Mondo Cane, a love letter to Italy

Nel 1994 Mike Patton si trasferisce a Bologna, «uno di quei posti in cui vorresti morirci». Il motivo di quella scelta di vita così insolita per un californiano porta un profumo di donna: si chiama Cristina Zuccatosta, fa pure lei la musicista e da poco è diventata sua moglie. Un po’ di italiano Mike già lo mastica, ma a Bologna ha l’occasione di immergersi totalmente nella lingua che ha formato i pensieri musicali in bocca a Ennio Morricone e Riz Ortolani, compositori di colonne sonore da lui venerati, e scoprire scene locali di cui dall’America lontana, «dall’altra parte della luna» come canta quello che ora musicalmente è il suo più illustre concittadino, ignora l’esistenza.  A metà anni Novanta Bologna è ancora impregnata della scia creativa lasciata dalla controcultura del decennio precedente, l’avanguardia demenziale di Freak Antoni, lo shock antistatico dei Gaznevada, le vignette cannibali di Andrea Pazienza per Il Male e Frigidaire, il libertinaggio letterario di Tondelli, tuttavia i tour per i negozi di dischi della città lo portano ad appassionarsi ad altro: alla gloriosa scena prog tricolore degli anni Settanta,  alle nuove leve dell’avant (come gli Zu di cui nel 2009 Patton pubblicherà Carboniferous per la sua etichetta) e soprattutto alle «canzonette» degli anni Sessanta, una sorta di vocazione religiosa che lo chiama per radio ogni mattina. Tra tutti gli innamoramenti possibili, quello per la musica leggera italiana è di certo il più sorprendente per uno che coi Faith No More incrocia metal, rap, funk e rock progressivo giocandosi con Red Hot Chili Peppers, Rage Against The Machine e Korn il campionato del crossover, discograficamente uno dei campionati maggiori del rock americano di quegli anni.     

Mike scopre l’Italia come il Giuda di Berto segue Cristo in La gloria: per incantamento. Bologna è un flusso sinestetico di profumi culinari che cantano melodie uscite da vecchi Sanremo in bianco e nero, e lui si lascia guidare come un viandante medianico che specchia la propria voce elastica nel plasticismo dirompente dei rilievi di Jacopo della Quercia in San Petronio. Con la sua estensione vocale di sei ottave, Mike può permettersi di cantare qualsiasi cosa, medita quindi di incidere un disco che sia «una lettera d’amore all’Italia» , ma nell’immediato questa sua fascinazione tricolore non lascia quasi traccia nei lavori coevi, eccetto qualche brano dei Mr. Bungle – il progetto di pirotecnico pop orchestrale parallelo ai Faith No More – e Pranzo oltranzista, disco del 1997 ispirato al Manifesto della cucina futurista di Marinetti e all’Arte dei rumori di Luigi Russolo.             

L’idillio con la moglie Cristina si interrompe momentaneamente nel 2001, Mike abbandona Bologna ma non la canzone italiana che continua a frequentare e studiare finché nel 2010, con grande sorpresa dei suoi fan, pubblica Mondo cane, raccolta di istrioniche reinterpretazioni di undici classici italiani degli anni Cinquanta e Sessanta con l’accompagnamento di un’orchestra di quaranta elementi. Mondo cane differisce in America la miglior edizione del festival di Sanremo mai allestita: ci sono gli autori, gli archi, i legni, gli ottoni, i direttori d’orchestra e gli ospiti internazionali. La lettera d’amore è spedita; tempo qualche settimana giungerà al numero 2 della classifica americana, conquistando i fan di Patton che ora incipriano il proprio lessico sentimentale con le polveri romantiche effuse da Gianni Morandi e Gino Paoli, sulle note di Ti offro da bere e Il cielo in una stanza vibranti di inedite scosse elettriche, mottetti onirici, impercettibili dissonanze e crescendo che sciolgono i muscoli cardiaci.

Patton risarcisce Buscaglione dell’America che non ha mai trovato (Che notte!), riscopre il beat dei ravennati Blackmen rifacendo la scapestrata Urlo Negro con una foga quasi grindcore. Il suo pubblico è composto mediamente da persone che hanno come standard melodico il growl dei Sepultura, Mondo cane gli mostra che non c’è distanza tra John Zorn in Naked City e 20 km al giorno di Nicola Arigliano; che Morricone non è soltanto i western di Sergio Leone ma pure Mario Bava e Luciano Salce, ritmo solare che stempera  l’horror (Deep Down dalla colonna sonora di Diabolik) e magniloquenza malinconica a inquietare la commedia (Quello che conta cantata da Tenco in La cuccagna); che la musica italiana funziona anche fuori da Hollywood, a Positano dove Murolo si appropria di Scalinatella e Patton la corteggia stringendo tra le corde vocali sia l’inflessione napoletana sia la lezione di Demetrio Stratos.     

A differenza di quanto si possa pensare, il titolo Mondo cane non si riferisce all’omonimo documentario del ’62 che lanciò in Italia e nel mondo la serie dei mondo movie, ibridi tra documentari e finzione che descrivevano con morbosità antropologica usanze macabre e truculente da varie zone del mondo, bensì alla classica imprecazione contro eventi balordi. Involontariamente rimanda anche alla natura randagia della canzone popolare italiana, i migranti che nei primi anni del Novecento sbarcavano in America con le tasche bucate di speranza e gli occhi sgranati sui grattacieli che minacciavano le navi in approdo nel molo Pier A di New York. In quello sguardo Emanuel Carnevali, dimenticato scrittore della diaspora, capì di essere fottuto; a qualcun altro andò meglio. Le nascenti case discografiche cercavano musicisti da mettere sotto contratto e i migranti italiani offrivano un serbatoio di mandolinisti, cantanti e pianisti che in patria non avrebbero mai avuto la possibilità di incidere perché tarpati da un mercato esiguo accessibile soltanto ai cantanti lirici e d’opera. Negli Stati Uniti era diverso, la musica popolare aveva un mercato tutto suo. I dischi non erano un bene di lusso per benestanti, rimanevano alla portata dei lavoratori immigrati che ora avevano sufficiente disponibilità economica per acquistare grammofoni e dischi con cui alleviare la saudade mediterranea. Intorno agli anni Venti la comunità italoamericana trovò gli aedi della propria condizione  nelle voci di Rosina Gioiosa Trubia, Rosario Catalano e il complesso di mandolini dei Quattro Siciliani, Eduardo Migliaccio che cantava Coney Island prima di Lou Reed, meridionalizzandone il nome in Cunaliante come se la vedesse dalla riva di Bagnoli. Furono eroi nel vento di retrovie di cui Enrico Caruso fu avanguardia, contribuirono a infiorare il canto popolare statunitense di quel romanticismo passionale, spesso tragico, che a tutt’altri livelli echeggerà in Sinatra, in Dean Martin, nell’Elvis di Surrender e It’s Now Or Never.        
Le radici della melodia italiana in America sono una storia d’amore subalterno, lacrime e sangue, e carezze e nostalgia e ossa spaccate. È un mondo cane, ma qualcuno doveva pur cantarlo.