Gonçalo Mabunda, AK47 Remix

Gonçalo Mabunda è una storia di Kapuściński, un capitolo di Ebano che scrive se stesso dal 1995 quando un ragazzo ventenne si mise a raccogliere le armi con cui un milione di suoi connazionali si erano sterminati a vicenda, facendone sculture. Gonçalo è figlio della più puttana delle donne, la guerra, nella più puttana delle terre, l’Africa, giocata a un giro di roulette nel casinò post-coloniale che è anche casino senza accento, bordello per il sollazzo dei signori d’Occidente, lupanare trafficato da sfruttatori e filibustieri che quando arrivano drenano sangue e quando vanno via lo lasciano sgorgare a fiumi. Nigeria 1966, Uganda 1971, Sudan 1989, Ruanda 1994, non sono nazioni e date, sono abbrivi di necrologi, cadaveri e fosse comuni, padri contro figli, massacri tra fratelli, famiglie spaccate ai due lati contrapposti della stessa lama. Accadde anche in Mozambico nel 1976; Gonçalo era nato un anno prima, l’indipendenza dal Portogallo due.

Negli anni sessanta le forze indipendentiste dei territori africani occupati dal regime di Salazar iniziarono una feroce guerriglia contro i colonizzatori portoghesi; sorsero il Fronte Nazionale di Liberazione in Angola, il Partito Africano per l’Indipendenza della Guinea e di Capo Verde e il FRELIMO, il Fronte di Liberazione del Mozambico. La guerra coloniale portoghese si concluse il 25 aprile 1974, giorno della Rivoluzione dei Garofani che segnò la conquista della democrazia in Portogallo e l’avvio del processo di riconoscimento dell’indipendenza per le ex colonie.  Lo straniero era andato via, ma la morte rimaneva a spartirsi la fame del Mozambico, e con lei sua sorella strage. Ponti, stazioni ferroviarie, scuole, ospedali saltavano in aria come pezzi di lego. Pezzi di carne. L’occidente era un bambino narcisista che non intendeva mollare il suo gioco, il potere di muovere le bambole negre in direzione dei propri interessi. In quegli anni gli Stati Uniti finanziavano in funzione anticomunista i governi del Sud Africa e della Rhodesia, divenuto Zimbabwe nel 1979, nei quali vigeva l’apartheid; l’influenza del FRELIMO sui movimenti indipendentisti locali rappresentava una minaccia da scongiurare e la soluzione si chiamava RENAMO, il movimento di Resistenza Nazionale Mozambicana foraggiato proprio da Sud Africa e Rhodesia.

La lotta intestina tra i miliziani di sinistra e quelli filo-conservatori fu brutale e si concluse soltanto a metà anni Novanta, quando il riposizionamento politico degli Stati Uniti propiziò il crollo dell’apartheid in Sud Africa, favorendo di riflesso il dialogo tra le due fazioni mozambicane che si avviarono nel 1992 al processo di transizione democratica conclusosi fattivamente nel 1995.

In quell’anno Gonçalo Mabunda diventa un artista. Partecipa al workshop dello scultore e attivista sudafricano Andries Botha, collaborando con lui a Durban dove inizia a studiare le proprietà dei metalli come un alchimista e a saldarne pezzi come un bravo fabbro. Rientrato a Maputo il Consiglio Cristiano del Mozambico lo arruola nel progetto Arm into Art, che intende riconvertire le armi dismesse della guerra civile in creazioni artistiche. Guidato da un verso biblico del profeta Michea – «forgeranno le loro spade in vomeri, e le loro lance in falci; un popolo non alzerà più la spada contro un altro popolo, non si eserciteranno più nell’arte della guerra» – Gonçalo apprende che il potere dell’artista è un potere terribile come quello della guerra, il potere demiurgico di ricreare distruggendo, ma proprio attraverso questa aspra verità comprende che nelle mani di un artista non esiste materia tanto oscura da essere irredimibile:  munizioni, ordigni, fucili AK47 e asce, residuati bellici raccattati nei villaggi mozambicani riprendono vita in assemblaggi antropomorfi disposti in modo da formare troni marziali e temibili maschere tribali.

Le sue armi redente fanno il giro del mondo, giornali e riviste di settore scoprono lo scultore-fabbro che trasforma dispositivi omicidi in opere d’arte. Mabunda espone a Parigi,  alle mostre collettive Africa Remix nel 2005 e Art Afrique nel 2017, vola a New York per unirsi alle esposizioni As Know As Africa e 1:54,  le sue opere vengono acquisite dalla Jack Bell Gallery di Londra, i suoi collezionisti si chiamano Bill Clinton e Fondazione Louis Vuitton, ma non è il genere di artista fashion di cui le élite finanziare si servono per consolidare la propria posizione di prestigio intellettuale rispetto all’uomo della strada incapace di comprenderne l’arte. Mabunda non è un provocatore a buon mercato né un marketer di fumo luccicante, non è Maurizio Cattelan o Jeff Koons: è la guerra, trasfigurata, che ritorna ai suoi signori.

Della guerra Mabunda remixa il boato, l’urlo di morte, i suoi strumenti. Gli AK47 si combinano tra loro secondo morfologie inedite, cambiano il valore d’uso e lo status semantico, diventano braccioli, poggiatesta, nasi, capigliature. Sono objet trouvé nel cuore di tenebra della storia, readymade che non cambiano la realtà della guerra ma inventano una via di fuga per ripensarla, sculture hip-hop fatte di campionamenti muti che gridano l’eco di un orrore di cui sono stati causa.

Mabunda è un Arcimboldo nero, un manierista d’Africa che assembla metonimie della guerra configurando volti che ne estrinsecano l’allegoria. Noi oggi tendiamo a dimenticarlo, ma le maschere rituali realizzate in Africa da civiltà perdute nel tempo o geograficamente lontane dalla nostra sono oggetti taumaturgici: non realizzati perché se ne apprezzino le qualità estetiche e formali, bensì destinati a un uso magico che solo stregoni e sciamani hanno il potere di utilizzare. Sono congegni per sintonizzare la volontà del mago con le forze misteriose che abitano la natura affinché la realtà ne esca modificata, curata, assicurando perciò una comunicazione tra il mondo dei vivi e il regno dei morti, tra l’aldiquà dell’esperienza – che è esperienza integrale e dunque anche tragica, di dolore, violenza, morte – e un aldilà arcano e inaccessibile. Come le maschere rituali Dogon e Grebo anche quelle di Mabunda sono oggetti magici, hanno il potere di trasformare degli strumenti assassini del passato in oggetti estetico-rituali proiettati oltre il dolore di questo mondo, oltre l’inferno della guerra civile, disinnescando la loro carica di morte nel momento stesso in cui, a essa, erigono un totem. Sarebbero piaciute al Picasso che nel 1907 scopriva la plastica africana visitando per la prima volta il Trocadéro: «non è un processo estetico, è una forma di magia che si interpone tra l’universo oscuro e noi, un modo di impossessarsi del potere imponendo una forma ai nostri terrori come ai nostri desideri».

Gli fa eco Mabunda, «ogni volta che distruggo un proiettile salvo una vita», correlando due eventi indipendenti in un rapporto di causa-effetto attivato dall’atto di piegare al proprio volere – tramite la manipolazione artistica – la forza simbolica degli oggetti, il loro vissuto storico, gli eventi bellici di cui sono stati protagonisti, tutta l’atroce assurdità sulla quale il singolo uomo non ha altrimenti possibilità di controllo. È l’essenza di ogni arte magica, quel remix del caos da cui nasce un nuovo ordine.