Derborence: il romanzo giusto per il nostro tempo

E’ un aneddoto di Herbert Lottman, il corrispondente del Publishers Weekly da Parigi, nel dopoguerra – un passo della  monumentale biografia che egli volle dedicare ad Albert Camus: era l’agosto del 1936, l’Europa sull’orlo del precipizio.  Scendeva in treno dalle Alpi all’Adriatico, il giovane scrittore francese, nella luce degradante del pomeriggio – ombre ad avvicinare le trame delle case dal finestrino. Da Vienna fino a Venezia, verso i Monti Berici. «Egli era come in attesa di qualcosa». E «sorrideva, indicava, in una parentesi di serenità, alla moglie Simone (ormai già un’estranea) un particolare del paesaggio». All’amico Yves Bourgeois, che li accompagnava, tornavano alla mente «i loro giorni felici». In effetti: «Ero pronto per la felicità» – scriverà poi di quei giorni lo stesso Camus in La mort dans l’âme. Come un nume tutelare, fu come un’epifania a sugello di «quel pomeriggio d’estate di pura estasi» (ancora Lottman), che nel tremolare sanguigno della luce dello scompartimento a Camus parve di riconoscere nel viaggiatore di età venerabile, altero, silente, seduto in un angolo, lo scrittore svizzero francofono Charles-Ferdinand Ramuz. (Esistono momenti che sono come un’immersione: nell’inerzia e nella magia della dimenticanza, tempo e cultura sembrano appaiarsi. Andò così, forse).

Oggi sono trascorsi cento anni dall’apice della carriera di Ramuz. È tra gli anni ’20 e ’30 che i suoi romanzi sui villaggi alpini del Vaud cominciano ad uscire a Parigi. Del ’18 era stata la collaborazione con Igor Stravinsky per l’Histoire du Soldat. Poi arrivarono La grand peur dans la montagne, Une main, Une province qui n’est pas une.  Della metà degli anni ’30 saranno invece i titoli maggiori che ricordano i suoi più affezionati lettori, attaccati alla memoria di questo autore appartato ma leggendario, stimato da Céline oltre che da Camus, scioccamente derubricato a semplice «autore di montagna» (qualunque cosa significhi quest’espressione), a un certo punto in odore di Nobel, «indipendente e incomparabile» in una bella definizione dello studioso Italo Vanni (che magistralmente introdusse la prima edizione italiana di La guerre aux papiers). Da ricordare è senz’altro Si le soleil ne revenait pas (1937) e prima c’era stato Farinet (1932).

E il capolavoro Derborence del 1934. A rileggerlo: è il romanzo classico e giusto per il nostro tempo. La storia di una montagna nemica. E di un tempo ostile, di uno scenario avverso, di una natura violenta e senza intenzioni amichevoli – davvero: non è quello che ci troviamo a vivere al tempo della pandemia? E niente wilderness, non ci sono scenari da soggiogare, non ci sono sentimenti di gloria. Derborence è povero teatro per gli uomini, invece. Non sfidati ma chiamati a sopportare, a sopravvivere, a commisurare la loro innocenza con il male che si sprigiona da un evento tragico: la valanga che dai picchi del diavolo si abbatte sui pascoli di una valle. La trama è tutta qui.  Il romanzo si apre con pagine dedicate alla descrizione del silenzio notturno nelle valli. Una pace che non celebra un’assenza, però. È un luogo in cui sì, tutto tace (è come una precondizione), ma in cui si manifestano presenze. Dal silenzio si estraggono, con pudore, racconti, vite, le piccole ma meravigliose traiettorie individuali di uomini semplici, come i pastori Antoine e Seraphin, raccontati in misura esatta, con una lingua che ha appreso l’amore per il ritmo di Flaubert, coniugato a un naturalismo di vocazione autentica, a un’inconcinnità aspra che non si consente voli pindarici, ma che è sempre autentica e aderente  a pensieri, sensazioni, idee di antieroi di cui non ricorderai il nome ma la pulizia o, meglio, la capacità di fare i conti con la vita e con una testarda speranza, la silenziosa e non smodata ribellione alle tragedie, la morale volontà di non cedere di fronte a nessuna caduta o evento.

Solo in opposizione Ramuz lascia spazio ai suoi scenari. All’elementare, piccolo gesto di esistere e di resistere, che contraddistingue i suoi personaggi, fanno da contrasto gli azzurri profondi dei cieli, i fragori, la vertigine mattinale e la grandiosa solitudine dei suoi paesaggi. Antoine il sopravvissuto, il protagonista di Derborence, se così si può dire, è l’interprete di un riadattamento, di un riaccostamento lento alla vita. Tutto quanto lo circonda serve soltanto a ricordargli la sua fragilità.  Una ripartenza sarà possibile solo nel tempo. Il nuovo inizio sarà solo una risoluzione a valle dell’evento calamitoso da cui ha origine la storia. Si attenua e si spegne, il male, solo in lentezza. I desideri degli uomini non sono onnipotenti e, in realtà, non è mai dato di sapere dell’imperscrutabile legame che unisce uomo e natura. Quasi un’ossessione per Ramuz cui, solo, egli poteva tornare e ritornare – forse non è un caso che egli nutrisse un amore sconfinato per l’opera di Paul Cézanne e in particolare per i quadri dedicati alla montagna di Sainte Victoire (con la moglie Cecile Cellier, artista, era stato in viaggio di nozze ad Aix en Provence sulle tracce del pittore). Senza passività, senza rinuncia, di fronte a quest’oltranza la solidarietà è il compito degli uomini nonostante tutto. Di fronte a ogni imprevisto movimento spaventoso che sembra sconvolgere l’immagine del mondo, questa è la sola via. Come di fronte a un vertiginoso svuotamento, a un farsi astrazione della realtà, prima della guerra, pensavano, forse, due scrittori in treno, un pomeriggio d’agosto del 1936. Come i segni del tempo e la riscrittura orwelliana del nostro presente sembrano indicare oggi.