Melis: nostalgia preventiva di un personaggio

Erano i primi anni del nuovo millennio, a Milano: qualche giorno a settimana lo trovavi nel suo ufficio alle splendide edizioni Bonnard – lavorava a fianco di quel gran genio di Vittorio Di Giuro, editore, che, con occhio di falco, pubblicava libri che nessuno osava. Ai suoi piedi Dora, cane nobile e amica inseparabile. Lui, bibliofilo vecchio stile, saggista, un incarico da professore di storia comparata del libro all’università di Bologna, aveva appena cominciato la carriera di scrittore di gialli. Il suo nome non era ancora leggenda. Oggi, invece, vent’anni dopo, Adriano Bon, con lo pseudonimo di Hans Tuzzi, è un autore da 100.000 copie. Così recita la fascetta del suo ultimo titolo: Nella luce di un’alba più fredda (Bollati Boringhieri, 208 pp., 15 euro).

(Ogni volta, anche questa volta, è un enigma seducente che si rinnova: la malia dell’investigatore gentiluomo, il borghese di tradizione antifascista Norberto Melis, vicequestore e protagonista dei romanzi gialli di Tuzzi, con una famiglia di personaggi seriali intorno. Soprattutto vale lo scenario: Milano, metropoli in trasformazione, alla fine degli anni ’80, dopo il terrorismo, un po’ patetica nel suo desiderio edonista ed internazionale, con i bar di periferia dove ancora si parlavano i dialetti, i palazzi liberty con le portinerie, le sale corse, l’ippodromo a San Siro come un nume tutelare corrotto, e poi la questura, le mense, i viali di perdizione. Tutta l’illusione di anni di metamorfosi che avrebbero poi conosciuto la disdetta solenne di Tangentopoli..).   

L’ultimo romanzo appena uscito della serie di Melis, Nella luce di un’alba più fredda, è la storia di una triplice indagine: c’è un uomo grigio e scialbo che muore assassinato e ci sono due anziane casalinghe, forse insospettabili o forse no, che fanno la sua stessa fine. Sono figure ordinarie, non ti spieghi cosa possa avere determinato la loro morte violenta. Poi c’è un caso ancora diverso, più efferato, spaventoso, che avvicinarlo significa esporsi come a una radiazione diretta del Male. Terreno di caccia per Melis, ovvio. Intorno, intanto, è Natale e la città si tinge di chiazze livide e biancori, ancora di nebbia. Nel 1990, l’anno di ambientazione di questa storia, a Milano ci furono, del resto, 103 omicidi. Il vicequestore, come sempre, non ha paura di avere paura. Resta umano, ma è inflessibile. Il suo talento, come quello di certi personaggi di David Lynch, è in quello che non dice tra una battuta e l’altra. Resta sempre uguale e fedele a se stesso. Non predica ma da l’esempio.  Fino alla soluzione che non è mai scioglimento. Anzi: è solo un attimo, spesso desolante, di conoscenza, di integrazione, di maggiore comprensione (con disdoro misurato a seguire) per la già rotta consapevolezza del vicequestore, sulle bassezze e sulla miserie dell’animo umano.

(Molto è stato già detto e scritto sui romanzi con Melis protagonista. Sono adoranti i quotes tratti dalle recensioni che spesso compaiono sulle quarte di copertina. Una cosa, però, manca ancora da dire: nessuno scrittore di lingua italiana, oggi, sa scrivere un finale come Hans Tuzzi. Per intenderci: in Il maestro della Testa sfondata, c’era una dichiarazione d’amore che passava da una parola sola, da un nome sussurrato. In La belva nel labirinto ci sono il principe Valdoskij e Hannah Arendt a contrapporsi. In Casta Diva c’è un torrente di parole, in un climax ascendente, che è una come una sonata di virtuosismo puro, Biedermeier).   

Prima di chiudere torniamo però alla cronaca, a quella di questi giorni, a una notizia che rende ragione del nostro titolo. A Bruna Miorelli Hans Tuzzi ha confessato di volere abbandonare la serie di Melis. 

Con il suo spirito di outsider altero, sempre coerente e non adattabile. Anche se, lo si è già capito, è tutt’altro che piatto l’encefalogramma di Nella luce di un’alba più fredda. La serie non è stanca. Il vicequestore gode di buona salute. Potrebbe starci comunque, si capisce. Violare le leggi dello show business e chiudere all’apice, dev’essere divertente per chi ha cavalcato la tigre. E però: dopo le molte vite di Giorgio Scerbanenco, dopo l’eclissi dei suoi numerosi nipoti per l’ascesa di storytelling esasperati, dell’intrattenimento per l’intrattenimento, mancherebbe del tutto, con la scomparsa di Norberto Melis, nel Krime del Nord e non solo, un giallo complesso e capace di dire il nostro tempo senza semplificare,  senza rinunciare all’anima di un genere nobile che solo l’inflazione ha rovinato.

Più che per l’autore il problema si pone per i lettori: sicuri che si possa fare a meno di queste storie oscure, di questi libri come compagni?  Ci hanno detto del nostro tempo molto di più di quanto siamo disposti a credere.