Incontrare (in sogno) Dante Alighieri

Stanotte ho fatto un sogno. Dentro il vapore flemmatico dei volti emergeva uno dei miei più cari compagni. Ci sfioriamo a tratti e gli incontri sono rapidi. Commentiamo gli eventi della giornata, brindiamo malinconici alle ore in fuga o sfogliamo un volume in silenzio. Ci guardiamo ridendo.

Lo tengo per mano perché lo conosco bene: tutto gli sta stretto da quando vaga esule, temo che possa scomparire come Elia sul carro infuocato appena mi distraggo. La notte scorsa, invece, non gli sono andata incontro, l’ho seguito cercando di essere discreta, ho compreso che aveva bisogno di raccogliersi e di nutrirsi dei silenzi del mare che a sé lo attirava.

Il mio amico, morto da settecentodue anni, era nel sogno vivo eppure prossimo all’ultima sera. Aveva camminato, con tante pause, da Ravenna a Sant’Apollinare in Classe. Aveva pregato e si era trascinato in spiaggia, di cui amava il tepore al tramonto. Fissava l’orizzonte vuoto dell’Adriatico. A oriente nulla scorgeva, eppure il suo cuore di poeta aveva messo in scena un porto brulicante di caserme e di magazzini, dove rozzi marinai imprecavano e scaricavano casse di porpora dalla Fenicia; femmine discinte e già ubriache di Falerno scadente si strusciavano ai legionari e duci arrabbiati con il mondo facevano la voce grossa. Una flotta mai vista, un potere esibito e reale. Una baia organizzata nei dettagli e un’intera regione prosciugata dal limo e provvista di strade, di sbilenche taverne e di eleganti colonnati presso cui sostare.

Ottaviano Augusto, che tutto volle, immaginò e fece edificare, aveva concepito un sogno più grande e imperituro del mio. Mille e trecento anni prima della passeggiata serotina dell’infelice fiorentino. Durante, figlio di Alighiero degli Alighieri, beveva con gli occhi le onde calme e le riempiva di cose e di uomini, di grida e di colori. Di demoni e di legioni non troppo angeliche. Il tosco gravato dalla malaria sentiva la vita scemare ed era pronto. Aveva speso buona parte dell’esistenza, del resto, a prepararsi per il viaggio. Vent’anni a scriverne, addirittura. Ora, però, era un’ombra fra mille già ingoiate dai secoli. E io, come dice il Bardo, “fatta della stessa sostanza dei sogni”, lo osservavo timida e rispettosa. Tra le dune, a distanza. Sorella e sodale. Madre. Che iniziò a raccontare.

Il dipinto “Dante in esilio” di Domenico Peterlin

Negli ultimi mesi del tuo passaggio su ingrata amata rifiutata rincorsa donna non “di provincie”, ahimè, bensì bordello, ogni solis occaso qui ti trovava. Nella grassa terra che ti ospitò e dove, se non pace, trovasti cuori gentili e pane e companatico, ebbene, al crepuscolo, quasi sempre passeggiavi. Non fra le bizantine mura, pompose e in ansia – “piccola Roma”, si vantavano i cittadini dell’antica Ravenna imperiale – di ricreare fasti perduti. Onori e glorie di regni dimenticati, vizzi senatori e mosaici delicati. Eterni loro, sì. E gli altri? Pulvis et umbra sumus. Tu, amico, mai la scordasti. L’ombra, dico. L’alzasti a protagonista nemmeno cupa, in fondo, ma onnipresente, del tuo fitto Libro, dono alla posterità e unico vero erede. Pietro, non geloso e di esso custode, chiosatore fine, poi. Ma è altra storia.

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Ti parlavo, amico tosco, dell’ombra. Ne sembravi quasi ossessionato mentre rotolavi fra le auree terzine. Ombre che tagliano i raggi, che sfidano soli e stelle e lune e tolemaiche fantasie. L’ombra. Che contiene impronte: di teschi, di costole e di orbite cave. Noi. E l’ombra. Meglio farsela amica. Tanto, si sa, lo scacco matto è suo. Però io credo, amico iroso e pentito, furente e delicato, amico macerato nel rimpianto, amico grande che, in fondo, solo piccole gite in mare con barchette a vela, da diporto, due amici sfacciati al fianco, di vino un otre e i pesci e il pane sognavi… amico al confino, che mai fu Tomi? Inezia, collega Nasone. Più atroci e cupe queste duecento? forse nemmeno, miglia di nulla, di atro tradimento, fra la Pineta e la città maledetta. Borgo del giglio, no! che dite? Città di ladri usurai simoniaci e laidi sodomiti. Fiorenza mia, che godi? Eppure manchi. Eppure e nonostante.

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Le sere, però, lontano da osterie e da palazzi arabescati, senza rintocchi di campane a morto, in campanili simili a minareti o sul sagrato di San Francesco, che infine ti avrebbe nell’ombra definitiva accolto per le esequie. Le sere, o nel tardo pomeriggio – così mi han raccontato, sai? sapevano i tuoi rituali di uomo senile e stanco. Li rispettavano, i Signori ospiti e mecenati gentili. Mandavano servi a controllarti. Appena dietro, riverenti. Nel caso, rapidi a sostenerti. Ombre, ancora. A te vicini – le sere, dicevo, vagavi senza meta verso le salse acque. Il poeta mantovano ormai congedato. La domina stellata da trent’anni in Empireo ad aspettarti. Tutto ordinato, tutto composto. Fosti così sempre, fin da bambino audace. Curioso, irrequieto e sempre su e giù e sopra e sotto i ponti. Da Arno mai troppo lontano. Prima di cena, già a casa. Domani si traduce. Si computa e si declama. Severo, quel docente. Brunetto mio, Tesoro di nome e di fatto, regalo celeste ai tuoi pueri e gettato per caso agli inferi. Perdona, caro professore, il migliore fra loro. Durante ti ha messo in fiamme, certo, ma fu colpa dei tempi. Allievo ingenuo. Pentito, forse.

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Comunque, tosco esiliato, a Classe venivi da solo a passeggiare al tramonto. Attraversavi la bonificata palude – in parte, solo in parte. Malaria in te sorniona prendeva letale dimora – e in testa prendeva forma l’austera maschera di Ottaviano artifex e omnipotens, amico del tuo mentore e principe del mondo, tra l’oceano e le steppe. Gli rendevi omaggio e ripetevi in corde tuo i salaci aneddoti di Svetonio. Ti bastava. La navicella dell’ingegno resisteva alle tempeste. Poi, più veloce, dài! verso le dune: superale finché c’è luce, sprofonda nella sabbia. Calda anche in autunno, mobile abbraccio. Lento ti rialzavi, con fatica di artrosi e di anni e delusioni addosso. Un’ombra dentro e fuori. Ruminavi e ripensavi, liste di proscrizione e tradito e tu stesso di Guido traditore. Tutti andati, Guido da tempo. Mai fra voi due riconciliati. Appena prima, giusto un attimo, del rutilante solis occaso che ogni giorno si ripeteva, sole che a noi intorno gira, bravo Tolomeo, siamo centro di mondi creazioni e genesi – e invece, amico, pulvis et umbra sumus, ma non potevi sapere -, ecco, un secondo prima del buio e del manto di stelle che mai ti annoiava rivedere, come un bambino innamorato del cielo, nell’ora incerta tra la porpora e l’indaco, tu li scorgevi.

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La flotta a riposo. Vele ammainate in baia. Galee possenti, legno lucidato. Schiavi e di guerra prigionieri pronti a guidarle. In mare aperto. Per sempre e dalla genesi Mare Nostrum. Una classis mai vista prima né in seguito immaginata. Recava guerra e armistizi e fiori e croci. Si vis pacem para bellum. Politicamente scorretti, chissà. Sfacciati e immensi. La Classe negli occhi e nel libro della tua memoria. Infine, meno incupito, con calma tra le bizantine mura ritornavi. Due servi ti seguivano. Nell’ombra.

“Questa volta il vecchio tosco non ha avuto bisogno di essere sorretto”. Le ombre si sono riposate. Oste, due vasi pieni! Anche le ombre, prima dell’Ombra, chiedono ristoro.