Mina Settembre: la verticalizzazione della distanza

È una lunga discesa agli inferi con destinazione Montesanto, la funicolare che ogni mattina dal Vomero traghetta Mina Settembre al consultorio dove lavora. Due fermate che collegano nella stessa città due mondi inconciliabili: sopra e sotto, giusto e sbagliato, legalità e perdizione. Così se in Napoli violenta – film poliziesco diretto da Umberto Lenzi nel 1976 – il commissario Betti, interpretato da Maurizio Merli,  uccide durante un inseguimento il bandito nel vagone, impendendo che il male raggiunga il quartiere collinare, Mina Settembre scende nel buio dei Quartieri Spagnoli come missionaria di luce e salvezza. È la parte sana della città, che domina dall’alto dimenticando di nascere dalla speculazione edilizia e che porta il bene nelle zone degradate, a essere la protagonista dell’omonima serie tv per Rai Uno. Perché Napoli sarà anche “mille culure”, ma a patto che si intonino con la camicia di Maurizio de Giovanni.

Salva aspiranti suicidi, sventa omicidi, rapine e sequestri, e cinque minuti dopo è a bere in un locale di Chiaia. Assistente sociale con cocktail e percentuale di successo di James Bond. La fiction, liberamente ispirata ai racconti e romanzi di de Giovanni per la regia di Tiziana Aristarco, tesse le trame di dodici puntate sdoppiandosi in casi difficili con soluzioni da effetti speciali e risvolti sentimentali. Dove Mina Settembre è chiamata a ristabilire l’equilibrio, intervengono in suo soccorso l’ex marito magistrato e il ginecologo del consultorio, ma soprattutto le due amiche del cuore, Irene e Titti, avvocato penalista di successo e ragazza di buona famiglia con ottime conoscenze. Il completamento di un trio da Charlie’s Angels che entra in scena dove lo stato con le sue istituzioni latita da sempre, lasciando intendere, senza troppe esitazioni, che lo stesso assistenzialismo a cui Mina Settembre ha deciso di votarsi è ben lontano dall’agilità della soluzione a portata di mano per la classe borghese. Sono attimi di concessione solidale, buone azioni da segnare sul proprio libro paga a fine giornata, hobby di volontariato tra problemi con i propri figli e rotture con i fidanzati.

E dove più si denuncia l’inadeguatezza di strutture, uno stato sociale debole e una partecipazione inesistente della comunità alle sue regole, più la deroga alle leggi viene invocata per risolvere un caso. Come per i commissari, suoi colleghi di fiction su Rai Uno, Mina Settembre è «un tipo che non va molto d’accordo con le regole»: può litigare per una sigaretta buttata per terra e far evadere per un paio d’ore il signor Mariniello dai domiciliari, perché l’importante è che la regola sia elusa da chi sta dalla parte giusta, per non rivelarsi un ostacolo. Come ripete la stessa Mina all’ex marito (dal romanzo Dodici rose a Settembre) «Già, già, la legge. Per te esiste solo quella, la legge. Be’, ti do una notizia, Claudio: la legge è un recinto, dentro il quale e fuori dal quale si muovono gli esseri umani. E se qualcuno si trova nei guai, la legge non dovrebbe essere un impedimento a dargli una mano, ma un supporto. Hai capito?». È questo sentirsi sempre al di sopra delle parti, custode di verità e giustizia, che determina anche sul piano visivo una ripartizione in bianco e nero, senza zone grigie, per tutta la narrazione: Mina e le sue amiche vivono in attici con vista sul golfo, appartamenti pieni di luce, alti soffitti e pareti bianche, i loro caffè sempre in terrazze con panorama da cartolina. Più che uno stile di vita, quasi un piano turistico della città, lontana dai suoi problemi, una verticalizzazione della distanza e del giudizio.

È proprio da queste altezze che la macchina da presa sembra riprendere i Quartieri dall’alto: strette inquadrature su vestiti che grondano acqua, motorini che sfrecciano, sporcizia, acqua gettata nei vicoli senza badare a chi passa, tutto questo mischiato, nel buio dei vicoli, a delinquenza, abbandono scolastico, prostituzione, violenza. Un lieto fine per ogni fine di puntata, certo, ma mai una panoramica che si allarghi sul mondo e l’umanità eternamente varia che vive i Quartieri, solo uno sguardo rapido per allontanarsi, al massimo per compatire. Manca la soggettiva anarchica dei bambini ritratti da Cyop&Kaf ne Il segreto – documentario sulle bande dei Quartieri Spagnoli che si sfidano per raccogliere quanti più alberi di Natale per il falò di Sant’Antonio – quella volontà di disporsi sullo stesso livello, avvicinarsi per annullare il pregiudizio, scomparire nel racconto e mettersi in ascolto. E soprattutto manca di ironia, quella pop dei film dei Manetti Bros. – Song’e Napule e Ammore e malavita – tesa sempre a giocare con gli stereotipi per ribaltarli. Sorprende che la protagonista di questi film, attrice capace d’essere trasversale ed esaltare le varie sfumature e caratteri della città sia Serena Rossi, interprete di Mina Settembre. Mentre negli ultimi anni ha saputo, con abilità, farsi spazio per la sua comicità e naturalezza nei cambi di registro, questa volta è un peccato assistere alla routine dei bronci, tra lacrime di fine puntata e urla per liti famigliari e sentimentali.

Se la fiction segna e ricalca questa distanza, portando in scena il dramma per far risaltare la bontà dei suoi risolutori, anche i libri da cui sono tratti i personaggi e le storie non si sottraggono a questo dualismo sociale. La Napoli dei Quartieri Spagnoli per de Giovanni è un infinito campo semantico di miseria: «Il consultorio aveva sede in un fatiscente palazzo alla fine di un fatiscente vicolo, con un paio di fatiscenti negozi al piano terra e un fatiscente androne buio, al cui angolo c’era una fatiscente guardiola che avrebbe, per coerenza, dovuto ospitare un fatiscente portinaio» necessariamente posseduto da tutte le perversioni sessuali possibili, se non è presente all’ingresso, può solo essere andato a scommettere o a fare una visita nelle case chiuse.

Le pazienti del consultorio sono volgari, grasse, rifiutano qualsiasi tipo di aiuto, ma prendono d’assalto il centro solo per essere visitate dal ginecologo sosia di Robert Redford. Il napoletano è l’unica lingua di riferimento, visto che l’italiano è solo per i verbali dei carabinieri, eterni nemici del popolo, eppure il dialetto non trova mai la sua forma scritta: le battute si susseguono in un italiano composto, intervallato da un «Mmò» e un «Dottò». Alla fine del paragrafo viene voglia di ascoltare tutto Franco Ricciardi e Maria Nazionale. C’è un’indignazione borghese che trova spazio nell’umorismo denigratorio degli ultimi che non riesce a nascondere un desiderio che vada al di là del semplice aiuto: al popolo più che prestare soccorso, va offerta una via di correzione. Non c’è l’indagine fotografica de La pelle di Curzio Malaparte e neppure la rabbia di Moscato in Scannasurice: Maurizio de Giovanni preferisce trascrivere la realtà dall’alto delle terrazze piene di sole e mare, così viene da domandarsi se questa sia la corsia preferenziale, il luogo adatto per i puntamenti di luce per ritrarre una realtà complessa, variegata e mutevole come Napoli.

Eppure i borghesi, così come gli intellettuali, non hanno sempre tracciato questa distanza tra i quartieri della città: troppo lontana nel tempo è purtroppo la ricerca di educazione – che non ha mai avuto pretese di correzione – del gruppo di Lotta Continua con la Mensa dei bambini proletari, in vico Cappuccinelle, a Montesanto; esperimento che per tutti gli anni settanta ha offerto sia l’aiuto concreto e solidale di un pasto ai poveri, ma anche laboratori, dall’insegnare al leggere e scrivere, comporre un giornalino e fare teatro. Un’officina di sostegno e programmazione per il futuro che ha coinvolto Goffredo Fofi – già assistente sociale e testimone dell’esperienza di Danilo Dolci in Sicilia –, Fabrizia Ramondino, ma anche Carlo Cecchi ed Elsa Morante. «‘Ncopp adde comuniste» Luigi Comencini presentava il suo Pinocchio con Nino Manfredi, ma non si rifiutava di prestare un aiuto in cucina quando gli si ricordava «Maestro, i piatti la attendono» (come racconta Peppe Carini, uno dei primi reclutati per il progetto, al Corriere del Mezzogiorno). Così non era difficile trovare sullo stesso piano e nella stessa cucina Costanza, ex operaia della Cirio, e Maria, sorella del giornalista Luigi Compagnone: due mondi differenti come i loro linguaggi, che non hanno mai sofferto di deferenza nell’intimare «Eh Maria faampress’ pigle ‘e piatti». Dare aiuto senza la pretesa di omologare a propria immagine, costruire un’alternativa concreta al contrabbando, cercare una vicinanza e un punto di osservazione che non sia dalle finestre degli appartamenti più alti, ma nelle strade, mischiandosi alle vite di chi è più distante. Napoli è ancora «mille culure», nonostante le camicie di de Giovanni e la gentrificazione del centro storico, resta la speranza per un futuro prossimo di poter continuare a dire: «E tu sai ca’ non si sulo».