La libreria di Babele di Aby Warburg

Lo scorso aprile l’editore Ronzani di Vicenza, nella collana Engramma saggi, ha pubblicato una raccolta di saggi incentrati sul critico d’arte e bibliofilo Aby Warburg (1866-1929).

Più passano i decenni più ci si rende conto di un duplice e profondo valore da riconoscere allo studioso di Amburgo: sia nel campo artistico che in quello delle ricerche librarie è impossibile prescindere da Warburg.

Nasce in una ricca famiglia tedesca di banchieri, di cultura e religiosità ebraiche; si definisce significativamente:

Amburghese di cuore, ebreo di sangue, d’anima fiorentino (Citazione da: Gertrud Bing, Rivista storica italiana, 1960, n° 71, p. 113)

Se finanziariamente potrebbe permettersi di vivere di rendita, preferisce dedicarsi a studi liceali, poi accademici (Bonn, Monaco, Strasburgo) nei quali eccelle mostrando notevole versatilità.

Conseguito il dottorato in storia dell’arte nel 1893 con una tesi dedicata ai soggetti mitologici nell’opera di Botticelli, si occupa per due semestri di psicologia; quindi, trascorre l’inverno 1895/96 negli Stati Uniti appassionandosi ad arte primitiva e antropologia – in particolare agli Indiani Pueblo insediati in New Mexico e Arizona.

Afflitto da disturbi nervosi che ne impongono alcuni ricoveri in case di cura psichiatriche e disinteressato alla carriera accademica dedica la vita adulta a organizzare la sua collezione di libri in vertiginosa crescita. Negli anni la trasforma in luogo di consultazione e studio, biblioteca e centro di ricerca.

La passione per i libri si fa avanti con forza sin dall’adolescenza. Risale al 1879 l’accordo che l’appena tredicenne Aby sigla con il fratello maggiore. Idee chiare, profonda bibliofilia, forza di carattere segnano già quell’adolescente fortunato dai profili familiare, educativo e finanziario.

Max riceve di buon grado la cessione dei diritti sul patrimonio da Aby; in cambio il primo garantisce il secondo di soddisfare qualsiasi acquisto librario desidererà. Le basi del futuro Istituto Warburg nascono dunque dal felice incrociarsi di passione divorante e stabilità di fondi.

Sin da giovane lo studioso elabora la prima legge della ricchissima distesa di testi fra i quali già si muove con invidiabile disinvoltura: quella che chiama “legge del buon vicinato”.

Come racconta nel 1970 l’austriaco Fritz Saxl, direttore dell’Istituto durante le assenze per malattia del fondatore, quindi suo collaboratore per definizione:

La loro disposizione sugli scaffali era sconcertante (…) Ogni progresso nel suo sistema di pensiero, ogni nuova idea sull’interrelazione dei fatti lo spingeva a cambiare la disposizione dei libri corrispondenti (…) Per Warburg, il libro che si stava cercando non era necessariamente il libro di cui si aveva bisogno; il suo “vicino” sullo scaffale poteva contenere l’informazione vitale per la ricerca, anche se ciò non era evidente nel titolo (…) I libri erano per lui più che strumenti di ricerca: raccolti e sistemati in ordine e resi accessibili al lettore, essi potevano esprimere il pensiero umano nei suoi aspetti costanti e in quelli mutevoli. (Citazione da: Salvatore Settis, Warburg continuatus. Descrizione di una biblioteca, in AA. VV., Warburg e il pensiero vivente, a cura di Monica Centanni, Ronzani Editore, Vicenza, 2022, p. 182)

Forse l’episodio che illumina meglio sull’essenza dell’Istituto e le reazioni che suscita in molti studiosi è il commento da parte di Ernst Cassirer alle prese con la scrittura del primo volume della Filosofia delle forme simboliche. Il filosofo tedesco rimane così profondamente colpito da quel labirinto librario in cui finirebbe per smarrirsi da decidere in un primo tempo che sarebbe stata la prima e ultima visita al Warburg Institut. Al contempo, però, si tratta di una miniera in cui scoprire una serie di tesori quasi infinita.

La sistemazione assolutamente eterodossa degli scaffali rispecchia un dato di fatto essenziale per Warburg: gli studi filosofici e antropologici sono profondamente legati a quelli religiosi, letterari, artistici.

Per il filosofo si tratta dell’incontro con colui che esplora i suoi stessi temi: in sostanza Warburg raccoglie da trent’anni proprio i testi che Cassirer sente come essenziali per il proprio lavoro. Quella biblioteca è davvero “pericolosa”, è la conclusione della ricerca sulle forme simboliche.

Un lavoro analogo con i libri lo studioso austriaco lo compie con le schede che a migliaia inondano la sua scrivania e tavoli vicini. Continuo è per lui il ripensare a un metodo migliore di classificazione. Il concetto chiave è la tedesca Aufstellung: il termine viene da Aufstellen, verbo che possiamo rendere con formare, tirare su, mettere, disporre. E si tratta per Warburg di una sistemazione perpetua, quindi una ri-sistemazione; specchio del ri-pensare.

Salvatore Settis nel suo contributo al volume edito da Ronzani parla di “lavoro di Penelope”: il bibliotecario warburghiano più accorto è costretto a cambiare in continuazione i volumi seguendo i mutamenti del “sistema” approntato dal fondatore.

In realtà classificare, quindi sistemare i libri è null’altro e nulla di meno che ordinare il sapere, una qualche riflessione sull’ordinamento della conoscenza.

Lo storico dell’arte Ernst Gombrich, un altro intellettuale fra i più vicini al padre del Warburg Institute, parla della sistemazione di una biblioteca come ispirata a una particolare visione: quella di una Kulturwissenschaft unitaria (scienza che studia la cultura).

Dunque, leggendo Warburg, Saxl, Gombrich, Cassirer si scoprono due punti chiave inscindibili e inevitabili entrando a contatto con la visione dell’Istituto e della sua biblioteca.

si riflette il lavoro del fondatore come itinerarium mentis, un percorso dinamico del pensiero e del suo farsi fra i libri che si ordinano e riordinano di conseguenza;

il passaggio da un settore all’altro dev’essere percepito come naturale; una sorta di spontaneità dell’imprevedibile traghettare da un volume all’altro, da un campo del Sapere all’altro, forse tutti apparentemente estranei, “strani” ma dopo qualche riflessione i più giustificati. Anzi, alla fine proprio quelli inevitabili.

Storicamente i trasferimenti della biblioteca gettano uno sguardo storico e geografico, culturale e di sensibilità:

  • Amburgo, 1909/26, prima sede (nella stessa casa Warburg);
  • Amburgo, 1926/33, seconda sede (accanto alla suddetta casa);
  • Londa, 1934/37, quartiere Millbank, in seguito all’avvento di Hitler al potere;
  • Londra, 1939/44, South Kensington;
  • Londra, 1945/58, idem ma nuovo indirizzo;
  • Londra, dal 1958, Woburn Square.

Ad una prima fase di “normalizzazione” (fra il ’20 e il ’24), ne segue una seconda caratterizzata da diversi cambi di sede fra Germania e Regno Unito, a seguito dell’incrociarsi di vicissitudini burocratiche, finanziarie e soprattutto belliche. Infine, si giunge alla tranquillità stanziale della sede nella citata Woburn Square, che dura ormai da 64 anni.

Osserva ancora Settis:

l’incrocio fra i problemi che il lettore si è portato dietro entrando nella biblioteca e quelli che Warburg ha non risolto, ma canalizzato nelle maglie di un ordinamento che si identifica fisicamente in una sequenza di libri, è la ricchezza e il messaggio – ancora- di quella biblioteca. (Settis, op. cit., p. 197)