Napoli e il plurale letterario di Raffaele La Capria

Costeggia via Caracciolo, attraversa la Villa Comunale e si ferma a Castel dell’Ovo. A volte prosegue per il Porto, osserva Santa Lucia e poi risale via Toledo.

È stata una passeggiata interminabile per le vie di Napoli la vita letteraria di Raffaele La Capria, una camminata tesa a raccogliere le voci di tutti, perché, come un microfono panoramico, lo scrittore credeva nell’idea plurale dell’identità e nella “polifonia napoletana” per nuova narrazione.

Come un contrappunto musicale di Roberto De Simone il suo romanzo, Ferito a morte (1961), non assegna una conduzione del racconto, ma restituisce una tessitura comune. E se suo malgrado il libro fu promosso esempio di avanguardia, la reale ambizione di La Capria si realizza come presa di posizione morale: “A me interessava proprio smembrare, disarticolare, spezzare l’autorità di quella voce unica e paternalistica del Meridione“. Un’intuizione nata dalle letture di Walter Benjamin e Ernst Bloch sul concetto di “porosità” – napoletana e italiana – e dall’osservazione di Palazzo donn’Anna, suo luogo di nascita. Come scrive ne L’occhio di Napoli (1994):

Nei piani superiori abita gente nobile, i principi Colonna, i marchesi di Bugnano; nei piani intermedi la borghesia; nei piani inferiori il popolo: il barcaiolo, il carpentiere, il pescatore. È questa la porosità sociale derivante dalla promiscuità di vicinato caratteristica di Napoli, di cui hanno parlato storici e sociologi, che, pur non cancellando le differenze di ceto e di classe, crea nei napoletani una omogeneità molto forte, anzi una vera e propria forma di civiltà“.

Non più distinzioni tra ricchi e poveri, nobili e popolani, buoni e cattivi, ma un unico coro impegnato nella ricerca e nel culto de “la bella giornata”, quella da riconoscere dall’odore, dalla trasparenza del mare, “la nostra misura del tempo, un tempo tutto napoletano” quella che “durava un’infinità, era aperta sul futuro e a tutto quel che poteva capitare“.

Un compito che proprio Raffaele La Capria, nato e cresciuto a Posillipo, non può disprezzare: trascorre la giovinezza in quel quartiere della città, che dal greco vuol dire proprio “una pausa dal dolore” (Pausi – lypòn), e rappresenta una parentesi magica, virgiliana, di Napoli.

Un’adolescenza tra spiagge e giardini interrotta dalla guerra, costretta all’inadeguatezza di un’uniforme troppo larga nel Battaglione D’Istruzione (che diventa Distruzione, per sua sottile ironia) e che per sopravvivere si rifugia nelle traduzioni de Les Nouvelles Nourritures di André Gide, insieme ad Antonio Ghirelli.

Il fascismo, con la compressione di libero pensiero ed idee, lo trasforma nell’età adulta in “teorico napoletano”, una sorte condivisa con Luciano De Crescenzo: un ideologo che spende la vita a formularla, dietro alle Grandi Occasioni Mancate, la “paura della plebe” e il “flauto suadente del dialetto”, perché altrimenti non saprebbe come trascorrerla.

Il dopoguerra, al contrario, gli concede la possibilità di leggere Wystan Hugh Auden, Christopher Isherwood, George Orwell, autori strettamente vietati dal regime, e l’opportunità di diventare trama: grazie allo scrittore William Fense Weaver, suo ospite a Napoli, La Capria appare come personaggio nel romanzo autobiografico Una tenda in questo mondo, ambientato nel dopoguerra, nella città che si mostra come “una Saigon mediterranea“, dove sesso e violenza, amore e morte, speranza e corruzione coesistono.

Una dualità che si riflette nelle contraddizioni del giovane La Capria, diviso tra l’intransigenza protestante di Weaver e l’anarchia, il disordine e la leggerezza del fratello Pelos, un «dio Pan» e il Ninì di Ferito a morte. Dicotomia che si trasferisce più tardi nella scrittura: “Non sento mai, mentre scrivo, di essere uno solo, di esprimere una volontà monolitica, io non sono mai stato in pace con me stesso, e posso dire, con Saba: O mio cuore dal nascere in due scisso / quante pene durai per uno farne“.

Ma dovendo scegliere un solo stile per scrivere, su tutti, vincerebbe quello dell’anatra: “senza sforzo apparente fila via tranquilla e impassibile sulla corrente del fiume, mentre sott’acqua le zampette palmate tumultuosamente e faticosamente si agitano: ma non si vedono“.

Il suo mondo, allegorico e doppio, esattamente come quello di Fabrizia Ramondino con Guerra di infanzia e di Spagna, è popolato di asinelli che ricordano Il male di vivere di Montale, cavalli da abbracciare, ma anche spigole e polipi con pigmentazioni umorali – come in Sabato, domenica e Lunedì di Lina Wertmüller – un bestiario che trova l’acme nel racconto L’ultima passeggiata con Guappo, cronaca della camminata con il suo cane prima di essere soppresso, sintesi della consapevolezza di non sapere mai cosa il futuro ci riserverà a breve.

Animali e uomini, teorie e argomenti si rincorrono nelle opere di La Capria creando, negli anni, una successione tra i libri, “come in una bibliografia: ognuno sembra scavallare, smottare in quello successivo“. Lo scrittore ricama da compositore il tema principale di un film, una “musichetta“, aggiungendo variazioni alla corrispettiva scena. E con il passare del tempo e delle pagine, “la musica cambia leggermente, diventa un’altra cosa“. Esattamente come la strofa di una canzone che ama dispendere nelle lettere de L’amorosa inchiesta (2006) e nei film di cui cura la sceneggiatura, Leoni al sole (1961) e Sabato, domenica e lunedì (1990):

E va bene / è cosa da niente / tutto si accomoda / pacatamente“.

Se la letteratura è il suo esercizio solitario di elucubrazione, il cinema è lavoro di squadra, diviso con gli amici di gioventù, napoletani che si riconoscono per appartenenza politica e destino comune da esiliato volontario: il trasferimento a Roma.

Con Francesco Rosi, Le mani sulla città (1963), Uomini contro (1970) e Cristo si è fermato a Eboli (1979) attraversa il realismo per stravolgere il cinema d’inchiesta, dedicarsi alla storia italiana e usare l’immagine come denuncia.

Per Giuseppe Patroni Griffi e Identikit (1974) fallisce l’incursione nel genere drammatico, ma è grazie a Vittorio Caprioli e Leoni al sole (1961) che La Capria ha l’opportunità di dilatare la “bella giornata” di Ferito a morte per trasformarla da parola in sequenza. Un film che esprime la “bellezza attesa” della giovinezza, trascorsa tra la dismissione di ogni responsabilità e un tuffo ad angelo dagli scogli.

Ha conosciuto, per sua stessa ammissione, felicità e fortuna, una lunga vita trascorsa come in villeggiatura, ridendo con il fratello Pelos, amando Ilaria Occhini – un dono così grande da sentirsi allo stesso tempo dio e temere l’invidia divina – ricevendo un premio Strega e un Campiello, continuando a girare nella mente e nei libri tra le vie di Napoli, culla e custode madre di un’infanzia che si rispecchiava nell’acqua cristallina di Posillipo.

E se anche non sono mancate preoccupazioni e qualche delusione, ha continuato la sua escursione con passo leggero, perché in fin dei conti: tutto si accomoda, pacatamente.