mondo. Poco prima di morire, andò in Bosnia a mettere in scena un’opera teatrale, sconvolgendo molti dei più impegnati fra i suoi conoscenti della snobistica cerchia di intellettuali di New York.

Fino all’ultimo, Susan credette nel valore almeno in parte consolatorio dell’arte: libri, cinema e teatro. A livello privato, si sposò presto con un professore più anziano, Philip Rieff, da cui ebbe a diciannove anni un unico figlio, David.

Il matrimonio non era destinato a durare, anche e soprattutto per la fatica olimpica, da parte di Susan, di negare le proprie autentiche inclinazioni sessuali verso le donne. Accumulò, a un certo punto della sua giovinezza, relazioni erotiche fugaci con uomini, per contrastare l’ossessione verso le donne.

Saggi e romanzi

Il Camp fu il grande argomento della sua vita e nel 1964, pubblicando il saggio Note sul Camp, dimostrò di essere la prima studiosa ad avere analizzato un fenomeno tanto radicale e invasivo nella cultura occidentale contemporanea: Camp altro non è che l’uso deliberato, sofisticato e consapevole del Kitsch all’interno di varie forme d’arte. Scrisse anche alcuni romanzi, il più celebre dei quali fu il primo, Il benefattore, che inizia con la parafrasi della nota frase di Cartesio, “sogno, dunque esisto”.

Dall’Infanzia ai 25 anni

Sua madre Mildred era la regina della negazione. Perseguitata dal ricordo della morte della propria madre per intossicazione alimentare, Mildred amava la Cina, dove con il marito commerciante aveva trascorso anni, servita e accudita.

L’estremo Oriente fu la grande occasione della sua vita, che rimpianse a lungo. Ebbe due figlie, Susan e Judith, ma scarso o nullo istinto materno. Fuggiva dai lutti e li negava: non parlò della morte del marito per tubercolosi, in Cina, lo riportò a New York e lo fece seppellire nel Queens, nascondendo alle figlie il luogo esatto di sepoltura.

Questo “dolore incompleto”, il padre perduto a soli cinque anni, nel 1938, ferì Sontag per sempre. La madre, dopo essere rimasta vedova, la mandò a Camp Arrowhead, d’estate, per essere più libera, incontrare uomini, dedicarsi alla cura di sé, all’alcolismo e alla seduttività esasperata.

Una madre distante

Susan odiava quel luogo e riuscì a fuggire: la solitudine e il senso di abbandono erano compagni tenaci che la resero, per quanto faticasse ad ammetterlo, un’adulta insensibile e incapace di immedesimarsi con gli altri, secondo molte delle sue amanti. Era “la figlia di sua madre”, per quanto volesse prenderne le distanze.

Con la famiglia (nel frattempo, Mildred si era risposata) si spostava di frequente: cambiavano luoghi, Stati e scuole con apparente facilità, ma per Susan era un vagabondare privo di interesse. In classe si annoiava e faticava a stringere amicizie meno che superficiali, anche perché era iper dotata intellettualmente, acuta e carismatica. Sviluppò nell’adolescenza un culto estremo verso alcune donne che avevano raggiunto risultati eccellenti nelle scienze, per esempio Marie Curie.

La famiglia era di origine ebraica, ma senza l’ossessione per i rituali religiosi o la pratica delle tradizioni. Eppure lei una volta si definì “ebrea, poi scrittrice, poi americana”. Faticò tutta la vita a trovare qualcuno con cui conversare che fosse alla sua altezza e ciò non fece che aumentare le inquietudini e i tentativi, in parte falliti, di manipolare o “educare” chi gravitava nella sua orbita: in primis, la sorella minore Judith, non altrettanto brillante.

I libri della sua formazione

Da sempre la lettura e la scrittura come atto quasi ininterrotto furono i suoi demoni: scrivere era necessità, un viaggio continuo e l’unica possibile evasione. Durante la seconda guerra mondiale, improvvisò la stesura di alcuni reportage e iniziò a sviluppare un’attenzione estrema al linguaggio. Fra i romanzi che la folgorarono emerge Martin Eden: come Jack London, percepiva che non esisteva alcuna reale possibilità di essere felici. Fu suggestionata dall’associazione che l’autore faceva tra il sonno, la morte e l’accidia. Quest’ultima, temuta come una grave patologia.

Quando nel 1949 incontrò in California un altro dei suoi miti di formazione, un dio che riteneva irraggiungibile, lo scrittore tedesco Thomas Mann, provò un estremo sentimento di vergogna, quasi di tipo erotico, come se fosse andata a fare un giro in un bordello. Si sentì piccola e miserabile.

Molte furono le letture che contribuirono a plasmare la sua affamata immaginazione; fra le più intense, La foresta della notte, di Djuna Barnes, compulsato più volte durante gli anni a Berkeley. Un incantesimo, che le mostrava la via di un erotismo senza sensi di colpa e fluido, arricchito da esperienze bisessuali e da una curiosità sensuale onnivora. Scrisse The Bi’s progress, un elenco di incontri intimi avvenuti tra il dicembre del 1947 e l’agosto del 1950: raccontò, in modo scientifico e pianificato, di essere andata a letto, in un anno di college, con trentasei persone diverse.

L’Università e il matrimonio

Fondamentale fu l’ingresso, tanto desiderato, all’Università di Chicago, dove la meritocrazia era un valore assoluto e la formazione degli studenti basata sull’applicazione disciplinata del cosiddetto Common Core, una lista di impegnative letture dei grandi classici.

Conobbe Philip Rieff, che aveva origini modeste di cui si vergognava e che cercò di riscattare attraverso la carriera accademica e un matrimonio borghese tradizionale. Susan aborriva una condizione di famiglia allargata dove tutti vivevano sotto lo stesso tetto. Si sentiva in trappola. Rimase incinta, abortì. Rimase incinta una seconda volta ma il marito rifiutò di assecondarla, temendo per la sua salute.

Una volta sposata, lo slancio vitale di Susan si affievolì e il matrimonio venne percepito come trappola asfissiante. Visse la “perdita di controllo e perdita del sé”, che lei stessa aveva provocato. Ai sensi di colpa, si aggiunse la scarsa autostima. L’aborto del primo figlio coincise anche con la fine del rapporto simbiotico con la madre, quando le comunicò per telefono la volontà di interrompere la gravidanza: Mildred ebbe un attacco isterico. David, partorito nel 1952, deve il nome alla scultura di Michelangelo.

Gli studi di filosofia

Furono gli anni dedicati allo studio di Freud e a quello che Sontag definiva il “suo sadico concetto di coito”. Lo psichiatra viennese le parve essenzialmente un moralista, più che un rivoluzionario.

Sempre alla ricerca di stimoli più alti e di autoaffermazione intellettuale, si trasferì ad Harvard, dove passò dal Dipartimento di anglistica, che trovava noioso e concepito per studenti poco seri, a quello di filosofia. Le eresie medievali costituivano un’alternativa interessante alla filologia e all’esegesi letteraria: misticismo cristiano, identità ebraica e innamoramento verso Cioran, a cui dedicò un saggio.

Frequentava i coniugi Taubes, parenti prossimi e discendenti diretti da rabbini europei. L’antico gnosticismo preveda una mentalità sincretica di più culti e religioni mediorientali. Antonin Artaud fu per un certo periodo venerato da Susan come gnostico moderno. Nel frattempo, aumentava l’insofferenza verso la dimensione coniugale: “lo scopo stesso del matrimonio è la ripetizione, l’ottundimento reciproco”.

A venticinque anni, nel 1958, s’imbarca su una nave e attraversa l’oceano, destinazione Oxford.

Gli anni della maturità

In Inghilterra sognava di approfondire la filosofia analitica, ma si rese conto che era per lei una disciplina troppo angusta. Non amava vivere in una terra che aveva idealizzato e che ora scopriva fredda e umida; si lamentava sempre e teneva il pigiama sotto i vestiti.

La sua anima romantica si aspettava chissà cosa dall’Europa – viaggi e avventure -, invece si ritrovò nello stesso rigido ambiente accademico in cui si era formata. Per Susan, il radicalismo politico era possibilità di sperimentare la libertà personale e quella che lei amava cercare in sé e negli altri: “l’autocreazione”.

Si trasferì presto a Parigi, dove frequentò gli esistenzialisti, i filosofi e i narratori snobbati dal mondo angloamericano. Iniziò relazioni con varie donne: la più distruttiva fu quella con Harriet, che era gelosa e la sottometteva in molti modi.

Liberarsi di Freud

Quando tornò in California, chiese a Philip il divorzio, tramite una lettera in cui non attribuisce all’uomo alcuna colpa. All’inizio del 1959 andò a vivere a New York, con il piccolo David. Era sempre più attratta da personaggi folli o comunque eccentrici, perché la autorizzavano a comportarsi allo stesso modo.

Studia e legge e scrive e rilegge, con intensità a tratti morbosa: niente le basta mai, deve eviscerare ogni dettaglio, comprendere le sfumature di sistemi di pensiero che non la convincono fino in fondo. Bisogna “liberarsi” di Freud e della morbosa introspezione della psicologia, soprattutto nei romanzi, conservare la decifrazione dei sogni. Lo straniero di Camus le fornisce alcune risposte, nel Benefattore si avverte l’influenza dell’autore francese.

Il secondo matrimonio e la Factory

Mentre definisce la sua interpretazione di Camp, che permette di vedere il mondo attraverso la lente di un enorme fenomeno estetico, nel 1962 conosce un uomo, ebreo e proveniente dall’alta società di New York: Roger Straus. Il matrimonio fu celebrato al Guggenheim, nella ziqqurat capovolta di Lloyd Wright.

Moriranno entrambi nel 2004, a pochi mesi di distanza. Lui aveva pubblicato tutti i suoi libri. Nel 1964, Susan entrò alla Factory di Wahrol, artista cattolico, semplice, diretto e contro l’interpretazione. Per la terza volta, Sontag compì un viaggio in Europa. Era ammaliata dal Camp perché conteneva qualcosa di folle, divertente. Si sforzava di dormire di meno per produrre di più: per riuscirci, scoprì le anfetamine e iniziò ad abusarne.

Le idee politiche

Sontag rifletteva e discettava di ogni fenomeno, anche della pornografia, che la incuriosiva perché non parlava realmente di sesso, bensì di morte. Le raffigurazioni di prostitute (etimologia greca di pornografia) evocano e indicano corpi che tendono al disfacimento.

Fu attratta, come molti in quel decennio, dal comunismo, un’idea politica romantica impossibile in patria. Nel 1967, il suo antiamericanismo conseguente al protrarsi della guerra in Vietnam la portò a un’aspra polemica. Prima e dopo il viaggio ad Hanoi, fu indotta ad assumere un atteggiamento più pacifico.

La passione per il cinema

Viene invitata in Svezia a realizzare un film sui disertori del Vietnam. Per Sontag, l’arte moderna è la scoperta e la presa di coscienza che sotto la realtà logica del visibile si cela con forza quella alogica dei sogni. L’arte, anche cinematografica, può metterla in scena.

La smodata cinefilia di Susan, ereditata dalla madre, era diffusa negli anni Sessanta. Febbrile era la frequentazione dei cinema, quasi un luogo di culto con masse di discepoli adoranti. Il cinema come occasione di formazione, di visione del mondo, di crociata. Il prolifico Godard assurse a mito assoluto, quasi un asceta dello schermo. “Una tarantola dalla pelle calda”, girato da Susan in Svezia, è un’altra messa in scena della “morte fasulla” che la tormentava.

Viaggio in Italia

Le sue esperienze omosessuali si intensificarono e perse la testa per una nobildonna italiana, Carlotta di Aianello. La duchessa era pigra e non faceva nulla, tranne stare a letto per ore a rollarsi le canne. Il contrario esatto della “volontà radicale” di Susan. Bellissima, drogata e inaccessibile, Carlotta le ricordava Mildred. La relazione durò un anno – dal 1969 al 1970 – e Susan ne uscì ancora più depressa.

Per lei, la mente sarà sempre “un inquilino irrequieto” del corpo. Mangiava in modo vorace, anche cibi esotici e disgustosi, si rimpinzava con volgarità: anche questo era un modo di affermare che possedeva un corpo.

Volontà e rappresentazione

Nel 1971, a Cannes, mesi dopo la fine della storia con Carlotta (“la solitudine è infinita. Un mondo nuovo. Il deserto”), conosce Nicole Rothschild. Diventano amanti, Nicole la accudisce davvero. La bambina nascosta nell’adulta Sontag trae nutrimento e fiorisce. La fotografia ha una parte sempre più ampia nelle sue giornate: è un rapporto ondivago e ambivalente, di amore e di odio.

Quando l’amica e geniale Diane Arbus si suicida, nel 1971, si comincia a organizzare una grande retrospettiva dei suoi lavori che andrà in scena al MOMA, l’anno seguente. Susan osservò la mostra con rispetto e fascinazione: era un poderoso “freak show”, era la concretezza del Camp, dove il mondo stesso è raccontato “come volontà e rappresentazione”.

Cosa è appropriato e cosa è osceno nella fotografia? Quando fu prossima alla morte, nel tardo autunno del 2004, Leibovitz le scattò una serie di foto mentre era distesa sulle barelle in ospedale, sfatta e gonfia per le chemioterapie. In Bosnia, Susan aveva capito che le fotografie di guerra potevano non essere morbose, bensì un atto di amore.

I libri sulla malattia

Il 28 ottobre 1975, subisce una mastectomia totale al seno sinistro. Ha 42 anni e un cancro metastatico al quarto stadio. Si salva, anche grazie alla terapia immunologica a cui si sottopone a Parigi, dopo trenta mesi di bombardamento chemioterapico.

Pubblica Malattia come metafora. Il cancro era semplicemente una malattia e andava separato da miti e metafore fuorvianti, come era accaduto negli scritti di Galeno non meno che in Freud.

I due libri di Sontag sulla malattia (il primo è del 1979; L’AIDS come metafora uscì dieci anni più tardi, nel 1989) furono illuminanti e di aiuto come poche altre sue opere. Il ritratto di repressione, introversione e tristezza, duro a morire e associato alle gravi patologie la irrita.

La medicina come credo

Combatte i luoghi comuni sugli ammalati. Susan aveva trascurato il proprio corpo per tutta la vita e nei diari si colpevolizza. In realtà, la patogenesi del cancro è molto complessa. A un certo punto smise di sentirsi responsabile, perlomeno così racconta nei due saggi sulle malattie, si autoassolse e predicò una fede cieca nella scienza che cura in modo razionale e chimico, contro i rimedi naturali e la psicologia da strapazzo.

Era fiera di avere creduto nei medici e di essersi affidata alle loro terapie migliori e innovative (grazie a raccolte fondi organizzate da amici ricchi). Nel 1975, quando la malattia si rivelò con aggressività, sostituì la metafora della psiche con quella della scienza, che diventa la religione laica a cui affidarsi. Non escludeva in modo drastico “il potere della mente”: l’amica Felicia Bernstein, moglie di Leonard, sarebbe dal suo punto di vista morta di cancro in quanto disfattista. Ammirava invece la volontà di potenza di Lance Armstrong. Si sentiva forte e guerriera, dunque destinata a sopravvivere.

La vita dopo i 40 anni

Walter Benjamin, ammirato da Sontag per le loro affinità elettive e come acuto aforista, scrisse che l’allegoria è l’unico divertimento concesso al malinconico. I malinconici, in quanto ossessionati dalla morte, sono gli unici a sapere leggere e a decifrare con esattezza il mondo. Anche il mondo è un testo da decodificare. È indispensabile nascondere il disagio sociale con la scrittura e la lettura. Lavorare tanto, sempre di più.

Il vero terrore è che la morte ti colga PRIMA di concludere l’opera. La famiglia e i legami naturali sono un salasso di volontà e di indipendenza, distraggono e interrompono. Benjamin era un collezionista maniacale e fra i motivi che lo indussero al suicidio ci fu l’impossibilità di recuperare la biblioteca lasciata dietro le linee naziste.

“Imparare tutto”

I sentimenti di superiorità ma anche di inadeguatezza, secondo Sontag, devono essere mascherati dalla cordialità esibita, dal ruolo. Scrive un saggio su Canetti, La mente come passione, nel 1980, un anno prima che gli venisse conferito il Nobel.

In Canetti, Susan trovava non solo una sorta di padre, ma di genealogia. Broch, come Canetti e Susan, trema all’idea dei fogli di calendario che cadono e si ripromette di “imparare tutto”.

Canetti considera solo la mente come possesso perenne, il declino del corpo e dei desideri non lo riguarda. Vale la durata della mente, la sua conservazione. La letteratura genera la vita e mantiene il ricordo dei grandi: Canetti rende loro omaggio perché odia la morte.

Brodsky e Arendt

Superati i 40 anni, scemano anche per Susan i giovanili entusiasmi verso il comunismo. L’amico Brodsky, che amò moltissimo perché finalmente aveva un interlocutore alla pari, andò in esilio. Dopo la morte dell’uomo, si sentì completamente sola. “Si dovrebbe scrivere per soddisfare non i contemporanei, ma i predecessori”. Vangelo, per Sontag. Essere all’altezza, provarci. Brodsky proponeva l’Homo legens come paradigma esistenziale.

L’antisemitismo di Ezra Pound era una colpa: per l’intellettuale russo e per Susan l’antisemitismo era proprio quel genere di “volgarità dell’immaginazione e del cuore umano” che entrambi disprezzavano. Scrisse che “la bellezza e l’estetica sono concetti assoluti, apolitici”.

L’arte come mezzo per sfuggire alla malinconia dell’io. Farsene possedere. Susan non volle mai farsi inquadrare nella definizione di “femminista”, che alla fine degli anni Settanta cominciava a perdere la sua forza. Entrò in aperto conflitto con Adrienne Rich. Il suo modello era Hannah Arendt, secondo la quale l’uguaglianza passa dal talento. Sesso e politica furono due argomenti sempre deboli in Sontag.

La famiglia e il figlio David

Intanto, le relazioni con i familiari erano tese, le visite difficili. La sorella Judith si era sposata e trasferita a Honolulu, dove la raggiunsero Mildred e il marito Nat. I conflitti tra Mildred e Susan esistevano più nella testa di Susan che nella realtà.

Con il progredire della malattia e del dolore fisico, Sontag diventa più insensibile, dice bugie. Ignora gli altri come “chiave della sopravvivenza”. Il figlio David, tornato a 23 anni a Princeton, non fu mai all’altezza culturale della madre. Susan era elitista, non snob: amava circondarsi di persone eccellenti, che avevano conseguito grandi risultati.

David si laureò a Princeton nel 1978 e la madre cercò di imporlo nel mondo editoriale. Il ragazzo non aveva grandi competenze, viveva di luce riflessa della madre ma parlava fluidamente francese e spagnolo. Susan lo volle come editor personale. Negli anni Ottanta, ormai un’icona intellettuale molto temuta, scriveva racconti e maturava una depressione che la indusse a considerare il suicidio.

Addio al comunismo

Disprezzava il postmodernismo in quanto rendeva tutto equivalente, una sorta di shopping culturale. Nel 1982, Susan fece un gesto eclatante, rinnegando pubblicamente il comunismo. Dagli anni Ottanta in poi, l’attivismo politico lasciò il posto a quello liberale, che sosteneva la cultura come unico baluardo contro la barbarie. Viaggiare “per dire addio alle cose belle”.

A Venezia, mise in scena per la tv italiana Giro turistico senza guida, con protagonista la ballerina Lucinda Childs. Si innamorarono.

Nel 1982 David ha 30 anni e un crollo nervoso. Lo operano per un’escrescenza alla colonna vertebrale allo Sloan Kettering, dove anche Susan anni prima si era sottoposta a mastectomia. Lui l’aveva accudita, lei non farà con il figlio la stessa cosa.

L’epidemia di Aids

Parte per l’Italia, dove lavora fino a sedici ore al giorno, pare instancabile. Comincia a farsi di speed e di anfetamine, andrà avanti per decenni. Poi la salute psichica ne risente. Iniziava a diffondersi l’epidemia dell’AIDS: un tabù, se ne tacevano e dissimulavano le cause.

Alla sindrome da immunodeficienza acquisita Susan dedicò centinaia di pagine dei suoi diari. La madre Mildred morì di cancro in un ospedale a Honolulu, all’età di 80 anni. Le sorelle si riconciliarono. Susan raddoppiò gli sforzi per apparire perfetta. Sostenne pubblicamente Salman Rushdie e il suo testo condannato senza essere stato letto dai detrattori.

L’incontro con Annie Leibovitz

Conobbe Annie Leibovitz: la fotografa, consacrata da Rolling Stone, dava un’importanza enorme al corpo e alla sessualità. Entrava nelle case delle persone a cui era interessata, forzava la mano.

Concepiva la fotografia come perversione e appropriazione dell’altro. Il modello era Diane Arbus. Drogata pesantemente, assumeva speedball con John Belushi, che sarebbe morto di overdose.

All’inizio di quella che sarà, tra alti e bassi, una delle relazioni più significative della vita di entrambe, Susan era tiranna e meschina con Annie, che la adorava e la manteneva nel lusso, pagando i conti.

Nessuno sfuggiva al fascino di Sontag che, pur essendo inetta nella quotidianità e bisognosa di essere accudita, emanava fascino: ogni persona desiderava una sua opinione su qualsiasi argomento. Mentre stava con Annie, scrisse Sontag e io e un altro romanzo di cui pareva soddisfatta, L’amante del vulcano.

Gli anni Novanta

Negli anni Novanta parte per la Jugoslavia: il figlio David, giornalista, la conduce a Sarajevo. Lei rimane sconcertata dall’indifferenza di molti intellettuali europei verso il genocidio in corso.

A Sarajevo, dove la raggiunge Annie per fare foto, mette in scena Aspettando Godot, nel 1993. Tornerà in Bosnia altre sette volte. In quel Paese diviene presto popolare, è alla mano e disponibile ad aiutare.

Una volta in patria, ostenta sprezzante condiscendenza verso chi, fra gli intellettuali che frequenta, non era partito per la Bosnia. Sviluppa un carattere sempre più aggressivo, è sola e senza amici. Nel gennaio 1996 muore Brodsky, l’unico uomo che ritenesse superiore a se stessa.

Un mostro che la divora dentro

Nel 1998 si trova in Italia. Un giorno, comincia a urinare sangue. Il cancro è tornato: sarcoma uterino, grande come un pompelmo, con delle punte, una sorta di mostro marino che la divora dall’interno.

Trattamento: isterectomia, chemio e radioterapia, cisplatino. La sua vita diventò una lotta alla malattia. Come disse a un amico con la moglie malata: “questa non è una deviazione dalla sua vita. Questa è la sua vita”.

Il sonno come la morte

Mai sottomettersi all’autorità medica, studiare, fare ricerche sui libri. Denuncia l’avvento crescente della “nuova medicina capitalistica”, grazie al business delle case farmaceutiche e delle assicurazioni. Teme di morire prima di avere terminato il saggio In America.

Paragona il sonno alla morte, anche i brevi momenti di riposo. È ancora sotto l’influsso emotivo esercitato dalla lettura giovanile di Martin Eden. Esibisce un costante e vorace appetito, verso il cibo, la cultura e le esperienze. Sfida la scienza e fa ironia contro la conservazione della “salute” come sintomo di egotismo borghese.

Fuma, anche dopo il primo tumore, più di due pacchetti di sigarette al giorno. Non riuscì mai a smettere il vizio, nonostante la sua potente “immaginazione onirica”, che nei corsi che frequentò per smettere era il mantra ricorrente.

Dopo la seconda diagnosi di cancro di Susan, la relazione con Annie migliorò, si accudivano a vicenda. Alla fine degli anni Novanta, quando un paio di giornalisti firmarono un contratto per scrivere una sua biografia, Susan era furente e ancora negava la propria omosessualità e la relazione con Leibovitz.

Trovava le inclinazioni omoerotiche innaturali, un “gioco di maschere”. Il closet, il ripostiglio, non era un luogo, bensì una metafora.

I giovani ammiratori

Negli ultimi anni si circondò di artisti e di poetesse giovani, che la adoravano e che lei cercò, come sempre, di manipolare e di migliorare. Dimostrando infine, con tutti, la sua delusione perché mai erano all’altezza delle esagerate aspettative.

Molti, a turno, l’accompagnavano alle visite mediche. La solitudine di Susan si era accentuata. Insegnava a chi era disposto ad ascoltarla che ogni parola espressa, ogni cosa che si fa ha un impatto. Susan era preda di facili entusiasmi, solo l’Arte non la deluse mai.

Davanti al dolore degli altri

Nel 2001 pubblica Where the stress falls, che contiene vent’anni di lavori: saggi su film, libri, danza e amici. I luoghi che l’avevano segnata. Era l’unica intellettuale dotta riconosciuta come tale anche da persone che degli intellettuali nulla sapevano.

Era stata la guru in Zelig di Woody Allen. Rifiutava l’infanzia e l’infantilismo, però trasformava le amanti in avatar della madre. Nel 2001 festeggiò il capodanno a Sarajevo. Pubblicò l’ultimo libro, Davanti al dolore degli altri.

Perché il mondo odia gli Stati Uniti

L’11 settembre ci fu l’apocalisse, che Susan osservò in tv da un albergo di Berlino. Scrisse un articolo “incendiario” in cui diceva apertamente che l’America doveva ammettere le proprie responsabilità nel farsi odiare a livello planetario.

Il figlio David era indignato. Dietro l’analisi di Susan, c’era la sua totale assenza di empatia. Bosnia e Iraq dimostravano che la necessità di vedere era una questione di vita o di morte. Se però nulla si può comprendere senza averne esperienza diretta, perché rappresentare quegli eventi?

Il Sudafrica e la Palestina

Il 2003 fu un anno fecondo di onorificenze e di premi. A salvarla, nell’infanzia e nell’adolescenza in Arizona, era stata la lettura. Niente l’aveva plasmata e sconvolta come La montagna magica di Mann.

La letteratura per Sontag serviva a: sfuggire al provincialismo, alla vacua istruzione scolastica, ai destini imperfetti, alla vanità nazionale, al filisteismo, alla sfortuna. Fece un viaggio in Sudafrica, invitata dall’amica Nadine Gordimer, che la portò a visitare anche dei parchi, per quanto Susan non fosse interessata alla natura. Poco dopo, scoprì che il tumore era tornato sotto grave forma di leucemia.

L’ultima lotta contro il cancro

Nel marzo 2004, David torna dalla Palestina e la porta da un medico. Sontag ha un tumore del sangue. Rinunciare alla sua eccezionalità significa rinunciare a vivere. Sapeva che la terza volta era una condanna all’ergastolo. Le diedero sei mesi di vita.

Non le venne data la possibilità di riconciliarsi con la morte, molti medici le dicevano pietose bugie e lei stessa, che aveva denunciato questo atteggiamento in Malattia come metafora, negava l’evidenza.

Si sottopose a vere torture, per dimostrare che la prima diagnosi era sbagliata. Le proposero un trapianto di midollo osseo. Il 21 agosto, a Seattle, dopo una chemio massacrante, affrontò il trapianto di staminali da donatore. Guardava musical americani e provava a scrivere, sempre.

A fine settembre sembrava stare meglio, ma in realtà stava sviluppando la malattia da rigetto del trapianto. Il 15 novembre Annie la riportò a New York, allo Sloan Kettering. Susan non era mai stanca di terapie, pur dolorose e invasive, cercava farmaci nuovi, incapace di rassegnarsi.

Ancora ossessionata dal perfezionismo, voleva lavorare, fare e leggere. Negava di dormire, sognava persecuzioni e aveva deliri paranoidi. Credeva che le infermiere la odiassero.

Henry James morì al suono della macchina da scrivere. Gertrude Stein, uscita brevemente dal coma, chiese alla compagna Toklas: “Qual è la risposta?”. “Non esiste”, disse Alice. “E allora qual è la domanda?”.

Susan supplicò Annie, il giorno di Natale: “Fammi uscire da qui. Il 26 dicembre le mancava il respiro e parlava solo di sua madre e di Brodsky. Il 27 dicembre chiese al figlio David se fosse presente. Alla sua risposta affermativa, sussurrò: “Volevo dirti che…”, poi fu silenzio.

Epilogo: la morte

Alle 7.10 del mattino del 28 dicembre 2004, David aprì la vestaglia della salma della madre e osservò che il corpo era ricoperto di grossi lividi.

Annie la vestì con un elegante abito Fortuny acquistato a Milano, poi la fotografò. Fu sepolta a Parigi, a Montparnasse, per volontà di David. Il 17 gennaio 2005 si celebrò il funerale: fu un ritorno a casa, in compagnia di Sartre, Cioran, Beckett e Barthes.

Annie pagò le spese a chi voleva partecipare. Diverse commemorazioni in conflitto tra loro furono organizzate in seguito, a New York: David e i suoi amici, contro Annie e i suoi.

I libri postumi

Uscirono post mortem anche due diversi libri. Per Susan “le fotografie consentono alla realtà di essere presentata come un bene di consumo, anche le sofferenze”. Il libro di Leibovitz, Fotografie di una vita, fu molto criticato, soprattutto dal figlio di Sontag. In realtà, era un monumento a un’irripetibile storia d’amore.

Il pellegrinaggio a Montparnasse era continuo, ma le persone rendevano omaggio non ai suoi resti bensì a ciò che Sontag aveva rappresentato. Diventò un simbolo dell’aspirazione al miglioramento continuo e alla ricerca del sublime. Una pensatrice che non aveva paura dei maschi ed era ignara di doverlo essere. Simboleggiò lo scrittore che spazia tra i generi, senza cedere al dilettantismo. Il valore permanente della cultura in un mondo assediato da volgarità e da indifferenza.

La sua testimonianza

Con lei si poteva polemizzare, aveva riassunto un’epoca e si era scontrata con essa. Le stava a cuore il rapporto tra linguaggio e realtà, entrambi instabili. Fu testimone di grandi cambiamenti, politici e sociali, ma anche nella scienza e nella medicina. Dimostrò che la metafora forma e deforma l’identità. Il linguaggio consola e distrugge, la rappresentazione può essere oscena.

La sua morte, come la vita operosa che costruì con attenzione ai particolari, fu un’opera d’arte tesa a esprimere la volontà di esserci stata e la consapevolezza che nulla dev’essere nascosto dal sipario del Teatro del mondo.

Da Seneca in poi, ciò che osceno non è va gettato sul palco e sbranato e vivisezionato. Uno, nessuno e centomila corpi al macero, come nel massacro degli Armeni che la madre e la nonna di Susan più di un secolo fa avevano goffamente ricreato. Il macello attende ognuno e tutti. L’assommoir siamo noi.