Conte: «scrivere è trovare il nesso tra natura, mito e linguaggio»

Giuseppe Conte scrive ancora poesia ventosa e severa. Sempre attinge a un patrimonio universale. Svela, non inventa. Crede alla luce, così come ci credeva Goethe, perché anche per lui c’è bisogno di illuminare ogni materia inerte. E pratica con i suoi versi, con i suoi libri, una resistenza spirituale che passa dalla forma, dall’anima. Ha appena vinto il Premio di Poesia «Celle Arte e Natura». E, per lui, sarà piantato un albero nel Parco della Collezione Gori a Pistoia, dove tra mille opere – tra gli altri di Alice Aycock, Daniel Buren, Dani Karavan, Fausto Melotti, Robert Morris, Dennis Oppenheim – si può respirare lo spirito, profano al tempo, di un luogo che è come un’eresia coraggiosa, una riserva in cui i diritti dell’arte cominciano dove, in armonia, finiscono quelli della natura. Uno spazio che ha pensato, ormai molti anni fa, Giuliano Gori, patriarca della famiglia che ha aperto al pubblico la Collezione. Lo spirito non è cambiato negli anni.  

Giuseppe Conte, Peppo Pontiggia diceva che fare concorrere gli artisti per un premio, uno contro l’altro, come in una gara sportiva, è di per sé un’idiozia. Ma ogni opera d’arte ha in sé, anche la più sperimentale, un desiderio di condivisione, di comunicazione che richiede e sembra esigere un riconoscimento. Quindi ogni premio letterario, da questo punto di vista, è legittimo. È l’occasione per un bilancio?

«Un premio, specialmente per un autore come me che è stato spesso frainteso, osteggiato, è una forma di incoraggiamento per guardare al futuro. Anche alla mia età quando il futuro fisico si raccorcia, il futuro spirituale è lì davanti spalancato e la poesia ha il dovere di profetizzarlo, svelarlo certo, ma in qualche modo anche di crearne (più che inventarne) le trame. Un poeta, mediamente, vede cinquant’anni prima quello che poi gli altri uomini vedranno. Così Baudelaire, così D.H. Lawrence, così Ungaretti che nel 1950 dichiarava il primato dello spirito, attraverso il quale la realtà, la politica, le relazioni umane avrebbero raggiunto un più alto livello. Sono passati settanta anni, e ora qualcuno comincia a capire che senza energia spirituale una società, una civiltà tracolla, appassisce. Il destino dell’Europa?».

Non se la poesia ha forma di resistenza. «And, out of nothing, a breathing» per dirla con Pound.

«Anche io amo lo scorrere, la vastità, la meraviglia della vita quanto detesto certe forme che il presente ha assunto. Io, più invecchio, più detesto, trovo vergognoso, orribile, che oggi prevalga una scala di valori in cui l’economia e il denaro stanno al posto più alto, rifiutando o rendendo ridicoli tutti gli altri. Coraggio, entusiasmo, creatività disinteressata, pietà, amore della natura, senso del sacro, per i fautori del primato dell’ economia non valgono più niente. E siccome tutto è misurato in base al grano, ecco il trionfo degli influencer, venditori elettronici, istigatori di  consumi inutili, imbonitori di mode cretine, ma che fanno cassa e moda, e tanto basta per dar loro il diritto di sdottorare su tutto. La poesia, esiliata, negletta, è l’unica forma di resistenza spirituale oggi, l’unica affermazione di un pensiero alternativo, l’unica forma o la più decisa di un umanesimo che molto oscure forze della tecnica vorrebbero silenziare. «Sulle rovine d’Europa, ego scriptor», ricorda?».

Ma oggi non è tempo di fabbri che costruiscono profezie. Al top delle classifiche del New York Times ci sono pure le Instapoets – un settimanale noto ha dedicato loro la copertina una settimana fa – che scrivono su Instagram di sentimenti come ansia, solitudine, dolore. Di amore per l’ambiente. Vengono contrattualizzate, spesso, in base al numero (immenso) dei loro followers. I lettori sono followers? 

«A me Amanda Gorman fa tenerezza. Quel suo cappottino giallo, quell’aria da bambina. Non conosco Instapoets, ma immagino poesie, minimaliste, spontanee, piene di buoni sentimenti, la giusta dose di dolore quotidiano, oddio, non bisogna essere instapoets, anche figure più tradizionali scrivono robe così. È il valore intellettuale, conoscitivo, filosofico della poesia, ora. Nell’età del più misero narcisismo di massa, contano solo le emozioni,  c’è un abuso di emozioni che fa male alla poesia, all’intelligenza e all’anima delle cose. Il fenomeno dei follower è una variabile impazzita della miseria dei tempi. Ormai determina anche certe fortune politiche, come se si parlasse di dolcetti o formaggini. Del resto, tra un formaggino o un dolcetto e certi politici la differenza si è molto assottigliata. Un follower virtuale non è niente, un seguace in carne ed ossa è tutt’altro, è uno che passa all’azione, uno di  quelli pieni di fervore e di ideali che fanno la storia, la sua grandezza e i suoi orrori. I lettori sono lettori, si possono fidelizzare e possono seguire un autore, pensate a Camilleri, ma non sono seguaci né follower. A proposito, io sono un seguace di Goethe, di Shelley, di D.H.Lawrence. Forse anche di Calvino, di Soldati e di Borges».

Lei inizia a manifestarsi come poeta negli anni ’70. Aveva un pantheon di autori di riferimento diverso da quello dei suoi coetanei. Da L’ultimo aprile bianco in giù si fece molti nemici. A un certo punto ha vissuto più in Francia che in Italia. Dove si è sentito più libero? 

«Ho cominciato nel 1987 i miei lunghi soggiorni in Bretagna, che hanno avuto un impatto fortissimo sul mio immaginario. Nei bistrot di Saint-Nazaire avevo più amici che in tutta la Liguria. Di nemici ne avevo talmente tanti che un altro, al posto mio, avrebbe pure potuto morirne. Nelle leggende bretoni ho trovato tante verità sulla natura, sul mare, sull’anima umana. Poi ho avuto per molto tempo  casa a Nizza, e andavo sei sette volte all’anno a Parigi, frequentavo Adonis, Yves Bonnefoy, Jesper Svenbro. A Parigi ho parlato al Beaubourg, al Teatro dell’Odeon, al Collège de France. Niente di simile a Roma. Le Monde ha dedicato a Il terzo ufficiale uno spazio e una attenzione che in Italia a lungo mi è stata negata. In Francia , il paese dove la letteratura resiste come forma di conoscenza, mi sono sentito più me stesso come scrittore, e dunque più libero.  E poi le grandi maree al Nord, le passeggiate sulla Promenade des Anglais in pieno inverno, controvento…».

Oggi una delle grandi problematiche che attraversiamo è legata al tramonto di un immaginario letterario condiviso tra generazioni. Il sussurro del cosmo che passa dal mito a Eliot, a Luzi, a Yeats, a Pound, ad altri grandi, pare interrotto. Non c’è una retorica, oggi, che riguarda la lettura e che invece è castrante? Leggere qualsiasi cosa. Leggere sempre. Le promozioni alla lettura… È uscito di recente un bel pamphlet di Luigi Mascheroni che fa a pugni con questa concezione. Leggere ci porta ad essere persone migliori…non è sempre vero! Bisognerebbe fare al contrario: bisognerebbe leggere meno ma bene e, soprattutto, mettersi a scrivere solo dopo avere valicato i mari, come diceva Bruce Marshall. Concorda?

«Leggere tutto equivale a leggere niente. Cultor di pochi libri io vivo, foscolianamente. Sono i miei libri sacri, da anni sul ripiano più alto di una delle mie librerie, la prima che ho avuto, in cristallo e acciaio. Ci sono Omero, Dante, Whitman, Goethe, Shelley, Foscolo, Ungaretti, e poi La Bibbia, il Corano, I Veda, il Tao Te Ching. Leggo anche thriller e romanzi di consumo, ma so cosa sto facendo, non confondo i piani. Leggere meno ma bene mi torna, e mettersi a scrivere solo dopo aver letto formandosi una propria tradizione. Io mi sono iniziato alla poesia leggendo al quadrato, cioè imparando a memoria e traducendo. Ma il sussurro del cosmo, perché dirlo tramontato? Esiste, resiste, soffia come una brezza dove meno ce lo immaginiamo, in attesa di diventare una tempesta che travolgerà questa realtà e ne produrrà una nuova. Dico sempre ai miei amici, che hanno una passione per la poesia e la letteratura animata da energia spirituale, da amore per la natura, da rispetto del sacro: siamo pochi. Siamo pochi, ma abbiamo ragione. La avremmo anche se nessuno ce la desse (per smentire un detto famoso)».

A proposito: lei come ha cominciato a scrivere? È stato un emulo? Nel senso: ha provato a riannodare i racconti di cui si era nutrito da bambino? Oggi cosa legge? C’è un poeta contemporaneo che potrebbe essere un suo emulo, che potrebbe riannodarsi a lei?

«Ho cominciato a scrivere a 14 anni, imitando e traducendo. Ho impiegato tempo a crearmi una tradizione. Quando poi ho trovato il nesso tra natura, mito e linguaggio, allora ho cominciato a scrivere davvero, avevo passato i trent’anni. Allora ho recuperato tutti i sogni e i terrori di quand’ero bambino. Il mio amore per il cielo stellato, ma anche il mio terrore del cielo. Emuli, non so. Forse, L’ultimo aprile bianco e L’Oceano e il Ragazzo hanno cambiato qualcosa nella  poesia italiana degli ultimi decenni, ma io ormai mi sento nel XXI secolo, spero di avere lettori futuri, sono molti i giovani e giovanissimi che mi mandano i loro testi, e questo mi fa ben sperare. Giorni fa, ho ricevuto una lettura in chiave ecologica di una mia poesia Chiedi a un mandorlo fatta da una scolaresca di adolescenti, la cosa mi ha molto rallegrato».

Qualche anno fa pubblicò un bel romanzo che si intitolava Sesso e apocalisse a Istanbul. Di recente ha scritto in rete, per L’intellettuale dissidente, un suo testo sull’eros (a partire dal caso Grillo) che si conclude con l’auspicio che i ragazzi coinvolti imparino a fare l’amore. Riparto dall’idea che lei esplicita di un tempo vissuto all’insegna del porno social. È solo un problema di impatto delle tecnologie sulle coscienze? Oppure il problema è che non vediamo più l’invisibile nel visibile, non sappiamo più cos’è l’eros perché la performance è solo ciò che resta negata l’anima, negato il gioco della seduzione?

«In tante mie poesie, e in diversi miei romanzi, tra cui quello che lei cita, il tema del sesso e dell’eros è centrale. Nella mia vita, e nella mia opera, Amore è il Dio che muove il sole e le altre stelle, è il soffio vitale delle origini, è un mistero sacro. È nella natura, se noi abbiamo occhi per vederlo. È in noi, se abbiamo abbastanza anima da sentirlo. Trovo che oggi nessuno scriva più d’amore, se non parlandone come di un sentimento o addirittura  di una emozione, cioè poco o niente. Ho scavato  molto nell’abisso dell’amore. Per questo ho preso la parola sul caso Ciro Grillo, per sottrarlo al linguaggio della legge e della cronaca per capire come il ragazzo Grillo e i suoi amici genovesi abbiano vissuto una nottata di violenza, sopraffazione, stupidità, volgarità, senza sfiorare neppure per un attimo la verità del sesso e la bellezza dell’eros corrisposto. Niente, una diseducazione paurosa, una influenza del porno senza neppure un po’ di lussuria, una prepotenza del danaro, una superficialità da zombi».

Sesso senza trasgressione.

«Il sesso è troppo complicato perché si possa pensare di educare qualcuno soltanto  in termini clinici o igienici. Una vera educazione sessuale è una educazione alla vita, al piacere, alla sofferenza, all’incanto, al disincanto, alla gioia, alla perdita. La poesia educa all’eros, fisico e spirituale. Stendendo un pietoso velo sul padre, mi chiedevo come avrebbe fatto bene al  giovane Ciro, avendo una madre iraniana, leggere qualche poesia Sufi, di Hafis, di Rumi. Non saper più vedere l’invisibile dentro il visibile non è solo un problema dei ragazzi, è il problema della nostra civiltà. Nicola Lagioia, nel suo romanzo La città dei vivi, un romanzo insolitamente potente per la media narrativa italiana, e che ho apprezzato, a un certo punto sostiene che avere istanze metafisiche è da dementi. Lì non lo seguo. Un essere umano, un libro, un paese, una civiltà senza un orizzonte metafisico deperisce e muore».     

Ma insomma oggi è ancora possibile essere libertini

«Il mio amico Giorgio Ficara ha appena pubblicato un raffinatissimo libro, Vite libertine, di dialoghi e storie sul Settecento e la sua ricerca della felicità. I libertini appartengono a quel secolo, dove, chi poteva permetterselo, cercava la felicità nei piaceri. Poi arrivò la Rivoluzione. Il Marchese De Sade vi aderì a suo modo, ma non ne fu ricambiato. Oggi non esistono neppure più i play-boy, che in fondo non facevano male a nessuno. No, anche un uomo libero e di tendenze libertarie non potrebbe oggi definirsi libertino senza cadere nel ridicolo».

A chi va la dedica per questo Premio Celle appena vinto? 

«A chi ama poesia, natura, mito. Quello che rende ancora bello e sacro il mondo».