Piero Chiara fra Cristo e Casanova. Un inedito

Piero Chiara che filosofeggia sulla propria narrativa? Curioso. Le considerazioni raccolte da Giorgia Antognini e Alessandra Gruber, qui sotto, non possono che sorprendere i tanti convinti che il luinese fosse – come sostenne una volta Mario Pomilio – uno scrittore «senza metafisica», incapace di trattare le proprie trame «con l’occhio attento agli spessori emblematici». Niente di male, s’intende: lo stesso Pomilio si incaricava subito di richiamare il caso a suo dire analogo di Maupassant. Ma è poi davvero così? La pagina qui riscoperta rafforza i dubbi, in chi conosce l’ironia sorniona con cui Chiara esercitava l’arte della dissimulazione.

Prima di entrare nel merito è forse opportuno ricordare come Il Balordo abbia avuto in sorte il medesimo destino del suo protagonista: se questo romanzo del 1967 non va annoverato fra i più riusciti dell’autore, si può senz’altro considerare il più frainteso. In effetti il gigantesco e silenzioso Anselmo Bordigoni, che in paese passa per un pericoloso spostato, non è che un pacifico maestro di scuola, pescatore dilettante e pianista in un’orchestrina scalcinata. La contraddizione è già insita nel suo cognome: bordegà nei dialetti lombardi significa imbrattare, quando invece la sua coscienza – caso pressoché unico fra gli eroi di Chiara – è pura come acqua di fonte. Il Balordo non ordisce ingegnose macchinazioni, non sbandiera virtù salvo peccare nell’ombra, non attenta al pudore di ignare signorine, e nemmeno desidera abbandonare le rive del Verbano, dove si trova a meraviglia, almeno fino a quando non ne viene scacciato con ignominia, travolto da una scarica di maldicenze infondate. Degno erede dei campioni lombardi del grottesco, il Buon Cazzone – come viene soprannominato – continua a lasciarsi vivere e trasportare dal corso degli eventi, imperturbabile, a suo modo felice.

Che ci sia in questo caprone espiatorio qualcosa del suo creatore, di primo acchito pare difficile crederlo. Ma a ben guardare, anche in questo caso resta valida la regola enunciata da Chiara con una metafora adatta a questi mesi disgraziati: «Come quel medico che scoprì i primi vaccini, il quale provava su di sé gli innesti, io sono tale scrittore che prova la vita su di sé prima di raccontarla». Naturalmente l’impronta autobiografica non va cercata tanto nell’aspetto, quanto nell’approccio alla vita, fondato su un principio chiaro e semplice: «l’uomo non è che debba fare il bene. Basta che non faccia il male». Al proposito Chiara non teme di evocare Gesù Cristo e la dottrina evangelica, ma in realtà la fonte di ispirazione va scovata in un passo dell’Histoire de ma vie di Giacomo Casanova, della quale all’epoca aveva appena curato un’edizione per Mondadori: «adoro Dio, stando lontano da ogni azione ingiusta e aborrendo gli uomini ingiusti: non faccio però loro del male, perché mi basta astenermi dal far loro del bene». Lo prova il dattiloscritto del romanzo conservato nel Fondo Chiara di Palazzo Verbania, a Luino, dove si può leggere una tirata – soppressa solo all’ultimo giro di bozze – in cui il Balordo espande il concetto. Vale la pena di riportarne il passaggio centrale, che sentiamo riecheggiare nelle frasi raccolte a Lugano nel 1973:

«Astenetevi dal male e avrete fatto tutto. Non cercate di fare agli altri ciò che vorreste fosse fatto a voi. Quello che va bene per uno di voi, quasi mai va bene per un altro. Non siate giudici di ciò che occorre, o fa bene, agli altri. La virtù sta nel non fare agli altri ciò che non vorremmo fosse fatto a noi. Non amate il prossimo come voi stessi, che è impossibile e pericoloso. Fareste già molto a non odiarlo, a lasciarlo vivere a modo suo. Se vi schiaffeggiano sulla guancia sinistra, cercate di allontanarvi. Non porgete la guancia destra: sarebbe una provocazione. Pensate a tutto il male che è stato fatto da quando il mondo esiste, o meglio da quando esistono gli uomini. Gli schiaffi, gli omicidi, i soprusi, le vendette, le ingiustizie, i tradimenti, le offese, le guerre, gl’inganni, le male parole, le calunnie, le maldicenze, l’usura, la crudeltà. Poi togliete pure tutto il bene che è stato fatto: la carità, i conforti, i soccorsi, le cure, la giustizia. Vedrete che il bene è solo un tentativo per riparare o evitare il male, una specie di antidoto che il male stesso genera e attiva; e vi convincerete che basterebbe non fare il male perché il mondo diventasse un paradiso».

Restò un momento in silenzio poi come parlando tra sé aggiunse:

«Certo, è difficile non fare il male. Non c’è gusto, non c’è gloria, come ce n’è a fare il bene, purtroppo; e perfino a fare il male…».

Niente di strano, in fondo. Casanova fu per Chiara un autore di culto, al quale dedicò decenni di studio appassionato, nell’intento di sottrarlo ai pregiudizi che ancora oggi troppo spesso si addensano intorno al suo nome e al suo secolo. L’ultima parte del Balordo (insieme al coevo racconto Il ponte di Queensboro) rappresenta il punto in cui il luinese più si avvicina agli orizzonti del conte philosophique. Il Bordigoni, emerso miracolosamente dai disastri della guerra, si trasforma in un re bertoldesco: ricompare a Luino dove viene eletto sindaco a furor di popolo e impianta un curioso esperimento di democrazia diretta, governando con flemmatica tolleranza le beghe dei concittadini. Torna così ad affacciarsi la lezione di un altro maestro, Aldo Palazzeschi, lui pure in genere ritenuto del tutto estraneo al richiamo della metafisica. Ma non è davvero così. Se nella Spartizione viene facile riconoscere in filigrana il modello delle indimenticabili Sorelle Materassi, nel Balordo Chiara compie un’operazione più sottile, agendo per rovesciamento. Il lievissimo omino di fumo Perelà si trasforma così in una montagna di lardo baffuta e occhialuta. In entrambi i casi l’esperimento di impiantare nuove regole sociali fallisce; ma intanto il tarlo del dubbio penetra irresistibilmente nel cuore di chi li incontra, e nella mente dei lettori.

***

Il 12 aprile 1973 si tenne alla Biblioteca cantonale di Lugano una serata per presentare al pubblico la nuova edizione de La Svizzera italiana di Stefano Franscini. Si trattava di un’opera pubblicata tra il 1837 e il 1840 da una delle figure di spicco della politica e della cultura elvetiche dell’Ottocento, tra le altre cose, molto legato a Carlo Cattaneo. Lo studio tentava di fotografare la situazione del Cantone Ticino sotto i diversi aspetti: sociali, politici, economici, scolastici, sanitari, storici. A distanza di molti anni dalla pubblicazione, la Banca della Svizzera Italiana, che festeggiava in quel 1973 il suo secolo di esistenza, aveva deciso di commissionare una nuova edizione commentata, affidando il lavoro allo storico Giuseppe Martinola e a Piero Chiara. Lo scrittore intervenne in quella lontana serata alla Biblioteca cantonale per rendere omaggio a un uomo – Franscini – che fu – così si espresse – “esempio di disciplina morale e fedeltà al proprio compito”. Moltissima la folla accorsa alla cerimonia, molte le mani strette da Chiara, gli applausi, gli incontri. In tutta quella messe di personalità che attorniavano lo scrittore, era difficile trovare uno spazio, ma due ragazze del liceo di Lugano – che aveva sede proprio davanti alla Biblioteca – attesero con pazienza che il flusso si clamasse e osarono avvicinarlo per porgli alcune domande sul Balordo. Erano Giorgia Antognini e Alessandra Gruber che raccolsero le sue parole con un piccolo registratore. Da quella semplice chiacchierata, uscì una piacevole auto recensione del proprio romanzo da parte dello scrittore luinese. Il testo non è mai stato pubblicato e era fino a oggi del tutto inedito. Arriva sulle pagine di Tortuga direttamente dalle mani di una delle due giovani giornaliste di allora.

 

12.4.1973 – di Piero Chiara

I miei libri sono, come quelli di tutti i buoni narratori – quelli che io ritengo buoni narratori –, autobiografici. Anche se non parlano di me, parlano di esperienze alle quali io ho partecipato, di ambienti che io ho profondamente conosciuto e nei quali proietto la mia sensibilità. Direi che guardo con gli occhi dei miei personaggi, soffro, partecipo alla loro vita. E quindi sono tutti – questi miei personaggi – ipotesi di una mia vita. In particolare, Il balordo, è evidente che non può essere autobiografico, perché io peso esattamente un terzo del mio protagonista e non ho avuto nessuna possibilità di fare delle esperienze che il mio protagonista ha fatto. Apparentemente, perché questo gigante buono per me è la personificazione di un modo di vivere nel quale personalmente credo.

Quindi è psicologicamente autobiografica questa figura.

Anselmo Bordigoni, il balordo, è un uomo il quale è convinto che il fare il bene, il cercare il bene, il praticare il bene, è cosa sospetta. Chi fa il bene, lo fa sempre in vista di qualche vantaggio: o per avere della riconoscenza, o per guadagnare un posto in Paradiso, o per essere ammirato, o per dare a se stesso una sorta di soddisfazione che ha un fondo di egoismo. Secondo me – e secondo il mio personaggio – l’uomo non è che debba fare il bene. Basta che non faccia il male: che si astenga dal male. Se gli uomini si astenessero dal male, ci sarebbe nel mondo un regno di pace; fra gli uomini di buona volontà ci sarebbe quell’armonia che in fondo è anche nella morale cristiana, cioè nella morale di Cristo. Il quale non ha mai detto: «Fate questo, fate quest’altro». Ma ha detto: «Non fate questo, non fate quest’altro». «Amate il prossimo come amate voi stessi, ma non fate agli altri quello che non vorreste fosse fatto a voi». In questo concetto (cioè di un’opposizione passiva dell’uomo al male, ma di un’opposizione certa, profonda) è il senso della morale di Cristo. È forse il senso vero, possibile della convivenza umana.

Questo è il contenuto direi – con una parola forse un po’ troppo forte – filosofico di quel libro che da qualche critico è stato ritenuto, proprio con una locuzione francese, “un conte philosophique”, cioè un racconto che ha un fondo, un contenuto, morale e filosofico.

Altri miei libri, forse – apparentemente almeno -, non hanno un contenuto morale, né possono avere l’ombra di un ammonimento qualsiasi. Apparentemente, dico, perché anche in questo esame che io faccio spesso del modo di vivere di una certa società, c’è una sottoposta critica. C’è un esame di una situazione, la valutazione di un certo ambiente, la quale sottintende – sempre – un giudizio che spesso è negativo.

Ma, come tutti quelli che parlano degli uomini e del loro modo di vivere, è in fondo un atteggiamento morale.