Salvarsi in volo con “Il Maestro e Margherita”

Il crudele quinto procuratore. Della Giudea occupata. Giudea salvata e liberata. Da antichi e ctonii riti, Mammona in festa e manna sul capo, manna fra dita storte, manna e basta. Baal è partito, dicevano. Lasciando – che guaio, appunto – in preda a tormenti e a insane visioni il crudele quinto procuratore. Mani lavate mani temute. Mani protese al di là del mare verso Roma amor, Roma sempre troppo, troppo lontana.

Maledetti voi e per sempre dannato tu, Tiberio Cesare Augusto vigliacco e dall’urbe in fuga. Tu devi, sì, nasconderti: inutile presenza, ingrato princeps che sogni azzurre grotte. Ma io, malnato egemone, perché mai? Un esilio, quasi, dall’alto come scure calato. Odiata arida terra, odiato tempio. Croci immense. Croci sempre. Croci e ulivi ovunque.

Baal infine era partito, il compito fra le dune esaurito, il quinto procuratore – “Brav’uomo, a noi leale”, pensò con un sorriso sghembo il Signore delle mosche, Lucifero un tempo luminoso e ora orrido mostro con ali “di vispistrello” – senza parere tutto aveva compiuto. Nuovo orizzonte, nuova gloria per Baal. Un parco, poi. E una panchina. Dove aspettare.

Cosa cercavi, povero funzionario, Berlioz dal nome altisonante, dal cuore tronfio e secoli di certezze bolsceviche in cuore? Cosa inseguivi in quelle fredde ore attraverso viali svuotati? Woland, identità recente antico fuoco, con gatto e matti e frizzi e lazzi ti attendeva. Senza timore. Senza volontà forzare. Sciocco tenero Berlioz, omina ovunque e tu così miope, così fiducioso. Le magnifiche sorti e progressive e Quarti Stati in precipitosa corsa. Tu, in posa.

Con Woland, fra di voi, parole in volo. Cenni e consigli: burle, credevi. Mai più così reali, invece. Mai più, mai prima o dopo, così vicini. Manna dai cieli su di te richiusi. Manna gettata, Berlioz orfano di déi. Berlioz indifeso. Te ne sei andato lento e pigro. Incuriosito, un po’. Non troppo, dài. Quel Woland pare novella Cassandra. Ridicolo, lui. Che gran fanfara.

Sentisti il colpo, credo. Freni che avrebbero avuto bisogno di revisione o di attenta manutenzione. Fu l’ultimo suono che ti attraversò, Berlioz caro, Berlioz dal nome parlante, tutt’altra musica. Il rumore del congedo. La visione fugace, invece – ma che risate, finalmente! -, fu la coda nera e fitta. Pece e fiamme. Sembrava un gatto. Ma forse, amico mio, era la chioma scossa, in preda a nostalgia, del crudele quinto procuratore della Giudea. Roma è lontana, Berlioz, Roma ingrata. A Mosca, a Mosca!

Un romanzo capolavoro

La centesima volta che lessi Il Maestro e Margherita di Michail Bulgakov, composi a caldo questa riflessione, tra onirico e concreto: avevano preso forma in testa immagini sovrapposte e labirintiche ma disposte con la chiarezza che soltanto il realismo magico di Ariosto riusciva a seminare fra cavalieri e fanti e corse nelle selve oscure. Intrecci in apparenza inestricabili.

Pochi autori hanno un tale genio: evocare in un’opera più mondi paralleli e situazioni grottesche che prima della pagina conclusiva si ricompongono e sciolgono arcani. Che a una lettura da subito concentrata sarebbero stati senza indugio epifania e risoluzione dell’inchiesta.

La ricerca continua, dunque, come le fughe di Orlando, di Astolfo e dei distratti paladini carolingi insegnano: ci ripensai spesso, negli anni del mio amore folle e inquieto per il romanzo russo che vide la pubblicazione tra il 1966 e il 1967, quasi trent’anni dopo la scomparsa dell’autore.

Chi era Michail Bulgakov

Nato nel 1891 e morto nel 1940, Bulgakov da giovane fu medico condotto e dirigente ospedaliero nel governatorato di Smolensk e all’esperienza della cura, che svolgeva con passione ma sottraendo ore al riposo per assecondare, di notte, il demone della scrittura, dedicò I racconti di un giovane medico.

Tornato a Kiev, sua città d’origine, nel 1918, assistette a una serie di sovvertimenti politici in cui fu coinvolto in prima persona. Nel 1921, abbandonata la professione medica, si trasferì a Mosca per votarsi a tempo pieno al teatro e alla letteratura, pratica che rendeva poco o nulla, per cui dovette accettare un impiego come segretario presso il Commissariato del popolo; una volta lasciato anche il suddetto incarico, cercò di ovviare alle ristrettezze economiche collaborando con vari giornali.

Negli anni Trenta lavorò con fervore all’opus maximum, che tempo prima in una lettera al fratello aveva liquidato come “un romanzo sul diavolo” e che in realtà non appartiene a un genere preciso: è un romanzo, certo. Diviso in parti e in capitoli, con più personaggi, vivi o morti o forse solo immaginati, che lo abitano.

L’incontro tra Gesù e Ponzio Pilato

L’epoca e il luogo non sono per Bulgakov rigide categorie: la maggior parte delle vicende si svolge in una Mosca soffocata dal pugno di ferro della deriva stalinista, però già nel secondo capitolo c’è uno scarto narrativo fortissimo, un excursus inatteso (in seguito spiegato poiché costituisce lo scritto censurato del Maestro, malinconico intellettuale rinchiuso in manicomio) che ci catapulta indietro nel tempo e nello spazio.

In due frasi il lettore è gettato in una Galilea assolata e silenziosa, dentro il porticato elegante del palazzo di Erode dove, assiso su uno scranno, incontra Ponzio Pilato, il rabbioso procuratore nominato, dall’amico-nemico imperatore Tiberio, custode sommo di una delle regioni più conflittuali sottomesse a Roma.

Zeloti che preparano nell’ombra attacchi terroristici, rabbini che non ammettono contraddittori sulle Scritture, un popolo affamato e ignorante, che vive di rituali religiosi in nome di un abborracciato sincretismo e finge di pagare tasse e di obbedire a una città lontana che sente più ladrona che padrona.

Pilato aveva alle spalle una brillante carriera militare, prima di essere “ricompensato” con l’incarico che qualsiasi membro dell’oligarchia senatoria avrebbe rifiutato: gestire la Lex e lo ius dell’impero fra pescatori straccioni e lebbrosi che biascicavano un dialetto semitico irritante.

Il procuratore parlava fluentemente vari idiomi, fra cui il greco e l’aramaico stesso, il dialetto dei miserabili, però moriva di nostalgia per l’Urbe e i suoi viali lastricati di statue. Terme in cui riposarsi, giardini oltre il fiume dove ridere e rincorrersi con l’amante di turno. Giochi e agoni con le bighe al Circo Massimo, poi un banchetto alla domus di Lucio, in cima al Quirinale. Roma madre eterna e dispettosa matrigna, quando voleva.

Pilato, nel capitolo che Bulgakov gli dedica, in un certo giorno (“il quattordici del mese primaverile di Nisan”) del periodo pasquale, è tenuto a incontrare un imputato odiato da tutti, poveri e ricchi, capi del Sinedrio, pubblicani e mercanti del tempio. Il romano vorrebbe evitare un incontro che non comprende, ha una feroce emicrania e nel porticato si diffonde un profumo di olio di rose che trova nauseante e lo prostra.

Il dipinto Cristo dinanzi a pilato di Mihály Munkácsy (1881)

Come si chiama questo giovane? Jeshua Ha-Nozri, figlio di nessuno, uno scappato di casa senza arte né parte, così gli sembra quando gli viene consegnato, legato e già bastonato a sufficienza, perché lui – la massima autorità politica e giudiziaria di Gerusalemme, dunque responsabile dell’ultima parola in caso di arresti, processi e condanne – lo sottoponga a interrogatorio.

Roma colonizza, impone gabelle e norme, poi il lavoro sporco tocca a loro, ai ben pagati funzionari di Stato spediti ai quattro angoli dell’impero per convincere, con le buone o con le cattive, che essere aggiogati dai discendenti di Enea o di Romulus rex o di Marte stesso o di lupe che adottano gemelli sia addirittura un privilegio. Non tutti sono d’accordo, chissà perché. E poi basta, anni di tedio e di faide sanguinarie fra beduini appena dirozzati, pensa il cavaliere Pilato, sono sufficienti per garantirgli un ritorno a casa in pompa magna.

Anche lui sogna una dimora faraonica a Capri, oppure si accontenterebbe di una delle tante ville della gens Plinia a picco sul lago in Gallia, quello ombroso e profondo a forma di ipsilon rovesciata. Perfino il clima è migliore, al Nord, i suoi mal di testa avrebbero una tregua. E invece no, maledetti tutti e nessuno! Ma che nervoso rimanere ancora impantanato in queste sabbie ad annusare oli esotici e a mangiare datteri e cedri.

Mosca sotto il regime

Comunque il dialogo tra il potente romano e l’ebreo umile ma franco nelle parole che Bulgakov mette in scena con una visionarietà che lascia senza fiato è solo una parte del pirotecnico incalzare di eventi, di animali furbi e voli di streghe sopra una Mosca asfittica e di sabba scatenati per contrastare l’orrore della dittatura.

Chi esce peggio dal romanzo sono gli intellettuali asserviti agli ordini di un mitomane e di un sistema di controllo – di pensieri e di gesti – che solo i mediocri e i pavidi accettano come il “migliore dei mondi possibili”.

Berlioz perderà la testa, e non è una metafora: il presidente della prestigiosa associazione MASSOLIT (abbreviazione per “Letteratura di massa”) diventa l’incarnazione e il simbolo di una classe dirigente che produce “fumo” e si è volontariamente bendata gli occhi di fronte ai soprusi. Berlioz è l’uomo di cultura compiaciuto e ottuso, che incontra il diavolo in persona e non lo riconosce. Ride come uno sciocco e si sente al sicuro. Da cosa, poi, non gli è del tutto chiaro. Quando lo capirà, sarà tardi.

Chi sono il Maestro e la sua amata Margherita, si sono chiesti molti lettori da quando il romanzo è stato pubblicato e diffuso a livello internazionale? Chi aveva in mente, di preciso, il giovane medico prestato poi con successo alla narrativa? Non ci sono univoche risposte ed è giusto così.

Il Bene, il Male e ciò che resta dell’umanità

L’omaggio al mito di Faust e alle sue riletture, da Marlowe a Goethe, è evidente nella scelta di alcuni nomi e di certi surreali episodi. Però c’è ben altro nel gliommero ricco di fitti intrecci a livello linguistico e tematico. Si incontrano gatti neri che sembrano apparsi dal nulla uscendo da una piramide di Saqqara, si è testimoni di patti osceni fra Woland, non poi così antipatico, feroce e burlone, e umani deboli, impauriti o troppo fragili, come Margherita e il Maestro, per “volare alto” sopra i palazzi della burocrazia moscovita.

Occorre l’aiuto del Male e del Bene, di Woland stesso e della poesia, di Pilato depresso e di un predicatore idealista e inconsapevole. E’ necessario liberarsi delle zone grigie per tenere testa, o almeno provarci, a paranoidi accentratori che, per i casi feroci e incomprensibili della Storia, si trovano al potere e lo usano per azzerare il dissenso e schiacciare.

Anche i criminali periscono nella guerra totale che dichiarano a ciò che di umano resta e sopravvive, loro nonostante. Lasciano fumo e macerie dietro di sé, non meno che la doverosa damnatio memoriae.

Quando finalmente il romanzo di Bulgakov, cinquantasei anni fa, viene pubblicato, l’ometto vendicativo che aveva ordinato genocidi, liste di proscrizione e spalancato campi di lavoro oltre il circolo polare artico è divenuto ombra. Da quasi quattordici anni. Il medico autore del capolavoro è morto ancora prima, ma poco importa. Tutti lasciamo da qualche parte lo “scoglio” che riveste mente e anima. La polvere di un dittatore si disperde e non lascia traccia, o così dovrebbe.

Un’illustrazione dedicata a Michail Bulgakov

La polvere di Bulgakov rimane invece tra la carta delicata delle sue opere. Più immortali che mai: basta un soffio delicato e le pagine del volume tornano lucide. Prendono rapida vita, camminano con gambe forti oltre le steppe, i fiumi e le vette del pianeta. Viaggiano nel tempo e scoperchiano le tombe.

Le pagine di un libro perfetto sono l’Apocalisse di Giovanni: i dannati saranno nelle loro voragini sprofondati e condannati a una tortura atroce e priva di speranza. I salvati dal Lògos vedranno la luce della sintassi che leviga, purifica e consola.

Ci saranno i sommersi, ma chi avrà volato con il Maestro e la dolce Margherita sarà innalzato e guarito. Diventerà Libro.