L’importanza del genere “romanzo familiare”

Tra maggio e luglio, due quarantenni, Luca Saltini (Scrivimi dal confine, Piemme) e Alessandro Rivali (Il mio nome nel vento, Mondadori), con due romanzi “famigliari”, hanno dato la prova che la letteratura in Italia non è morta né moribonda, come qualche volta si è portati a credere.

Anzi, quando riesce a tenere fuori la testa dalla morta gora dei gialli, noir, thriller, spy story, horror e consanguinei, può ricordarci cose più sensate della caccia all’assassino di turno (meglio se serial killer) con l’immancabile commissario alle calcagna.

Il “genere” famigliare, se genere è, si presta a ogni tipo di sviluppo, spesso sfruttando le risorse, qui obbligate, del romanzo storico, di quello psicologico e di formazione.

Nel racconto di Rivali, a differenza di quello di Saltini, che gioca sull’alternarsi delle sequenze cronologiche (analessi/prolessi, per l’inclito), l’intrico delle vicende private è scandito parallelamente allo svolgersi dei fatti storici che le contengono, più che sul tempo del racconto in sé, consustanziato in quelle vicende da cui trae linfa e a cui porta comprensione.

Rivali è un poeta, e non poco dei nuclei poetici delle sue raccolte (penso all’evocazione del cimitero di Staglieno a Genova) riconfluisce in questa narrazione distesa, carica di umori ed emozioni che si risolvono sulla pagina in una scrittura essenziale ed elegante, mai priva di controllo, che aderisce perfettamente ai caratteri e alle situazioni.

La storia della famiglia Moncalvi

È curioso ma in questo romanzo la morte, che tante volte irrompe in modo drammatico spezzando i legami famigliari, facendo convergere Storia collettiva e storia individuale, apre il racconto sotto forma di apparizione onirica: “Ognuno di noi aveva il suo modo di vedere arrivare i morti. La mamma se sognava una civetta sul platano, papà se sognava di perdere i denti, io se vedevo i serpenti“, e lo chiude come attesa imperturbata di uno scioglimento: “Ecco“, dice il protagonista arrivato alla fine, “se potessi vorrei terminare così i miei giorni. Sentire il mio nome pronunciato come una carezza. E poi potermi finalmente abbandonare nella luce e nel vento“.

Curioso perché nelle vicende narrate, che riguardano la famiglia Moncalvi che vive agiatamente a Barcellona, ma che lo scoppio della guerra civile nel luglio del 1936 costringe a un precipitoso ritorno a Genova, da dove proviene, si muore per lo più in modo tragico, come esito della convulsa ferocia degli uomini o di un destino improvviso, mentre la sua sostanza, a cui si allude in queste righe, appare più lieve, fatta di premonizione e di attesa.

Non è da sottovalutare questo tema che come l’amore, candido e appassionato, attraversa in modo decisivo le vite dei protagonisti, un displuvio d’alta quota, quasi una versione più discreta e meno tematizzata della grazia manzoniana.

Il vecchio, malato, che ricorda la sua vita e quella della sua famiglia (la voce narrante), si presenta con un incipit di sapore proustiano, sia pure in un senso capovolto rispetto a quello della Recherche: “Ho sempre faticato a dormire“.

Da Barcellona a Genova

L’arrivo della guerra a Barcellona, per il bambino che fatica ad addormentarsi, ha l’aspetto di un brutto sogno, i colpi delle armi vengono da lui scambiati per fuochi artificiali. La fuga tra i bagliori e le minacce segna per la famiglia, ma i due figli più grandi del precedente matrimonio non riescono a partire, l’inizio di uno strano viaggio.

In genere chi parte lasciando la casa, qui il grande e fiorente negozio del capofamiglia (che un po’ ricorda il mitico antro di stoffe di Bruno Schulz), si allontana con nostalgia e strazio. Ma Rivali, con l’istinto sicuro di chi asseconda la forza del racconto senza preordinarlo, intuisce e rappresenta l’ambivalenza di questo viaggio.

La traversata verso Genova per il padre rappresenta il nostos, il rientro nella terra della giovinezza, dove ha amato una prima volta (in seguito la moglie è morta e si è risposato) e da dove è partito alla ventura, ma anche lo strazio di chi sta perdendo quasi tutto ciò che ha costruito nel corso della vita.

Per i tre figli più giovani, Augusto il narratore, il fratello Carlo e Giulia, la sorella maggiore, vero perno di sentimenti contrastanti, Genova è solo un nome, interamente legato alla figura paterna.

Nell’Europa sull’orlo dell’abisso, la vicenda dei Moncalvi assomiglia più alla traversata del deserto che al ritorno ad Itaca, visto nella percezione fiabesca del piccolo Augusto (Gutin): “In quella notte tra Barcellona e Genova tutto era vento, tutto era corrente. Mi sarebbe piaciuto essere la polena di una nave“. E Genova appare come una visione emersa e sospesa sul mare: “Era una città di precipizi“.

La scoperta dei vicoli

Solo Giulia è indifferente, Giulia che in tutto il romanzo rimane legata alla città in cui è nata, una Barcellona scintillante e piena di quella vita che sente esserle ingiustamente strappata, come la sua giovinezza.

I Moncalvi vengono accolti dallo zio Lodovico, personaggio affettuoso e fino ad allora  estraneo al loro mondo domestico, uomo di mare, celibe, alla fine partigiano, porta con sé una ferita d’amore immedicabile (la bella e impossibile Margherita), ma avrà cura dei nipoti come se fossero fratelli minori o figli, e si incarica di far loro scoprire la città, i suoi vicoli (“l’ombra dei vicoli“), le sue leggende, i suoi santuari e cimiteri: “A Genova i fantasmi fuoriuscivano dalle pietre… le tombe erano fotografie di pietra”. Nel frastorno della nuova città e della nuova vita, sarà sempre lo zio a regalare ai nipoti ciò di cui hanno più bisogno per il loro ancora acerbo carattere: “Il coltellino per Carlo. Un esercito [di soldatini] per me. Un bellissimo diario per Giulia“.

La morte è un ladro nella notte

Nella terra promessa campeggia la villa di famiglia a Rovereto, terra di Piemonte a ridosso della Liguria. Anche nella nuova casa compare la figura di un anfitrione, Mario, vecchio factotum che inizia i giovani cittadini alla vita di campagna, ai boschi, agli animali (e tra gli animali si distingue il gatto Rosso).

In questi capitoli il romanzo prende un passo elegiaco, più lento, a tratti introspettivo a tratti descrittivo, che favorisce il riemergere dei ricordi del padre, del suo grande amore giovanile per Ada, con cui tenterà l’avventura per l’Argentina, fermandosi però a Barcellona, dove, dopo la sua morte prematura, sposerà la sorella Giustina.

Questo alternarsi di pagine, convulse quando si descrive la guerra civile in Spagna, bucoliche le altre, è uno dei segreti della sapiente scrittura di Rivali, che sa dosare pause e riprese del racconto come la partitura di un perfetto concerto grosso.

La pace delle colline e dei campi è però ingannevole: “La disgrazia era un ladro che colpiva alle spalle” (frase che ricorda Karl Rahner: “la morte è ladro nella notte“). Più tardi l’affondamento del Rex, il grande e lussuoso transatlantico che lo zio ha fatto visitare ai ragazzi incantati, la cui fiabesca presenza appare in Amarcord di Fellini, segnerà anche simbolicamente il precipitare finale della storia.

Il porto di Genova nel 1945

Tutto il racconto è puntellato dalle preziose pagine del diario di Giulia, in cui domina sì l’attesa adolescenziale del grande  amore, ma accompagnata e quasi corretta da un’insolita e matura lucidità: “Amore nasce dall’assenza“.

La scuola, lo scoppio della guerra, i primi bombardamenti su Genova, danno inizio alla nuova traversata tra le macerie della storia, la lotta per la sopravvivenza, il dolore per la scomparsa della madre e del padre: “Poi tutto cambiò, perché la disgrazia bussò alla porta con il vestito della malattia“.

L’amore una luce nella tragedia

E tra le avvisaglie della nuova tragedia che sta per abbattersi sulla famiglia, o quanto ne rimane, Gutin scopre la passione per il latino e incontra, grazie al latino, una ragazza, Laura, di cui si innamorerà: “Le pagine ingiallite del vocabolario stridevano con le perle degli orecchini di Laura. Ancora una volta volevo guardare i libri e invece cercavo il rossetto e poi i suoi occhi e poi gli orecchini… Mentre mi innamoravo di Laura, l’Italia sprofondava“.

In seguito la perderà, la cercherà, ritrovandola alla fine in un mondo preda della distruzione. Di nuovo l’abilità compositiva, così rara nella odierna produzione letteraria, si rivela nella distribuzione del tempo narrativo, nell’alternarsi delle speranze e delle paure, della furia che distrugge e della passione che arde.

E su tutto impende il destino. Che in Rivali sembra obbedire a una duplice funzione: trama di un imperscrutabile disegno o vocazione del sangue, o entrambe le cose: “Ma forse noi Moncalvi abbiamo qualcosa di strano nel sangue. Qualcosa che d’improvviso si accende e cambia il corso della vita. Un richiamo che arriva senza preavviso. Una legge cui obbedire“.

La strade della Benedicta

Gutin,  ardimentoso, cerca di raggiungere Laura in bicicletta, ma viene fermato da una pattuglia tedesca e solo l’intervento di un’insegnante gli risparmia la vita. Lo zio Lodovico ha raggiunto i partigiani in montagna, Giulia si occupa dei fratelli. L’acme del romanzo, nell’ultima parte, viene raggiunto con la strage della Benedicta, compiuta dai tedeschi ai danni di un distaccamento di partigiani vicino all’ex convento, il Venerdì santo del 1944.

I funerali dopo la strage della Benedicta

Il racconto, mediato dallo sguardo di un bambino, evoca una pagina epica, che a sua volta ricorda una celebre sequenza di L’Agnese va a morire dei fratelli Taviani: “Non avrei avuto il coraggio di salire alla Benedicta. Erano boschi popolati di spettri. Come nella battaglia di Teutoburgo, quando i Germani avevano annientato le legioni di Varo e poi avevano lasciato cumuli di ossa a sbiancare vicino agli alberi“.

La pagina della memoria classica si fonde con quella evangelica: “Nel recinto della Benedicta i prigionieri attesero il destino di notte, come Cristo al monte degli Ulivi“. Nella villa occupata, un ufficiale medico tedesco famigliarizza con Gutin, ispirandogli quella che poi sarà la sua professione, e qui, dopo la pagina terribile dell’eccidio, Rivali si accosta con delicatezza (la pietas a cui non viene mai meno) all’amicizia tra il ragazzo e il tedesco, mostrando come niente può annientare i sentimenti più profondi che uniscono gli esseri umani, comunque divisi dalle circostanze (una pagina questa, con la successiva morte dell’ufficiale, che rammenta le sequenze finali di Il pianista di Roman Polanski. Quanta corrispondenza tra il romanzo e il cinema!).

La fine della guerra

Terminata la guerra, Gutin si mette di nuovo alla ricerca di Laura, attraversando l’ennesimo deserto: “Non potevo credere che le persone a cui volevo più bene fossero scomparse nel nulla“. In una Genova spettrale “Genova era un’ossessione di tetti grigi“, incontra fortunosamente Laura nella imbarazzata freddezza di chi ancora non si è riavuto dalla tragedia, in seguito i due innamorati si ritroveranno e il gelo si scioglierà dando nuovo vigore al loro sentimento, mentre anche Giulia trova un amore reale e ciascuno intraprende la sua strada nella vita.

Il vecchio ha finito di raccontare, il libro ci riporta nella stanza dell’ospedale in cui è ricoverato, il cerchio si chiude. Ma qualche pagina prima, una delle più intense, durante una escursione di Gutin e Laura alla Madonna della Guardia, nel nome della donna amata Gutin sembra prendere congedo dal passato, vede trascorrere davanti a sé le persone care che ha perso, i loro gesti, le loro espressioni, e potrebbe forse dire con Hemingway: “Dio mio, fa che tutto torni come una volta”.

Libro di grande spessore, ricco di caratteri, di avventure e considerazioni, capace di deliziare il lettore con una sapida ricetta di cucina (quante!), di intenerirlo con la timidezza di un ragazzo innamorato, o mostrargli l’oscena realtà della guerra.

Chissà che qualcuno non pensi finalmente di candidarlo in uno dei prossimi grandi (e sviliti) premi letterari, come segno di cambiamento, emblema di un’altra Italia.