Paolini: Ustica e la perdita dell’innocenza

Ci sono fine settimana di giugno in Italia che non si vede l’ora di staccare dal lavoro e tornare a casa; partire, anche solo per una breve pausa, oppure per la vacanza estiva. C’è chi fa lo sforzo di prendere l’auto, chi decide di prendere un treno, infischiandosene dei ritardi per godersi il paesaggio dal finestrino che cambia, come suggeriva Vittorio Zucconi, e c’è chi sceglie l’aereo. Il 27 giugno del 1980 sull’aereo di linea DC-9 Itavia, che viaggiava da Bologna a Palermo, ottantuno persone sprofondavano sul fondo del Mar Tirreno a largo di Ustica, qualche minuto prima delle 21.00. Se l’ipotesi del cedimento strutturale convinse pochi e per troppo poco tempo, la supposizione di una bomba – che su un volo con due ore di ritardo suggeriva una ricostruzione alquanto azzardata – venne presto messa in dubbio da una parola che solo a sussurrarla costringeva alla reticenza, al silenzio e all’intimidazione: missile. Sono passati quarantun anni dalla strage di Ustica, e quasi dieci ce ne vollero solo per chiamarla vergogna di stato nei tribunali. Perizie e dichiarazioni, occultamento delle prove e depistaggi e come ogni storia italiana che implica una responsabilità a partire dalle istituzioni per finire con le minacce dei singoli, sembra sempre opportuno parlarne il meno possibile, soprattutto quando vengono emesse sentenze in cui lo stato condanna lo stato per non aver prevenuto il disastro, per mancato controllo dell’area tramite il sistema radaristico e per ostruzionismo all’accertamento dei fatti. Sempre lontani dal poter sapere ancora chi e perché, ed univocamente a convenire sul come. Eppure c’è chi in questi anni ha deciso di non raccontare la propria versione, ma di aprire i registri e le trascrizioni delle conversazioni, portare l’attenzione sulle incongruenze e tenere insieme i punti, sperando di ampliare i dubbi e le domande: Marco Paolini insieme allo scrittore Daniele Del Giudice con il testo teatrale I-TIGI Canto per Ustica, partendo dalla posizione cartografica dell’incidente, ingrandiva la rete di risposte e bugie inestricabili, dalla portaerei Italia al difficile contesto storico politico internazionale di quegli anni. Un viaggio che non poteva e non si arrogava il ruolo di portatore della verità, ma compiuto in onore della verità.

Com’è iniziato il lavoro di documentazione per il testo dello spettacolo insieme allo scrittore Daniele Del Giudice?

«Daniele aveva già fatto un lavoro sull’argomento, un’opera lirica contemporanea, in più aveva una competenza specifica essendo pilota. Quando cominciai ad approcciare anche io questo argomento e sapevo che lui già ne aveva scritto, eravamo già amici, cominciammo a parlarne e oltre all’istruttoria del giudice Rosario Priore, mi consegnò un manuale di volo. Quello fu il punto di partenza».

La scelta del Cretto di Burri per la ripresa televisiva sembra non casuale. Un punto geografico, una «bruciatura», esattamente come il significato di Ustica dal latino. Gibellina fa parte della storia della Sicilia e delle macerie della storia italiana.

«Non vorrei essere così furbo da aver individuato il Cretto come luogo simbolo tout court. C’era stato un lavoro con Giovanna Marini e che si intitolava Canto per Ustica che era stato portato in scena già un numero limitato di volte e presentato a Bologna, anche in televisione. Poi io nel tempo ho ripreso quel lavoro da solo perché mi pareva che non avevo finito gli studi. Sostanzialmente la materia su Ustica meritava di essere approfondita e di essere raccontata sempre meglio, così, attraverso il teatro, l’ho portata in scena per due anni. A quel punto mi pareva che fosse diventata diversa e insieme a Davide Ferrario, abbiamo immaginato di raccontare questa storia per Tele +. Essendoci già stata la diretta classica televisiva tre anni prima a Bologna, non avrebbe avuto senso la riproposizione di questo spettacolo filmato. La proposta venne dal festival di Gibellina, di andare a fare lo spettacolo lì. Con questo invito chiedemmo di utilizzare per più giorni il Cretto e di abbinare le riprese del luogo fatte di giorno con quelle serali dello spettacolo, secondo l’idea di Davide di poter montare le due cose insieme. Il progetto era di costruire un’opera indipendente dalla messinscena teatrale che lo raccontasse attraverso l’uso della cinepresa. Il Cretto è un luogo che custodisce memorie ma è al tempo stesso talmente unico che nella sua forma diventa come il Sacrario militare del Redipuglia, uno di quei luoghi delegati alla memoria del nostro paese e dunque di una storia quella di Ustica, civile, degna di memoria».

Lei comincia il monologo, riferendosi al «popolo dei TIGI», il nome del DC-9 abbattuto nella strage, individuando così un nuovo modo di viaggiare a cui potevano avere accesso tutti, non solo le classi più abbienti.

«Questo è un punto centrale. L’Itavia è una compagnia privata, nasce in quel momento per far concorrenza su delle rotte, da nord a sud, su cui si può immaginare di trasportare delle persone che non sono più ricche, ma comunque prendere l’aereo nel 1980 rappresentava un’eccezione. Lo si faceva per andare a trovare la famiglia nelle festività, per lavoro, ma chi lo faceva era una sorta di pioniere, per cui immaginiamo questo popolo non più attaccato a terra, per poi entrarne a fare parte tutti. Ma loro restano i nostri antenati nel cielo, nell’aria. Oggi è diventato familiare il volo low cost da essere mediamente più popolare del treno: in termini di stress è un beneficio, dall’altro è una ferita mortale per il pianeta. Quando ho portato in scena questo spettacolo, ho raccontato la perdita dell’innocenza».

Per poi assistere con la società e la generazione successiva, quella delle comunicazioni e dei trasporti più veloci alla perdita della memoria?

«Per me accade molto tempo prima. Esistono vari elementi che mi fanno pensare che il custodire la memoria sia diverso da paese a paese: il nostro è particolarmente vessato da catastrofi naturali e artificiali, una storia cruenta del dopoguerra, che non ha pari, fino al terrorismo degli ultimi anni che invece non colpisce prevalentemente noi, ma genera un immaginario e una paura che colpisce i nostri vicini. Prima eravamo noi i destinatari della paura: fino a che l’alleanza atlantica ha avuto un senso, eravamo noi la portaerei nel Mediterraneo; da un lato un territorio fragile, dall’altro una classe dirigente sicuramente non all’altezza della gestione dell’interesse pubblico ma di interessi particolari. Questo incide sulla tessitura d’insieme di un paese, questo fa sì che quando arriva il colpo, la tragedia, ci si ritrova uniti e ci si riscopre uniti e dura poco. Questa è la nostra tragedia identitaria e penso di averlo capito raccontando la storia del nostro paese: la comunione dura esattamente finché dura il dolore, dopodiché l’oblio arriva veloce. Magari è un processo che con la digitalizzazione ha accelerato, perché le tecnologie non sono neutre, ma a cui non si deve cercare di dare esclusivamente la colpa».

Durante lo spettacolo, a proposito delle incongruenze e false ricostruzioni delle dinamiche del Mig libico caduto sulla Sila, fa un accenno al film di Marco Risi, «Il muro di gomma», scritto da Andrea Purgatori e usa un’espressione che fa riferimento ad una narrazione strutturata «in modo molto garbato». Era un complimento o un commento ironico?

«Ironico, perché sapevo quello che c’era dietro. Sapevo quello che non hanno potuto raccontare. Purgatori mi disse che cosa avevano trovato e che cosa non avevano potuto inserire nel film. Come se i due sorridendo, ahimè, avessero scelto una strada di racconto decisamente meno esposta di quella che invece in fase di inchiesta avevano appurato. Sul ritrovamento del caccia libico, ebbi modo di approfondire con lo stesso Purgatori, che conosceva bene anche Daniele Del Giudice, insieme ne parlammo a lungo. Successivamente andai io stesso in tribunale quando si dibatté del Mig nell’aula bunker a Roma. Lì ebbi un’altra visione straordinaria di cosa sia l’arte, chiamiamolo teatro se vuole: come Cicerone insegna era soprattutto l’arte di come trattare le giurie popolari, di come si manipolino le perizie per influenzare l’attenzione. Ho grande rispetto del lavoro di un perito, e ho assistito a come venivano massacrati dai legali esclusivamente con dei giochi di retorica, sostanzialmente per demolire le parti che in qualche maniera potevano simulare dei dubbi. I periti relazionavano ma per generare una confusione di parole dalla quale era praticamente impossibile emergere. Dunque la mia sfiducia in quel modo di procedere per acclarare una verità accettabile».

Del resto tutto il suo teatro mira non solo a ristabilire un nuovo rapporto di cittadinanza ma anche ad avvicinarsi ad una pratica di verità.

«Sono figlio del teatro politico, lo praticavo da ragazzo, ma detestavo gli slogan. Ho sempre detestato la voce grossa, le minacce. C’era qualcosa in quella fase che non mi piaceva, per cui sono figlio dell’esperienza del teatro politico però quando mi metto a lavorare su Vajont l’avevo abbandonato da molti anni. All’inizio il mio lavoro professionale era un teatro concentrato sul corpo. Di un lavoro all’Eugenio Barba e Jerzy Grotowski o commedia dell’arte, proprio perché non ne potevo più dei messaggi. Vajont mi costringe a riprendere parola e comprendo la funzione identitaria della tragedia, la potenzialità del giornalismo d’inchiesta, trasformato in oralità. Da lì in poi inizio a fare studio di letteratura giudiziaria e in qualche modo ad entrare e uscire dal percorso giuridico, ma utilizzando lo stesso atteggiamento scientifico, che ti fa dubitare di quello che pensi, delle tue stesse soluzioni semplificate. Tutto diventa più interessante che non schierarsi e vendere una tesi senza prendere in considerazione le altre. Molto più vitale».

Una coincidenza che mi ha stupito. A Gibellina lei conclude lo spettacolo sotto la pioggia per un temporale improvviso, che sembra lo stesso che sorprende Corso Salani nel fine de «Il muro di gomma». Quella su Ustica sembra una verità che pretende di essere riscoperta, lavata dalla pioggia.

«Posso dirglielo (ride) noi parlammo con chi di dovere per avere la pioggia quella sera».