Il lento addio di Pia Pera al suo giardino

Comincia sempre con un lieve cedimento. Niente di eclatante, una zoppìa accennata, qualcuno che la nota per caso e ti chiede se stai bene, perché cammini sbandando a destra.

Comincia così, quasi sempre. Un piede che si storta senza parere o la mano che lascia cadere una tazzina da caffè, cocci ovunque e la stizza della goffaggine. Stai più attenta, concentrati! ti dicono i familiari o l’amante passeggero.

Ti senti in colpa, quasi, non sei più una bambina e certi gesti sbadati, lo sai, suscitano sorrisi compiaciuti solo alla scuola materna. Se ti trovi ben oltre il mezzo del cammino di tua vita, non ti perdonano nulla.

Una vita dedicata alle parole e alle piante

Pia Pera era donna gentile e aveva a cuore le foglie e i fili d’erba. Potava piante e recideva frasche secche. Cresceva pomodori e zucchine. Coltivava, su tutto, parole, sue e di altri. Attraversa il tempo della vita leggendo molto, letteratura russa dell’Ottocento e poetesse americane.

Traduce e insegna, compulsa fiabe dell’Est Europa e vite di arcipreti slavi, carteggi di uno zar scatenato e il romanzo in versi di Onegin. L’idioma creato secoli fa da Cirillo e Metodio per forzare la fede dei pastori erranti dell’Asia non ha segreti per Pia, che lo fa diventare passione e lavoro, ai più alti livelli accademici.

Nel frattempo, dal nulla inventa giardini e cerca il suo buen retiro o l’angulus di oraziana memoria nelle campagne dell’Italia centrale. La Toscana arcaica della Lucca natìa, i borghi sepolti tra uno svincolo e i colli. Vigneti e orti, dove impasta le mani e vanga e zappa, taglia e innaffia. Parole e ortaggi, dunque.

I segreti del giardiniere

Si isola senza malinconia, gli amici non sempre comprendono: Pia, cosa ti succede, il romitaggio che cerchi è una posa o sei diventata misantropa? Non sei uno stilita del deserto egizio, basta pelare patate, ti aspettiamo alla presentazione del libro, alla conferenza del filosofo modaiolo. Ti mettiamo in giuria, parole e ancora parole, ma decise da altri.

Pia sente crescere il disagio, più si dedica al giardino meno sente il bisogno di chiacchiere tutte uguali. Non è metafisico snobismo, è proprio bisogno di sprofondare in zolle umide e sudarsi la zuppa perché quelle verdure lì e non altre si sono moltiplicate grazie alle sue mani callose. I semi giusti. La compagnia e l’amore incondizionato dei cani.

Pia Pera di nuovo studia, è sedotta dalla figura, più reale che simbolica, del giardiniere. È gelosa del suo orto, annoiata da chi non coglie la potente bellezza del gesto di riempire una gerla e custodirla presso il camino.

Sfogliare ricette e di nuovo invasare, bagnare il giusto, né troppa luce né crepuscolo. La perfetta sfumatura di luce per le sue piante-figlie tardive non è scontata. Chiede aiuto e consiglio ai contadini dal viso bruciato, Pia, è dotta ma umile, semplice come solo i portatori di scatenata genialità sanno essere.

Si sente quasi in pace, pubblica saggi e diari sul giardino e la simbiosi che la lega ineluttabile a tutto ciò che coltiva e poi muore e poi rinasce come per miracolo laico. Piante e umani: tutti cadiamo inconsapevoli nel mondo, a volte gettiamo foglie e frutti, più spesso no. Poi secchiamo e ci afflosciamo. Uomini e zucchine, cipressi e cani e gatti e aquile e falconi. Ci moltiplichiamo e moriamo. Si torna alla terra. Così, semplicemente. Ancora increduli, come all’arrivo.

La prigione mielinica

Pia lo sa ma non è preparata; in fondo, non lo si è davvero mai. E la zoppìa non può essere nulla di serio, forse banali acciacchi a cui non si sfugge, troppe ore piegata tra le zolle, le giunture si lamentano. Qualche giorno di riposo, traduciamo la Winterson e rileggiamo la cara Dickinson, poi si torna nell’orto. Magari pianterò fagiolini o qualche tubero ignoto. Però il corpo ignora i nostri piani e a volte ci fa lo sgambetto, un pezzo alla volta.

La gamba di Pia cede un po’ troppo spesso, il riposo è acqua fresca, sembra anzi peggiorare le gambe che insieme si coalizzano e diventano pietra. Non accade in poche ore, no di certo. Ma nemmeno occorrono anni per entrare in prigione. Poetica immagine quella della prigione mielinica, ma feroce nel senso esatto con cui ti cattura e condanna all’ergastolo. Fine pena mai. Se non quando ogni singolo pezzo di fibra, muscolo e articolazione si sarà pietrificato.

I medici non sanno come dirlo a Pia, i medici non lo sanno mai, o quasi. Soprattutto se con quella maledetta mielina, sostanza cerebrale bianca come latte che scatena scintille e movimento ma può spegnersi senza ragione apparente e imprigionarti, lucida, in un corpo di carsica roccia, ecco, se con questa sostanza che si infiamma e ti abbandona loro non sanno cosa fare. Ci sono cure, medicine sperimentali, protocolli, chirurgia o cosa? Pia chiede, indaga, ha una mente abituata alla ricerca e bramosa di conoscenza, fin da piccola.

Il titolo “rubato” a Emily Dickinson

La malattia ha un nome, un acronimo innocuo e molto meno poetico della metafora della gabbia di sostanza eburnea cerebrale: la sigla ha tre lettere, due consonanti e una vocale. SLA. Sclerosi Laterale Amiotrofica. Il corpo se ne va, si blocca, si chiude, gli arti si paralizzano come fulminati dal curaro, gli organi interni, uno dopo l’altro, soffocano. La mente no, beffa estrema: la SLA dal cervello parte e tutto attacca, tranne la capacità cognitiva. Il pensiero, la memoria, la cruda consapevolezza. La parola diventa faticosa e impacciata, le lettere si impigliano una nell’altra, poi la voce tace. Gli occhi si muovono, lenti e disperati. A destra, a sinistra. Il collo cede su se stesso. Le mani come artigli, rattrappite e inutili. Per Pia Pera, poetessa lettrice scrittrice e infine sapiente giardiniera, le mani erano il ponte sul mondo. 

Prima del congedo, ci lascia una testimonianza di lieve e doloroso stupore, Al giardino ancora non l’ho detto. Il verso è l’incipit di una poesia di Emily Dickinson e perfettamente fotografa l’ansia di Pia verso il giardino figlio-amante: come dire la morte e l’assenza alle creature che lo popolano e l’attendono all’alba? A ogni alba, con pioggia o sole esploso, in cui Pia dopo una rapida colazione correva fra le piante innamorate? E gli insetti? Come raccontare all’ape solerte e alle colline tranquille, alle lucciole vanesie e alle formiche soldato che Pia non verrà più?

La scrittrice toscana, come la poetessa americana, non ha cuore per sancire la separazione, per dare parole all’addio fra il suo corpo ormai fermato nel tempo e nello spazio, sacro e indurito come le enigmatiche sculture del Parco di Bomarzo, e le zucchine in fiore.

Gli alberi chiomati invano aspetteranno la giardiniera, che in una mattina tersa di luglio del 2016, in silenzio e discreta come sempre fu partirà per la Via Lattea di cui parlava Cicerone. Latte e polvere di stelle, la Via dove riposano i giusti e i buoni. Dove si coltivano altre piante e nuove parole, forse. Dove i giardini sono come all’alba dei tempi. Senza notte. Onusti di pomi.

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L’autrice di questo articolo, Michela Musante, è una professoressa di Italiano e Latino al Liceo Marie Curie di Meda, in Lombardia. Nel suo recente libro L’ospite. Storia di un trapianto (Ancora) ha raccontato la malattia e il trapianto di fegato della figlia Lucrezia.