Tony Vilar: vent’anni di gloria e venti di buio

La mezza costa è una beffa del destino, la cosa peggiore che possa capitare dal punto di vista geografico. Si porta al mondo un uomo per lasciarlo in mezzo al guado. L’irresolutezza: è roba che riescono a gestire solo i democristiani, per il resto dell’umanità è dramma. Antonio Ragusa ci soffrì molto quando comprese di essere nato a metà strada fra il mare e la montagna: spartì gli occhi come i camaleonti, ne puntò uno sulla Sila e uno sul Tirreno, e fregandosene di De Gasperi scelse subito. Si votò al mare, che forse da lì venne il seme che lo piantò a Carolei, davanti a Cosenza.

Nell’anno, il ’52, in cui il suo paese ebbe, storicamente, la più alta densità di popolazione, Antonio si imbarcò su un piroscafo per l’America. A tredici anni, dopo essersi liberato della mezza costa cominciò a pianificare su come liberarsi di un nome che non si sentiva cucito addosso. Sprofondò nelle note della sua chitarra per tutta la traversata. Arrivò alla Bocca del Riachuelo e seppe subito di essere finalmente a casa. I colori risoluti del Caminito, le urla che arrivavano dalla Bombonera, la Boca era musica, l’unica strada che avrebbe voluto percorrere. Mentre i compaesani mischiavano al colore della faccia il grigio del cemento che impastavano per ingigantire Buenos Aires, Antonio provò a schiarirsi la gola, si rimpicciolì il nome: Tony. E quando le mani che lo applaudivano nei locali del quartiere superarono il centinaio, divenne Vilar.

Spalancò la bocca fino a ingoiarsi tutta la Boca, il quartiere non lo contenne più, e appena i Rigual gli lasciarono masticare Cuando Calienta El Sol, nemmeno Baires e tutta l’Argentina ne poterono confinare la fama. I suoi concerti erano più ambiti delle grigliate, i vinili con la sua voce incisa giravano a milioni. Vent’anni di un sole potente e una carriera spinta in alto dalla sola stagione che lo rincorresse, l’estate. Tony Vilar sembrava non doverci più scendere dal palco, che ci fosse una intera fabbrica di palchi che lavorasse solo per lui: assi di quercia che gli baciavano i piedi per devozione, e migliaia di fan estasiate ai suoi piedi.

Vent’anni, non una meteora: un corpo celeste che diventa pianeta. E chi se lo sarebbe potuto pensare: un buco nero che un universo di mezzo apre all’improvviso, si inghiotte il mito? Tony Vilar svanisce, rispunta Antonio Ragusa nato in un paese a mezza costa e un idolo da milioni di cuori appesi si trasforma in un venditore di macchine usate giù al Bronx. Che vendere macchine al Bronx nel ’78 non era neppure male: non facevi in tempo a parcheggiarne una che qualche nero o qualche italiano, che erano la stessa cosa, te la bruciava e dovevi tornare a comprarne un’altra. Dicono che Tony Vilar discese il palcoscenico per via di un’alopecia che ne strapazzava i ricci ammorbiditi dall’olio. Dicono che i suoi discografici provarono a dissuaderlo con gli esempi di Connery, di Curtis, di Reynold, e del mito dei miti Sinatra, quali divi parruccati. Dicono che invece vi fu un irreversibile crollo della voce. E dicono pure che fu la moglie a metterlo davanti a una scelta: o lei o loro, le fan. Ma forse fu quella beffa iniziale: la nascita a mezza costa. Una irresolutezza maligna che una volta che ti è capitata in dote diventa una bestemmia che ti si piazza in mezzo ai denti proprio nel momento in cui ti senti in gola la nota migliore: ti dà vent’anni di luce e vent’anni di buio. Antonio Ragusa ha spartito in due la sua vita, si è consumato una a una tutte le sue lampadine e dopo ha accettato di cadere nel buio insieme ai suoi ricci, lasciando Tony Vilar alla leggenda.