Murubutu: La Divina Commedia in rap

Ci vorrebbe un marabutto in ogni casa. E in certe dimore anche due. Le parole spese male, quelle che finiscono sempre per disegnare una supercazzola con scappellamento nella mente di chi le ascolta, anche se non si conoscono Tognazzi, Monicelli, Maraini e la metasemantica, si aggiungono alla composizione dell’aria ogni giorno che passa; certe hanno doppiato l’Argon da un pezzo e vedono l’Ossigeno come Paul Cayard vide dietro i suoi occhiali Buddy Melges il 10 maggio 1992, prima di allentare di scatto il tangone dello spinnaker così che la vela volasse oltre la prua. Insomma le parole sono importanti, per dirla alla Nanni Moretti. E un marabutto oggi varrebbe cento volte più di un corso d’italiano online pagato quanto una coscia di San Daniele o un meeting letterario con salmone affumicato a Tor Vergata. Lo sa bene Murubutu, nome d’arte del rapper Alessio Mariani omaggiante appunto il marabutto, una figura venerata ancora oggi nell’Africa sub-sahariana, capace di guarire mali fisici e sociali con riferimento al potere terapico delle parole. Mariani è docente di filosofia e storia al Liceo Matilde di Canossa di Reggio Emilia, quindi un cantautore rap autentico al netto dei dispacci. Non solo. Murubutu è innanzitutto un rapper politicamente impegnato. Uno di quelli che piscia sul paravento dell’arte libera con lo sguardo incazzato mentre cita Prospero Gallinari non tanto per celebrarlo, ma per inaugurare un racconto sociologico e antropologico su cui poi riflettere tutti assieme appassionatamente; azioni che scatenano la collera di Forza Nuova che lo accusano, invano, di inneggiare all’estrema sinistra. Nei testi di Mariani possiamo ancora distinguere quel filo invisibile agli occhi e conciliante all’orecchio che negli anni 90 univa Leoncavallo a Milano e l’Officina 99 a Napoli. Alessio è infatti cresciuto nel frastuono delle posse. Il suo collettivo, i Kattiveria Posse, è un pezzo di storia dell’Emilia titubante e socialmente indomabile dell’epoca. Mariani è dunque un sopravvissuto di quegli anni irripetibili; un figlio dell’Agorà cosciente che i tempi alla fine cambiano comunque, tant’è che nel 2009 intraprende una carriera solista, iniziata con la pubblicazione dell’album Il Giovane Mariani e altri racconti, che amplificherà nel corso del tempo il suo nichilismo efficace e mai autoindulgente. Mariani conosce i limiti della propria dimensione onirica ma allo stesso tempo è realista quanto basta per aizzare gli animi e indurli strofa per strofa verso territori inesplorati nel macrocosmo rap; nelle sue canzoni scava senza tregua, cercando le parole giuste e il peso specifico che muta a seconda dell’occasione.

«Da sempre stabile contro assalti e cariche scrivo
Dall’avamposto più esposto alle invasioni barbariche
Non c’è niente che generi crepe in un cranio potente
Terre d’oriente e occidente non c’ero
Qui gelo, celo e tutelo lettere e scienze
Ma da qui non mi spostano
Già respinsi la calata degli alani sopra il Bosforo
‘Sto posto sul limes non cede non recede di un piede
Non cede ai colpi di testa
All’ira funesta dei colpi di testa d’ariete, sì (My man)
Corpi senza testa n’è niente
Ribollente di orgoglio li stacco dalla parete con l’olio bollente»

[Le invasioni barbariche]

Storie inedite e storie di libri, dunque. Murubutu è un cantastorie influenzato nello stile e nei contenuti da vari esponenti del naturalismo francese, tra i quali Zola, e da autori come Pavese, Verne e Sepulveda, come lui stesso ammette a più riprese. I suoi dischi sono audiolibri ante-litteram dal sound ricercato, il ritmo giusto e la voce narrante di un MC cazzuto. Il terzo album, datato 2014 e intitolato Gli ammutinati del Bouncin’ (Ovvero mirabolanti avventure di uomini e mari), ha per tema centrale il mare con esplicito riferimento all’ammutinamento del Bounty, atto di sedizione avvenuto nel 1787 sulla nave mercantile inglese salpata da Spithead, e ovviamente al libro di Jules Verne, I ribelli del Bounty. E proprio come il comandante William Bligh anche Murubutu devia la rotta. Ma la sua Tahiti è un’isola che ha perso i frutti più maturi, nella fattispecie gli stereotipi che imperversano nella scena rap ormai da almeno tre lustri a questa parte. Per il musicista emiliano, infatti, «il rap italiano segue una rotta musicale prestabilita cui la maggioranza obbedisce, dove gli insorti si ribellano alle coordinate ufficiali di navigazione e se ne impossessano cambiandone la direzione». Nell’ultimo disco solista, rilasciato nel 2019 e intitolato Tenebra è la notte ed altri racconti di buio e crepuscoli, Murubutu alza ulteriormente l’asticella collegandosi al romanzo Tenera è la notte di Francis Scott Fitzgerald. E chiama a raccolta, tra gli altri, gli amici Caparezza, Mezzosangue e Willie Peyote, dando vita a una narrazione in cui la notte è al centro di un concept straniante; un racconto in cui chiedersi se essa sia davvero solo quel momento negativo funzionale al divenire illusorio dietro cui si cela l’Essere perenne di Parmenide. Quelli di Murubutu sono veri e propri rap-conti; concatenazioni semantiche che avvolgono l’ascoltatore e non lo mollano più; voli pindarici tra un verso e l’altro, che in brani come Le notti bianche – ogni riferimento a Dostoevskij non è puramente casuale – elevano la potenza del ricordo in un’estasi continua di citazioni e metafore.

Passava di fretta sfidando la luna in bellezza
Seguendo il richiamo delle nenie del vento di Teheran
Laddove il tempo era opaco come in un quadro di Rembrandt
E il cielo era un lago e ogni onda di brezza spostava ogni stella
E lui si spinse ogni notte fino alle dune e le alture
Per poterla incontrare di nuovo: un uomo e due lune
E la città della notte era una vecchia del luogo in costume
Le sue collane di luce tremavano in coro nel fiume
Tra i locali illuminati e i passaggi dei taxi giù in strada
Un blu fenomenale vestiva i teatri e ogni statua
Luminarie fulminate, la loro sintassi sdentata
Luminando ogni viale, cercando i suoi passi di fata
E se l’avesse incontrata davvero, a un tratto inattesa
Sarebbe rimasto d’incanto dopo tanta ricerca
Ma dichiararsi in un lampo non sarebbe stata una pena
Perché le aveva parlato già tanto anche quando lei non c’era.

[Le notti bianche]

Scatti che fanno tremare i polsi, mentre la ciurma insegue clic e faccine perdendosi come un asino alla corte di Mangiafuoco, alla ricerca spasmodica di quella cosa ambigua chiamata flow, ovvero il flusso di parole da affiancare al ritmo che ogni buon rapper sa di dovere inseguire in ogni canzone. Un inseguimento, peraltro, attuato sempre più a velocità folle, soprattutto quando c’è da adattare una strofa ai 15 secondi di Tik Tok o alle scadenze di Instagram. Quei pochi rapper in circolazione che hanno ancora a cuore il bilancino, come Napo, Kae Tempest e lo stesso Murubutu, per fortuna se ne infischiano e da impavidi guerrieri senza tempo trafiggono il mito con coraggio, ognuno alla propria maniera: il primo inneggiando la natura, il secondo Sofocle e il terzo la letteratura italiana. Ebbene, è in questa triade che giace quel sottosuolo in grado di cambiare le cose nel mondo della musica rap anche senza volerlo; ciò che, adattandosi alla filosofia, Emanuele Severino identifica in Leopardi, Nietzsche e Gentile. Un percorso che in Infernum, disco rilasciato nel 2020 e scritto a quattro mani con il rapper marchigiano Claver Gold, Murubutu segue alla stregua di un Minosse inferocito ispirandosi alla Divina Commedia. Una rilettura personale in cui i personaggi danteschi indossano i panni dei perdenti di oggi, così come le pene assecondano un fine attualizzato seguendo i vaneggiamenti della società contemporanea». 

Nel mondo della musica rap ormai l’imperativo è solo fare rima assecondando gli stereotipi. Non c’è più poesia, non crede?

«È un discorso interessante. Ma bisognerebbe innanzitutto chiedersi quando il rap sia stato veramente poetico. Il rap è stato antagonismo sociale, sia negli Stati Uniti, dove è nato, che in Italia. Certo che il rap è anche poesia, ma nel nostro paese quando lo è stato? A mio avviso adesso, ora più che mai, il rap è anche poesia. E lo è perché il successo del mainstream ha portato anche ad un ampliamento ulteriore della scena underground. C’è quindi molta più possibilità di aderire a correnti diverse, che giocoforza non sono più quelle superficiali, dando così luogo a tante altre sottoculture che fanno realmente poesia. Paradossalmente, il successo commerciale del rap ha favorito le correnti sotterranee e di conseguenza la poesia. Ecco quello che sta accadendo e che è accaduto».

Però ci sono tanti gruppi di nicchia oramai sciolti che hanno anticipato quelli di successo. Come se lo spiega?

«Esistono tuttora tantissimi artisti che fanno rap di spessore, concettuale, e lo fanno da tanto tempo. Esistevano da prima e continuano ancora oggi. Piano piano sono anche riusciti ad emergere. Non è tanto una questione di congiuntura temporale, penso ad esempio a Rancore ma anche Caparezza, che è cresciuto esponenzialmente e rappresenta un faro per la scuola più concettuale del rap. E ce ne sono anche tanti altri. Magari sono meno visibili. Il rap concettuale emerge soprattutto grazie al talento, mentre quello di massa e più superficiale è perlopiù legato al momento, alle tendenze, visto anche lo schema di funzionamento dell’industria discografica».

Infernum è un’opera rap che si ispira alla Divina Commedia di Dante. Ha mai avuto timori di tipo reverenziale durante la sua stesura?

«Assolutamente sì. Sono innanzitutto un insegnante, e quindi ho dei timori riverenziali al cospetto di certi testi e certi autori, soprattutto quando sono dei giganti della letteratura mondiale come Dante. La Divina Commedia, poi, è un’opera imponente, quasi sacra a livello culturale. Dunque approcciarla a livello del rap, che è un linguaggio decisamente diverso da quello della cultura classica, mi ha lasciato in prima battuta timoroso. Non è facile interpretare un testo così imponente. Per fortuna Claver Gold aveva delle idee chiare su come procedere e alla fine mi ha convinto». 

Narrate il diabolico Caronte nell’omonimo brano, in cui si affronta il tema della dipendenza da eroina. Stessa attualizzazione per Pier (della Vigna), in cui il drammatico e celebre suicidio viene reinterpretato denunciando la piaga giovanile del bullismo. Anche la prostituta Taide, protagonista di uno dei passaggi più sconci della Commedia, viene sostanzialmente riletta in chiave attuale. La contemporaneità di Dante a quanto pare è un punto fermo di Infernum.

«Essendo un’opera a quattro mani, ed essendo il mio approccio molto didascalico, il vitalismo di Claver Gold ha reso tutto meno polveroso. Se Infernum fosse stato solo mio, sarebbe stato un album molto più noioso. La lettura contemporanea dei personaggi danteschi nasce dalla nostra volontà di renderli più fruibili ai giovani, che magari se ne allontanano in sede scolastica. Ai tempi Pier della Vigna, così come ci viene descritto da Dante, fu comunque ostracizzato in senso lato. Vennero diffuse calunnie su di lui per metterlo in cattiva luce e di questo ne soffrì talmente tanto fino ad uccidersi oppure, come dicono tante altre leggende, a scomparire. Accade esattamente lo stesso a chi viene ogni giorno bullizzato nelle scuole. Quindi ci è sembrata un’analogia con un tema così attuale, soprattutto se si parla di cyber-bullismo. La Divina Commedia parla dei mali dell’umanità, che sono temi sempre attuali, anche se il poeta li contestualizza nella società toscana dell’epoca; è un laboratorio linguistico enorme, estremamente ricco e divertente. Dante si è anche divertito quando l’ha scritta. L’insegnamento lessicale che passiamo ai giovani è anche questo, ossia che scrivere e studiare può essere anche divertente. E non solo un’imposizione calata dall’alto. Così come i testi classici non devono essere visti come dei menhir polverosi che vengono imposti».

Si sente quindi anche un missionario?

«Nel mio piccolo ho una deformazione professionale che è sicuramente un piglio di tipo divulgativo. Il rap oggi ha la potenzialità di divulgare la cultura, essendo il genere più ascoltato dagli adolescenti. Quando mi chiedono perché ispirarsi a Dante per un album rap, rispondo che i giovani in realtà sono molto più strumentati e sono molto più in grado di noi di analizzare e assorbire i personaggi della cantica dantesca, avendola, tra l’altro, anche studiata da poco. In me c’è la volontà di dimostrare che il rap può veicolare la cultura».

Oggi rap e cultura. Ma negli anni 90 era soprattutto rap e politica.

«Sicuramente. Quando ho iniziato il rap era molto più politicizzato. Il mio era infatti un rap politico e militante. Il rap è stato nel corso degli anni un divulgatore di tematiche sociali ed è tuttora un mezzo di protesta. Però è stato anche molto altro. A volte si tende a stigmatizzare il rap in un senso o nell’altro. Ricordiamo poi che il rap è parte integrante della cultura hip hop che è molto vasta e contiene anche altre forme d’arte. È di fatto la cultura giovanile più diffusa nel mondo. Esistono poi tantissimi tipi di rap diversi. E il rap non è soltanto antagonismo ma anche divertimento ed estraniamento».

I centri sociali oggi hanno perso la loro efficacia. L’attivismo si è trasferito su internet?
«La capillarità, l’estensione che raggiunge il web pecca poi di profondità. Le relazioni umane non si possono mantenere a distanza così come le dinamiche antagoniste che possono rappresentare un grande moltiplicatore di opinioni e messaggi, ma che rischiano poi di rimanere all’interno della rete che resta comunque superficiale». 

In Antinferno si parla degli ignavi, uomini che non hanno fatto nessuna scelta, incapaci di decidere e fare qualcosa della propria vita. Oggi gli ignavi sono i neet?
«Io penso che i neet siano vittime e i veri ignavi coloro che si fanno forti del disorientamento etico che c’è nella contemporaneità e che trova il suo apice e nel concetto di post-verità che viene usato in modo strumentale per giustificare ogni tornaconto. Non poteva mancare Antinferno nel disco, essendo un canto suggestivo e colorato, pieno di immagini e quindi si prestava molto a essere messo in rima. Quando abbiamo scritto questa canzone, inoltre, non ero convinto perché era sostanzialmente senza ritornello. Poi Davide Shorty ha capovolto tutto dando vita a un ritornello orecchiabile che lo ha reso uno dei brani più e ascoltabili belli del disco».  

Minosse è un legislatore molto rigoroso e dai tratti demoniaci. E anche nel brano omonimo contenuto nel disco viene dipinto così. Che tipo di legame c’è tra il giudizio di Minosse e quello che ogni giorno subiamo sui social?

«È in realtà un brano che riguarda la responsabilità individuale. Qual è il limite tra la libertà e la responsabilità di un artista? Come sarebbero giudicati oggi da Minosse i tanti artisti che dicono di tutto e influenzano anche i fan più giovani? Dove li metterebbe? Sono queste le domande da porsi. E alla fine anche io e Claver Gold ci mettiamo sotto accusa e ci immaginiamo puniti secondo la legge del contrappasso».

Michela Murgia recentemente ha introdotto lo schwa, la e ribaltata, così da evitare declinazioni di genere. Cosa ne pensa?

«Il neutro in italiano non esiste. È dunque un’esagerazione. Sicuramente c’è un discorso politico e culturale alle spalle. Ma è perlopiù una moda linguistica. Non vorrei che ci si perdesse molto sull’estetica di un discorso bypassando la foce etico politica da cui nasce. Propongo a questo punto il neutro latino, così da fare felici tutti (sorride, ndr)».

*Intervista rilasciata durante un incontro presso la biblioteca Laurentina di Roma