Gabriele Lavia porta le poesie di Pasolini in Tunisia

Il palco è nell’arena centrale, e fronteggia le sedie del pubblico. Tutto intorno, sotto gli archi e sugli spalti, le torce illuminano la notte tunisina. Siamo a El Jem, alle porte del deserto africano, e questo è il più grande (dopo il Colosseo) anfiteatro sopravvissuto all’antichità romana. Qui, intervallati dalla musica di un quintetto di archi, Gabriele Lavia e sua moglie, l’attrice Federica Di Martino, leggono alcune poesie di Pier Paolo Pasolini.

La serata è stata organizzata da Fortissimo Festival, manifestazione diretta dal maestro Filippo Arlia. Trentatré anni, direttore d’orchestra che si è esibito in tutto il mondo, Carnegie Hall compresa, oltre che il più giovane in Italia a guidare un conservatorio, il Tchaikovsky di Catanzaro: Arlia ha scelto la Tunisia per avviare uno scambio culturale con l’Italia.

L’anfiteatro romano di El Jem in Tunisia

Loro importano in questo modo la nostra storia, Pasolini ma anche Ennio Morricone sulle cui musiche durante il festival ha suonato l’Orchestra filarmonica della Calabria. Noi li aiutiamo a coltivare giovani talenti, che poi potranno ottenere una borsa di studio in Calabria per formarsi al conservatorio di Catanzaro.

Quanto a Pasolini – che il direttore del teatro di El Jem, Mabrouk Layouni, sostiene essere ben conosciuto in Tunisia – Lavia ne parla da “neofita e amante di questo grande poeta, che ha avuto un destino estremamente tragico, ha subito nella morte una passione”.

Le poesie scelte prefigurano quindi – con sonorità tese, scrocchianti, onomatopeiche – il destino tragico. A partire dalla prima lettura, Supplica a mia madre.

È difficile dire con parole di figlio ciò a cui nel cuore ben poco assomiglio”, scrive Pasolini. Commenta Lavia: “Il rapporto così stretto e feroce con la madre in questa poesia-confessione si svela con grande sincerità, e lui racconta come la sua omosessualità non felice, complessa e dolorosa, venga da questo rapporto con lei”. La sessualità ritorna potente nei versi di Verso le terme di Caracalla, con l’uomo che si aggira alla ricerca di ragazzi e delle loro “pieghe calde dei calzoni”.

Così come in Sesso, consolazione della miseria! letto dalla Di Martino con tono semplice, a far ascoltare versi che potrebbero essere stati scritti da De André: “Ma nei rifiuti del mondo, nasce un nuovo mondo: nascono leggi nuove dove non c’è più legge; nasce un nuovo onore dove onore è il disonore”.

Quanto ai “rifiuti del mondo”, cui tanto cuore donava Pasolini, la poesia – affidata sempre all’attrice – A un papa affianca la scomparsa del pontefice alla morte di Zucchetto, “ragazzaccio plebeo” che girava di notte ubriaco vicino a San Pietro.

Ascoltando sul palco i due protagonisti succedersi e alternarsi nelle letture, si capisce come Lavia abbia ragione quando afferma che “il pubblico ama sentire le poesie”. Anche se poi aggiunge ironicamente: “Qualunque poesia. Io mi scoccio a sentirmi sempre chiedere di recitare qualcosa, allora capita spesso che dica una poesia; chi ascolta probabilmente non sa che cosa sia, ma è felice, chissà perché. C’è una certa curiosità, anche se la gente normale non ha tempo né voglia di leggere cose che ritiene difficili, e per questo preferisce consumare questi romanzi americani, gialloni o sentimentaloni”.

Ai suoi inizi, il futuro regista conobbe Pasolini in un paio di occasioni. Quando studiava all’Accademia Silvio D’Amico e Giorgio Bassani invitò il poeta suo amico. E quando PPP gli propose uno spettacolo, solo che non c’erano soldi e lo squattrinato Lavia declinò.

Adesso, dopo l’omaggio al El Jem, si impegna: “Se avrò il tempo di imparare bene tutte queste poesie a memoria vorrei farne un vero spettacolo, sul palcoscenico. Però non ho più l’età per memorizzare con grande facilità, e queste non sono poesie con un verso che cade da un punto di vista musicale: sono versi in conflitto, come tutta l’arte moderna, che entra in conflitto con la forma, la bellezza, con qualunque sentimento”. Niente a che vedere insomma con, per esempio, il Leopardi dell’Infinito che – ricorda Federica – Lavia a fine spettacolo fece recitare a 1.500 spettatori riuniti nella piazza di Recanati: tutti lo conoscevano a memoria.

Il problema della memoria si pone però anche nel teatro di prosa, dove Gabriele Lavia riprende quest’anno per l’ennesima volta Il sogno di un uomo ridicolo da Dostoevskij.Credo di averlo già fatto per più di 500 repliche, eppure c’è un punto che non ricordo mai, sempre lo stesso. Già la prima volta mi è costato una fatica mnemonica inaudita, tanto che sono letteralmente scappato dalle prove. Ed ero il regista. Dovevo farlo a Spoleto e i miei due assistenti, Franco Però e Luca Barbareschi mi inseguirono e si misero lì a farmelo imparare”.

Tornando alla poesia: come funziona in teatro? Uno si immagina letture intime e poi pensa al tono enfatico con cui Vittorio Gassman declamava Dante…  “Il teatro è molto cambiato negli anni, oggi non ci riconosciamo nelle interpretazioni di Gassman o di Salvo Randone, che peraltro erano grandi attori. Adesso c’è un approccio psico-fisico-vocale alla parola diverso. Ma c’è una differenza abissale anche fra la mia generazione e quella nuova. In più, usano tutti il microfono, nei confronti del quale nutro una profonda antipatia: sono orrendi quei signori con una ‘palletta’ dietro le orecchie, e quegli altoparlanti messi in maniera sballata, così che la voce non arriva più dalla bocca ma da chissà dove”.

D’altra parte – e qui ad addolcire il discorso subentra Federica Di Martino – “la poesia è comunque un genere di spettacolo, che non si interpreta ma si dice. È come una canzone, la gente la orecchia, ce l’ha nella memoria. Ed è un servizio che l’attore fa per il pubblico. Io a differenza di Gabriele sono poi amante della poesia, Patrizia Cavalli, Alda Merini, Pablo Neruda… Mi piace perché trovo che sia come la musica: a differenza di un testo dove ci sono personaggi, ha una immediatezza diversa e permette di esprimere sensazioni molto forti”.

Due punti di vista differenti, che in scena si amalgamano perfettamente. Anche perché – Federica dixit – “io sono un’attrice vecchia scuola: ritengo che il teatro sia dittatura, un attore può avere sue idee interpretative e portare qualcosa al regista, ma comunque a decidere è lui, e io gli lascio serenamente il ruolo. E non dimentichiamo che Gabriele io lo considero patrimonio nazionale”.