Il “ricatto” antisemitismo: Moni Ovadia parla del conflitto israelo-palestinese

Un nuovo fronte di guerra con antichi problemi mai risolti. Dopo l’attacco del 7 ottobre da parte di Hamas ai danni di Israele, la questione israelo-palestinese e i timori di un allargamento del conflitto sono tornati al centro del dibattito pubblico.

Ma la discussione diventa difficile dal momento che chi sostiene la causa palestinese –  ripudiando qualsiasi forma di violenza e distinguendo tra un popolo oppresso e una criminale organizzazione internazionale – viene costretto a non esercitare il proprio diritto di libera espressione, imprescindibile garanzia di ogni democrazia, e ridotto al silenzio.

Si vietano manifestazioni filopalestinesi nelle capitali europee, il vignettista Steve Bell è stato cacciato dal Guardian, la Fiera di Francoforte nega un premio alla scrittrice Adania Shibli, Patrick Zaki è stato cancellato dal palinsesto televisivo.

Nelle voci dissidenti, Moni Ovadia. Attore e scrittore di origine ebraica, esperto e dedito al recupero della tradizione yiddish dell’Europa Orientale, non ha mai mancato di sottolineare le responsabilità dei governi israeliani nel conflitto e nella violenza mediorientale.

Moni Ovadia

All’indomani dei attacchi di Hamas e un’intervista rilasciata ad Adnkronos – in cui ribadiva la tragedia della strage ma la colpa dei governi israeliani – Fratelli d’Italia ha chiesto ripetutamente le sue dimissioni dalla direzione del Teatro Comunale Abbado di Ferrara. Un paradosso tragicomico “che nessuno rivela, se lo facessi sarebbe una Cicero pro domo sua e io non voglio autodifendermi”.

Nel 2014 già specificò che il suo sostegno ai palestinesi “non è contro Israele, ma perché il loro riconoscimento è precondizione per ogni trattativa che porti alla pace”. Da quando in Occidente essere un uomo di pace è diventato un problema?

Questa mentalità che l’Occidente fosse la parte buona del mondo è molto antica. Fin dai tempi della Guerra Fredda. Dall’undici settembre è diventata una sorta di ossessione: chiede a qualsiasi cittadino di schierarsi, non di scegliere con la propria testa quello che vede, di pensarlo, descriverlo. Si sta da una parte oppure dall’altra. Se sulla guerra russo-ucraina, si fa notare “Sarebbe stato meglio se la NATO che non si fosse allargata”, allora si diventa putiniano. Anche se la stessa opinione è sostenuta da autorevoli studiosi statunitensi, generali. Questo si è determinato da quando è prevalsa nella politica americana la cultura dei neocon, maturando un’unica visione: gli Stati Uniti sono il regno del bene, mentre i paesi arabi, la Russia e la Cina, il regno del male. Occorre spiegare al mondo come si vive. Da occidentali abbiamo determinato autentiche catastrofi come la guerra in Iraq, in Afghanistan. Le famose guerre preventive per esportare la democrazia. Un grande giornalista e scrittore americano che io considero tra i massimi critici e conoscitori della politica estera statunitense, una politica criminale, William Blum, ex funzionario del dipartimento di stato, ha scritto un libro prima di morire nel 2018: Il prodotto di esportazione più mortale d’America: la democrazia. (America’s Deadliest Export: Democracy, the Truth About US Foreign Policy, and Everything Else, 2013 ndr.).

Un modello che ha portato degli stravolgimenti anche in Europa: una compressione delle libertà fondamentali in nome dell’emergenza terrorismo, ad esempio.

Certamente, infatti un elemento indispensabile della politica neocon, adottata in seguito anche dai democratici, è quello che Victoria Nuland (attuale Sottosegretario di Stato per gli affari politici e vice Segretario di Stato nell’amministrazione Biden ndr.) ha detto in una conversazione che è stata intercettata: “Fuck the Eu”, “l’Unione europea si fotta”, facciano come dicono gli Stati Uniti e basta. Ed è desolante vedere come l’Unione Europa sia diventata solo un’appendice sottomessa. E tutte queste linee rimettono in campo i punti cardine dell’ideologia occidentalista: colonialismo e razzismo. Abbiamo assistito ad una strage atroce, perpetrata dai terroristi di Hamas, Non c’è alcun dubbio su questo. Ma da 78 anni Israele commette delitti contro l’umanità, crimini di guerra nella Striscia di Gaza, e nessuno ha mai alzato la voce per denunciarlo. Eh, ma quelli sono arabi, si pensa. Israele è stata sussunta sotto l’Occidente, Israele siamo noi, quindi gli altri sono i cattivi. Appena compiuta la strage di sabato scorso, tutti hanno levato la voce dicendo: “Israele ha diritto di difendersi”, ma nessuno si è pronunciato sui diritti dei palestinesi. Eppure il governo israeliano non chiede un diritto, vuole un’impunità. Il ricatto è sempre lo stesso: noi facciamo qualsiasi cosa e voi non dovete dire niente altrimenti siete antisemiti. E questo non lo dice Moni Ovadia che vale come il due di picche, ma il più autorevole giornalista israeliano, Gideon Levy, che all’indomani del 7 ottobre ha scritto un articolo durissimo.

Per le sue idee sulle responsabilità del governo israeliano, Fratelli d’Italia le ha chiesto le dimissioni da direttore del Comunale di Ferrara. Non dovrebbe essere un diritto fondamentale in democrazia esprimere la propria opinione?

Sono stato attaccato solo per aver espresso un’opinione e io mi sono semplicemente comportato secondo l’art.21 della Costituzione repubblicana. L’Italia non è più una democrazia, è un grosso errore crederlo, ormai siamo in pieno regime, come tutto l’Occidente. Ogni Paese si avvia ad essere un avamposto americano, una partitocrazia, nella migliore delle ipotesi. Come potrebbe l’Europa tollerare il regime fascistoide ungherese se fosse autenticamente democratica? Ci riesce benissimo perché dietro le chiacchiere sta bene così. Solo alle istanze di tipo reazionario è consentito circolare liberamente, quelle invece che sono radicalmente democratiche, secondo i principi sacrali delle costituzioni dell’illuminismo, sono da considerare criminali. Stiamo affrontando un nuovo fascismo, l’atlantismo ne è una forma.

Una teorizzazione figlia di quella elaborata da Pier Paolo Pasolini, la società dei consumi come nuovo fascismo?

Pasolini aveva parlato di questo nuovo potere bianco, ancora non definito nel secolo scorso, ma che attualmente è stabilito: sono le grandi multinazionali, il potere dell’informazione mainstream che non informa ma fa solo propaganda.

Avrebbe detto Carmelo Bene “la stampa informa i fatti non sui fatti”, l’approfondimento o la complessità sono diventati i veri pericoli?

Certamente, la complessità del pensiero critico mette in scacco la propaganda. Al contrario si preferiscono i talk show, la televisione-spettacolo che impedisce la formazione di ragionamenti profondi e articolati. Si concede spazio solo per intrattenimento e slogan.

Nel romanzo di Martin Amis, La storia da dentro, dopo un discorso di Amos Oz si discute sul peso degli intellettuali: “In Israele gli scrittori non sono solo intrattenitori. Sono profeti”. C’è ancora questa influenza?

Ho conosciuto David Grossman e Amos Oz, purtroppo non Abraham Yehoshua. Mi permetto di muovere una critica: non dovevano restare in Israele, secondo me. Avrebbero dovuto andarsene con un gesto molto radicale, dicendo: “Non possiamo vivere in un Paese che opprime un altro popolo”. Gaza non è un posto come tanti nel mondo, è un vero e proprio lager: i palestinesi sono segregati, sottoposti ad apartheid, ammazzati, gli si porta via l’acqua e le terre. I coloni scatenano dei veri pogrom contro di loro. E a pochi chilometri c’è la Tel Aviv della movida. Con i migliori ospedali, gli israeliani che mandano i loro figli a studiare all’estero, che non appena finita l’università vanno in India. Come può questa disparità di vita e di prospettive per il futuro non creare conseguenze? Il privilegiato vede i suoi privilegi come diritti e non guarda più che l’altro affianco a lui ne è sprovvisto. Sono stato a Ramallah, poi nei campi profughi e l’ho vista plasticamente l’acqua rubata dagli israeliani ai palestinesi: i coloni annaffiano i loro fiori e i palestinesi ce l’hanno razionata quattro ore al giorno. Come si può pensare che questo non crei una bomba sociale?

Ma con la gravità degli eventi di questi giorni, anche il mancato intervento del Mossad, si aspetta una caduta politica di Benjamin Netanyahu?

Benjamin Netanyahu è un delinquente e deve andare in galera. Ha fatto tutto questo, messo a repentaglio anche la vita dei cittadini del suo Paese, solo per sottrarsi alla giustizia. Alleandosi con la peggiore fazione ultrareazionaria e fanatica degli ultraortodossi solo per riuscire a non confrontarsi con i propri crimini. In più è stato ripetutamente detto che Hamas è stata creata con il sostegno dei servizi segreti israeliani, il cui unico interesse era mettere i bastoni tra le ruote all’OLP. Adesso dicono che Hamas sia un’organizzazione di criminali. Certo, ma li avete scelti voi i criminali.

Al momento lei è un intellettuale isolato. Ma quali forze politiche e sociali hanno voltato la faccia alla causa palestinese negli ultimi anni?

Per quel che riguarda il centrodestra – Forza Italia, Fratelli d’Italia – sono sempre stati con Israele, l’atteggiamento più deprecabile è quello del PD, filo atlantista, un partito che sostiene la guerra, e adesso anche la politica di Netanyahu. Gli unici interlocutori che ho io appartengono alla sinistra radicale, una forza attualmente abbastanza disastrata in Italia.

Ottant’anni fa, il 16 ottobre 1943, i nazisti deportarono più di mille ebrei al ghetto di Roma. L’antisemitismo in Italia vive un momento di stanchezza o ha semplicemente cambiato forma?

Credo che si debba distinguere tra una latenza di stereotipi presso le fasce della popolazione meno acculturata e l’antisemitismo come l’abbiamo conosciuto nei tempi tragici, quando l’antisemitismo aveva spazio pubblico, era programma dei partiti. Sono due cose totalmente diverse. Oggi ci sono dei rivoli sotterranei e meno sotterranei di antisemitismo, che vanno monitorati, con estrema attenzione, ma non hanno nulla a che vedere con l’antisemitismo istituzionale. E non parlo solo della Germania nazista, ma anche della Francia dell’inizio del Novecento, della Russia.

E come è cambiata la comunità ebraica italiana?

In peggio, purtroppo. È diventata una comunità di reazionari. Ho rotto completamente i miei rapporti, perché la gravità della loro azione è di non agire da comunità ma da ufficio stampa del governo israeliano. Se nel mondo anglosassone, alcuni gruppi cominciano a sganciarsi dalle posizioni filoisraeliane, l’Italia conta piccole comunità, che vivono in una sorta di perenne paura, come se fossero a Berlino nel 1935. E fanno qualcosa di molto grave, perché una comunità ebraica appartiene a tutti, che la pensino in un modo o nell’altro. Al contrario in Italia occorre essere con Israele, senza se e senza ma. Purtroppo in questo Paese, più di altrove, c’è un tasso di pavidità e di vigliaccheria inenarrabile.

Lei prega qualche volta?

No, non sono religioso, ma sono molto interessato ai fenomeni spirituali, affascinato dall’intensità espressiva dei fenomeni religiosi.

E quali libri sta leggendo in questi giorni difficili?

Per una curiosa coincidenza il romanzo drammaturgico di Abraham Yehoshua, Il terzo tempio, che per quanto mi riguarda esiste già: è il tempio dei grandi pensatori dell’ebraismo e dei maestri.