L’Italia di Drag Spencer & Conterence Hill

È il 5 marzo 2018, più o meno un’era geologica fa. Uno sconosciuto compare all’orizzonte, in un’inquadratura malferma, mentre osserva placido con Beppe Grillo e Luigi Di Maio le dirette televisive che mostrano le trionfanti percentuali grilline. È la notte delle elezioni Politiche e l’Italia sta facendo la sua conoscenza con questo signor nessuno dal passato nebuloso – soprattutto quello relativo a presunte esperienze nel far West americano – che se ne sta stravaccato, ineffabile, a gambe incrociate su un rimorchio trainato da un pimpante cavallo a Cinque Stelle, esaltato come Enrico Mentana alle 3 del mattino della maratona elettorale. Nonostante la giacca doppiopetto, il ciuffo ben curato e il fondotinta siano ancora riposti in un angolo, Giuseppe Conte è già entrato nelle nostre vite senza preavviso. Con lo stesso stile finto-improvvisato di Terence Hill, nella scena d’apertura di Lo chiamavano Trinità

Chi l’avrebbe mai immaginato, tre anni fa, che l’autoproclamatosi «avvocato del popolo italiano» sarebbe riuscito a spuntare la corsa a ostacoli delle malelingue verso la Presidenza del Consiglio, ad attraversare il mar Rosso di due alleanze politiche del tutto antitetiche, fino a guidare il Paese durante una pandemia globale di gravità paragonabile alla Grande influenza «spagnola» del 1918. Eppure è andata così. Perché è obiettivamente con una fame di ambizione e una sete di potere senza eguali che Conterence Hill e il Movimento 5 Stelle si sono mangiati il Governo. E pur di rimanerci è grazie alla stessa voracità che nel 2019 hanno potuto superare nel battito di ciglia di un Ferragosto tutte le divergenze in tema di politica estera, immigrazione, grandi opere, giustizia, fisco e lavoro con il famigerato «partito di Bibbiano», e porre le basi di un matrimonio politico che prosegue tutt’oggi. Nonostante i sondaggisti lo paragonino ormai a un fatale abbraccio della morte. Di sicuro non ci avrebbe scommesso Matteo Salvini, il primo nemico di Conte. Esterrefatto come noi davanti a tanto appetito.

Ma la Storia gioca brutti scherzi, come imparò sulla sua pelle quella coppietta inglese fresca di nozze che per sfuggire alle paturnie del mondo moderno passò un dito sul mappamondo e decise: sì, è qui, alle Falkland che vivremo il nostro sogno d’amore. Era il 1981, vigilia della «Guerra de las Malvinas» con cui una tranquilla colonia d’oltremare dell’Impero britannico si sarebbe trasformata in un tumultuoso teatro di guerra. E la stessa Storia beffarda avrebbe potuto portare persino il nostro eroe a fine legislatura se non fosse cambiata per sempre, con una giravolta, il 21 febbraio del 2020. Il giorno in cui i medici dell’ospedale di Codogno, Lodi, Lombardia, hanno identificato il cosiddetto «paziente uno» del Covid 19 nel Paese. Quattro giorni dopo Conterence Hill, appena conclusa una riunione di emergenza presso la sede della Protezione civile nazionale, si sarebbe presentato ai microfoni di stampa e televisioni nel suo impeccabile completo blu per commentare con un sorriso tirato: «Un focolaio si è diffuso perché un ospedale non ha seguito i protocolli». La prima di una serie di dichiarazioni pubbliche che avrebbero contribuito a confondere la gravità della situazione con la polemica contro il governo regionale della malvagia banda Salvini. Oltre a nutrire con immotivata popolarità l’ego di un villano minore come Giulio Gallera, assessore alla Sanità lombarda. Il duello si sarebbe risolto solo a forza di discorsi al Paese a reti unificate. All’ora di cena, in prima serata, a mezzanotte. In diretta e senza alcun preavviso, o con preavviso poi portato a estenuante attesa del momento. E un po’ nello stile dei ceffoni del buon Trinità a farne le spese sarebbe stato proprio Gallera, costretto infine alle dimissioni.

A sostegno della tesi – in un primo momento abbracciata dall’Italia intera – che il male si sconfigge solo con una fede incondizionata nelle capacità straordinarie dell’eroe. Ma è la stessa strategia che alla lunga ha mostrato la corda. Si può fare appello a una fede dogmatica, all’unità nazionale contro il morbo malvagio, una volta, forse due, ma poi basta. Anche Gesù Cristo con il sostegno convinto di dodici apostoli, quattro vangeli, due testamenti, gli angeli, i santi e Maria Maddalena si fa vedere quel paio di volte l’anno. Quando nasce e quando risorge. E porta con sé un miracolo forte e chiaro: l’immortalità. Il contrario spiccicato dei bollettini della morte recitati con fredda puntualità alle ore 18 ogni santo giorno. O dei fiumi di parole, con qualche sparuto mea culpa, cui al popolo ridotto intanto ai domiciliari sembrava obbligato a dover rendere grazie. Cantare al balcone, cucinare, leggere, allenarsi e lavorare nascondendo le calze o i mutandoni stesi del marito e pendere dalle labbra delle dirette Facebook del premier. Obbligato insomma a far buon viso a cattivo gioco. Esattamente l’unica disperata carta del mazzo che la gentil dama russa intenta a sedurre Matt Kirby, il poliziotto improvvisato eppure infallibile di Due superpiedi quasi piatti, è costretta a giocarsi durante una cena ad alto tasso alcolico.

Non poteva durare. I giochi di prestigio di Conterence Hill a forza di coprifuoco e chiusure forzate, tra droni impazziti e carabinieri messi all’inseguimento di poveri runner, mentre file di camion dell’esercito caricavano bare e automobili di malati assediavano gli ospedali in fila come gli stoici villeggianti anni Novanta sulla Salerno-Reggio, non potevano tenere in piedi da soli lo spettacolo. O meglio, non potevano riuscirci senza il miracolo di un vaccino. In particolare non poteva reggere a lungo l’accoppiata tra bell’aspetto e «supercazzola come fosse primul-antani» davanti alla dilagante crisi economica e alla seconda e terza ondata dei contagi. Servivano fatti. Non a caso a un certo punto, come per un incantesimo, le parole di Conte hanno cominciato ad assumere più o meno lo stesso significato del fantasioso linguaggio dei segni con cui sempre Matt Kirby tiene il moccolo al collega che sta fingendo di essere sordo-muto davanti a un gruppo di delinquenti per evitare il peggio: la rissa.

E nonostante l’impegno teatrale di Conterence Hill – e del suo braccio destro, bisogna dirlo, Rocco Casalino – è andata a finire proprio così… In rissa. Con una scusa, un pretesto, un fallo di reazione a tanta visibilità di fuochi fatui. Uno sgambetto ben assestato da un antesignano del genere: Matteo Renzi. Laurea honoris causa in slogan dimenticabili, slide Powerpoint e Rinascimento saudita. Ed è da questo momento che una figura ingombrante, un fantasma dotato quasi della stessa naïveté politica della prima, ha cominciato ad aleggiare sulla scena, promettendo di risolvere ogni inghippo burocratico alla sola invocazione del nome. Mario Draghi, ex governatore della Banca Centrale Europea. A dispetto del curriculum, Draghi ha preso parte in commedia più o meno come il Bud Spencer di Banana Joe alle prese col rinnovo della carta d’identità. Un po’ sorpreso dalle luci della ribalta dei fotografi. Un po’ accecato. Poi divertito, e infine a suo agio davanti all’ipotesi di ricomporre il quadro politico e accettare l’incarico e portare a compimento la missione. Quella di formare un nuovo Governo.

È così che Drag Spencer, proprio come Banana alle prese con i lacci e lacciuoli della burocrazia, in un febbraio politico così appiccicoso da sembrare una torrida estate, trasmessa attraverso tv, sui social in diretta allo spettatore quarantenato, dopo essere stato rimbalzato un paio di volte allo sportello dagli impiegati dell’anagrafe – i segretari dei partiti alle cosiddette consultazioni – ha capito l’antifona e tirandosi dietro la folla di spettatori questuanti, dopo aver lasciato gli sportellisti a litigare tra loro, è andato a trattare direttamente col capo della baracca. Mattarella dal canto suo che poteva fare? Si è messo di lato, e ha dovuto spalancare le porte dell’ufficio davanti a un uomo sorretto ormai dal vento della storia. A forza di nominarlo, infatti, Drag Spencer, fateci caso, è come finito col prendersi l’incarico praticamente da solo. Come la cosa più naturale del mondo. Con la forza della sola presenza, ma rassicurando tutti, per non correre il rischio di scontentare nessuno: «Recovery plan, condono, green pass, sblocco dei licenziamenti? Venite! Timbro tutto io».

Chi avrebbe potuto resistere a un simile richiamo? Nessuno. E infatti. Tutti dentro, tutti insieme per l’unità nazionale in un Governo più pecoreccio del secondo e del primo, con dentro un Movimento Cinque Stelle sbandato, aggrappato a un Partito democratico confuso su che pesci prendere persino davanti al nuovo conflitto israelo-palestinese, seduto allo stesso tavolo con antagonisti storici come i sempreverdi Berluscones, l’immarcescibile Salvini, e il nemico pubblico numero uno: Renzi. Un fritto misto tenuto insieme dalla forza propulsiva del nuovo eroe: Drag Spencer, davanti al quale al buon vecchio Conterence Hill non restava molto altro da fare che farsi da parte. Forse, in fondo in fondo, con un pizzico di sollievo e un rimpianto: lasciare a un altro le luci della ribalta. E allora ecco l’idea. Un’ultima conferenza stampa, the Last Dance con un banchetto raccattato dalla mondezza per lo showdown. Quale? Fingersi morti come un opossum pur di sopravvivere. Inventarsi un impegno improvviso per poter ritirarsi con dignità, ma già pronto a portare a termine una nuova straordinaria missione. Prima o poi, ritornare!

Ed è così che sono passati i primi 100 giorni di Draghi. Un uomo poco avvezzo alle chiacchiere, e più a suo agio con la solidità dei numeri. Uno che per settimane non ha rilasciato mezza dichiarazione alla stampa. Si riapre, si sta chiusi, ci si vaccina in primula, negli ospedali, e che ci fa di nuovo Di Maio al ministero degli Esteri? Misteri della fede. Troppe domande, cui non serve rispondere deve aver pensato lui, se non con i fatti. E nell’attesa dei fatti avevano già cominciato a scrosciare gli applausi convinti dei leader europei, cui il solo affacciarsi alle riunioni su Zoom dell’ex governatore della Bce, lì dove prima a fare gli onori di casa si ritrovavano un ex concorrente del Grande Fratello, doveva fare evidentemente un discreto effetto. Come un discreto effetto, coincidenza o meno, ha avuto una delle primissime, chiare, decisioni di Drag Spencer in tema di vaccini. Ovvero, rimuovere il supermanager deputato a coordinare la campagna vaccinale, Mimì Arcuri, più o meno nella stessa maniera con la quale il «superpiede quasi piatto» Wilbur Walsh interpretato da Spencer si libera di un gentiluomo al bowling. Con uno strike degno di Jesus Quintana.

Tanto per dire, la prima conferenza stampa del premier Draghi è arrivata a quasi un mese dalla nomina dei Sottosegretari con cui si chiude l’iter formale di formazione di ogni Governo. In totale 19 giorni di silenzi, dove dal palazzo non arrivavano che le veline dei soliti presenzialisti e null’altro, per il sommo smarrimento dei notisti politici improvvisamente privi dell’audio su Whatsapp del Portavoce. Damilano, Travaglio, Floris e Mentana improvvisamente in vacanza col reddito di cittadinanza, come i disoccupati. Un gioco di prestigio, un diversivo degno di un’altra scena cult, questa volta tratta da Nati con la camicia.

A incoronare Drag Spencer, semmai si fosse reso necessario, anche il gradimento incassato nei sondaggi, in alternativa a Conterence Hill. Impietoso quello dei lettori di Libero, non certo Piepoli, ma quanto meno significativo nelle cifre. Domanda: «Prima conferenza stampa, vi convince più Draghi o Conte?». L’86 per cento, quasi nove su dieci, vota il pragmatismo del primo. E sempre in fatto di pragmatica il colpo senz’altro migliore è arrivato con l’accelerazione della campagna vaccinale. Il defenestramento del supermanager ha fatto da prologo alla scelta logica, piuttosto che propagandistica, di lasciar fare ai militari l’unica cosa che una democrazia moderna dovrebbe permettergli di fare: aiutare le popolazioni. Nel caso specifico organizzando la logistica e gli ospedali da campo per la somministrazione del vaccino. E così, proprio quando tutto sembrava perduto, Drag Spencer in veste di Bulldozer, ha ribaltato a suo favore il braccio di ferro con belgi, inglesi e americani per farsi consegnare in tempo nuove scorte del prezioso siero. E il pubblico festante, con rinnovata fiducia nel nuovo eroe, si è potuto vaccinare sfondando la soglia prefissata delle 500 mila persone in un giorno ad aprile.

A sorprendere, qualsiasi cosa accada, nel bene e nel male, polemica quotidiana di Salvini o meno, è la calma pacata, quasi indifferenza, con cui Draghi interpreta il suo mandato e assolve al suo compito. Come se niente potesse turbarlo. Rapporti con le grandi potenze, Russia, Libia e Turchia in primis, pericolo di un ritorno dopo trent’anni dell’inflazione questa sconosciuta, pressioni delle lobby del turismo e del sabato sera per recuperare il tempo perduto. Qualsiasi cosa dicano gli altri, blateri il politico di turno, lui ascolta impassibile, o forse no. E risponde al momento opportuno. Prendete lo sgambetto sulla tassa di successione. Gelato con poche parole: «Non è il momento di prendere soldi, ma di darli». O anche sui tempi delle riaperture, e la riduzione delle ore di coprifuoco. Tanto casino per nulla, sembra constatare la firma con cui il presidente del Consiglio dà il via libera. Neppure una smorfia col viso, soltanto una sbracciata. Al momento opportuno, qui eseguita magistralmente dall’indimenticabile Bambino di Lo chiamavano Trinità.

Resta un solo nodo da sciogliere, prima di poter dire addio a questo Governo di emergenza. Ed è il nodo che vede ricomparire sulla stessa scena Drag Spencer e Conterence Hill: l’elezione del nuovo presidente della Repubblica. Se rimaneva un flebile dubbio sui propositi di Mattarella di chiudere il sipario sul triste varietà politico italiano alla conclusione del suo settennato, nel 2022, il dilemma è stato spazzato via in partenza. «Tra otto mesi potrò riposarmi» ha detto con il dovuto anticipo, scacciando le voci di un bis a tempo determinato, in stile Napolitano. Ed è allora un gioco a carte scoperte quello dei Cinque Stelle, che sognerebbero il ritorno dalla porta principale di Conte a Palazzo Chigi, dopo l’ingloriosa uscita dalla «finestra».

Proprio a questo servono gli assestamenti organizzativi degli ultimi mesi. L’abbandono di Casaleggio e Rousseau, con relativi debiti, l’isolamento di Beppe Grillo, pater familias del Movimento, ma sia mai di suo figlio Ciro, l’abbocco sempre più smaccato con il Partito democratico su scala locale. Come se due debolezze potessero fare una forza. In politica, si sa, non funziona così. Resta un uomo solo destinato a brindare, comunque vada.

Che le goffe manovre del M5S si rivelino vincenti o meno, il salvatore della patria, e dell’estate alle porte, invocato già da ieri a succedere a Mattarella, o in seconda battuta a guidare un Governo fino a fine legislatura e magari oltre, è Drag Spencer. Solido, imperturbabile, spietato. Persino simpatico alle prese con qualche fuori programma. Come quando leggendo un discorso, evidentemente scritto da altri sulle misure a sostegno di smart working e baby sitting, si è fermato, ha riguardato i suoi fogli contrito, e dato voce pubblicamente a un pensiero autarchico, declamato con tono deluchiano: «Chissà perché dobbiamo sempre usare tutte queste parole inglesi. Questo… mmm». Ma forse è meglio non esagerare.

Con i toni comici si rischia la brutta figura. E prima o poi anche questa Luna di miele finirà. L’impressione complessiva è che all’Italia servano tanto il pragmatismo di Drag Spencer, quanto le supercazzole di Conterence Hill. In fin dei conti ci hanno tenuto impegnati a comprenderne il significato per oltre un anno. Se l’idea di un ticket tra i due vi sembra spaventosa, sappiate che gli attuali orientamenti di voto convergono su una preferenza sempre più smaccata per una destra reazionaria, nostalgica, razzista e omofoba. Buona a lanciare meme e libri col titolo dei meme, o a rilanciare le fotografie della mangiata del sabato sera, che spera di fare bottino pieno alle prossime elezioni Politiche celebrando con una birra l’ennesimo barcone affondato prima di toccare terra a Lampedusa. Direte voi: se non è così, altrimenti? Non chiedetelo a me. Chiedetelo a loro. Penso che risponderebbero come Kid e Ben al Capo degli scagnozzi che gli hanno distrutto la Dune Baggy rossa con cappottina gialla e non gliela vuole ricomprare:

Altrimenti? Eh, altrimenti… Altrimenti ci arrabbiamo!”