Nick Cave: rifugio per il tempo immobile

All’ultimo lavoro di Nick Cave e Warren Ellis ci si accosta con qualche diffidenza. La visione del mondo del cantautore, che emerge da musica e liriche, da qualche tempo non offre vie di scampo, se non in una spiritualità per niente accomodante.

Tra tutte le maschere, quella forse più difficile da indossare è la nudità: la liberazione da ogni travestimento o identità. Lo sa bene Bob Dylan che, ad inizio anni 80, uccide sé stesso, quasi a voler mettere in atto la profezia finale di Tarantula, presentandosi nudo «figlio di Gesù» e parlando di redenzione.

Per Cave il discorso è diverso: fin dagli esordi, con The Birthday Party, la sua nudità è esibita, col tempo, poi, si aggiungerà un elemento religioso sempre problematico, mai manicheo. In un’intervista risalente all’uscita di Murder Ballads (1996), il giornalista iniziava a porgli le prime domande e cercava di rassicurarlo dicendogli di non volerlo affliggere con argomenti troppo impegnativi come, ad esempio, Dio. La risposta spiazzante dell’australiano fu:  «Perché no? Ho proprio voglia di parlare di Dio».

«Ti ringrazio, Signore perché hai nascosto queste cose al saggio ed al prudente  e le hai rivelate ai bambini»

(Vangelo di Luca)

Carnage titolo di quest’ultima opera, per ora in formato digitale, da maggio in supporto fisico – il “massacro”, proprio come la pellicola di Roman Polanski del 2011, tratta dall’opera teatrale Le Dieu du carnage di Yasmine Reza. Il regista esamina impietosamente il meccanismo che conduce alla distruzione dei rapporti in un contesto borghese o forse più precisamente la crisi dell’occidente.  È un tema che ha a che fare anche con l’album della rodata coppia Cave & Ellis, e da un certo punto di vista può dirsi anche un disco politico.

Appartiene agli album che durano poco e trasmettono molto, forse perché, come si è stanchi di parole non dette, c’è sfinimento anche per opere piene di in-essenzialità. Carnage, dura 40 minuti circa e in questo tempo c’è davvero poco da buttare.

Il disco è stato concepito durante il lockdown ed è evidentemente ispirato ad un immaginario apocalittico, dove il Covid ha trasformato la vita umana, forse in maniera irreversibile. Non c’è affatto un miglioramento, sembra dire Cave. Rabbia, dolore, frustrazione e paura sono state le dominanti di questi mesi e non c’è stato modo di venirne fuori con un messaggio di speranza. La musica di Cave ed Ellis può essere vista come un tentativo per calarsi meglio in questi sentimenti, di conoscerli, comprenderli, vincerli.

Nel disco c’è l’elettronica (il brano di apertura, Hand of God, ricorda a tratti i Suicide), ma anche il gospel, il blues alla maniera del Re Inchiostro, qualche orchestrazione che rimanda a Scott Walker, citazioni di Jimmy Webb (By the time I get to Phoenix); nel complesso prevale un linguaggio musicale scarno, funzionale alla voce di Cave, ancora profonda e da brividi, come ai tempi del capolavoro Kicking against the pricks (1986) con la sua rivisitazione malata e angosciante del patrimonio popolare americano (dal blues di John Lee Hooker al country di Johnny Cash fino alla poesia urbana di Lou Reed).

Nei testi, c’è un ricorso ad immagini mostruose, spesso ispirate dalla lettura della Bibbia, cosa non nuova per Cave. E l’elemento spirituale sembra sposarsi con una riflessione sui tempi che viviamo: forse Carnage è la seconda grande opera del tempo della pandemia e, volendo, si può trarre qualche conclusione dalla circostanza che la precedente sia stata partorita all’inizio del lockdown non proprio da un artista di primo pelo ma dal padre di tutti i trovatori moderni, colui che secondo Tom Waits costituisce per chi scrive canzoni l’analogo di martello e chiodi per un falegname: Bob Dylan.

Ma mentre Dylan storicizza e prende avvio da un omicidio (J.F.K.) interrogandosi su come sia una tappa cruciale – iniziale forse – del processo di decomposizione del mondo occidentale, forgiato da due guerre mondiali, nell’opera di Cave lo sguardo è concentrato sui sopravvissuti. E per questi non ci sono parole consolatorie, perché «ciò che non uccide rende pazzi» (Balcony Man).

Perfino nel dolorosissimo Ghosteen (2019), album legato alla tragica morte del figlio quattordicenne Arthur, c’è uno spazio per la speranza e si rinvengono perfino momenti di autentica pace; qui, invece, dominano immagini potenti, spettrali, che propongono l’immersione nella disperazione come esperienza catartica. Al contrario l’umanità è arrivata all’appuntamento con la pandemia impreparata, innanzitutto spiritualmente, perché forse il massacro dei rapporti umani è avvenuto prima. Non resta, ora, che abbandonarsi. Alla maniera dell’amata Flannery O’Connor autrice che considerava la spedizione nella malattia più proficua di qualsiasi viaggio.

Forse Carnage non è un album apocalittico, perché l’apocalisse è finita, e ora – che dovrebbe essere il tempo della rinascita – non ci sono pastori né guide mentre la pandemia ha danneggiato in un colpo solo: religione e scienza, soppiantandole col politicamente corretto e con la tecnologia più invasiva che surroga le relazioni umane. Resta ben poco tra le macerie del vecchio mondo, non resiste nessuna memoria, anzi il movimento iconoclasta della Cancel culture – già preso di mira da Cave in alcune interviste – sembra voler completare il massacro facendo piazza pulita di memorie e simboli divenuti scomodi, sbagliati.

Così, in White elephant, a gridare l’«I can’t breathe» di George Floyd è una statua abbattuta dai manifestanti del Black Lives Matter. La storia dei moderni procede attraverso opposizioni, contraddizioni e soluzioni delle contraddizioni, il che vuol dire per il tramite di una dialettica in sé violenta, fondamentalmente nichilista, che si sostanzia in vendette che non conducono a nulla. Così il militante che ha soggiogato la statua implorante pietà, le risponde «ora sai come ci si sente», criminalizzando e punendo in nome dei diseredati la storia “sciovinista” antecedente e i suoi simboli ma riproducendo così un mondo privo di amore.

«Nick, senti quei malvagi, apocalittici accordi rock‘n’roll. Quella canzone in “Fino alla fine del mondo” è stata per me un vero calcio nel culo!»

(James Ellroy, dedica a Nick Cave sulla sua copia di White Jazz)

Con Murder Most Foul di Dylan, Carnage potrebbe costituire una coppia, con un ipotetico, non voluto né pensato, passaggio di consegne da Dylan a Cave, come da padre in figlio, anche se in realtà il tutto fa pensare a un trittico sulla pandemia di cui Carnage è il pannello centrale.  Manca il terzo capitolo, che potrebbe essere opera di un artista più giovane, in grado di portare in modo altrettanto struggente il fuoco consegnatogli oltre la decadenza e la barbarie. Del resto, nel post-apocalittico La strada, Cormac McCarthy affida l’ultima speranza per una rinascita di una civiltà ispirata alla compassione ad un bambino.

Per ora si attende un vaccino spirituale o perlomeno qualche «rifugio contro l’inclemenza del tempo» (Gomez Davila). Come dice alla sua donna  il protagonista della dolcissima Albuquerque, quinta traccia dell’album: «we won’t get to Albuquerque / anytime this year» («quest’anno non andremo da nessuna parte, cara»).