Cronache dall’inviato speciale Billy Wilder

Galizia, Vienna – Berlino – Parigi, infine fu in America. Sembra quasi un destino da Joseph Roth la rotta che tiene insieme le tappe della vita di Billy Wilder: la nascita a Sucha, nella regione che fu dell’Impero austro-ungarico, ora Polonia, e centro fiorente della cultura ebraica europea – come un personaggio da romanzo yiddish – , il trasferimento e gli anni della giovinezza in Mitteleuropa, per poi cercare la fuga dalla dittatura nazista in Francia e trovare la stabilità in America.

E come nella trama di Yoshe Kalb di I.J. Singer, il suo nome corrisponderà a delle variazioni per ogni passaggio del viaggio: il galiziano Samuel a Vienna diventerà Billie e a Hollywood, come per il resto del mondo, definitivamente, Billy.

Ma fin quando Wilder resta nella capitale austriaca, perdendosi dietro “le ragazze, la cattedrale di Santo Stefano, le taverne di Cobenzl e i caffé“, e a Berlino, ballando il black bottom, il cinema è ancora un territorio inesplorato, un domani non ancora all’orizzonte, lasciando scandagliare gli abissi della sua prima passione: il giornalismo.

Una terra di mezzo, come l’Austria e la Germania, come gli anni venti, con un piede ancora nelle trincee della prima guerra mondiale, e l’altro che sta per varcare la soglia del totalitarismo, ecco cos’è il periodo da redattore per Billy Wilder: una gestazione imprescindibile per la scrittura che lo farà approdare con agilità alla sceneggiatura e alla regia.

Una scuola di esercizio allo sguardo, di allenamento alla sintesi, cattura del dettaglio. E anche se nel suo film successivo, Prima pagina (1974), sarà stesso Jack Lemmon a sentenziare che i giornalisti non sono altro che “un branco di analfabeti con la forfora sul collo e le pezze al sedere, che spiano dai buchi delle serrature e svegliano la gente nel cuore della notte per domandargli se hanno visto passare un bruto in mutande“, senza l’apprendistato di lettura del mondo per il giovane Billie, non avremmo avuto le commedie di Wilder.

Per questo il volume che raccoglie i suoi articoli, Inviato speciale. Cronache da Berlino e Vienna tra le due guerre (La Nave di Teseo, traduzione di Alberto Pezzotta, 2022, pp. 272), non è solo l’opportunità di scoprire una scheggia di biografia sconosciuta: tra le recensioni di film e i ritratti, le interviste e i racconti, leggiamo il cinema di Billy Wilder prima che inizi ad esistere.

E se la prima parte dedicata ai reportage, paradossi e storie di vita vissuta, non ha niente da invidiare per modernità e ironia alle brevi storie di Georgi Gospodinov in Tutti i nostri corpi, la scrittura di Wilder inizia a costruire quella che sarà la sua macchina da presa per riprendere il mondo.

È la Berlino della fine degli anni venti la protagonista assoluta del suo obiettivo: dai cieli, durante uno dei primi voli notturni sulla città, ai marciapiedi pieni di gente d’estate, dalle librerie – in cui incredibile a credersi ma “i romanzi polizieschi segnano una leggera stanca. Il successo delle mode di massa non è più automatico” – ai caffè delle stazioni e i chioschi per sapere cosa bevano i suoi abitanti, l’anima della capitale tedesca è restituita da tutte le soggettive degli articoli. Una panoramica totale, dai seicento metri d’altezza ai fondi delle tazze da the.

Dai piano sequenza in esterna alla costruzione dei personaggi e i dialoghi: la seconda sezione, costituita da ritratti di persone normali e straordinarie, può sembrare uno studio dei profili psicologici di quelli che poi diventeranno i ruoli principali dei suoi capolavori.

Come non pensare allo snobismo decadente di Norma Desmond in Viale del tramonto, mentre la diva Asta Nielsen rivela a Wilder di aver già lasciato il cinema “perché non c’erano progetti di mio interesse. Riprenderò quando tornerà a essere un’arte“?

All’orchestra di Susy e le sue dame del ritmo in A qualcuno piace caldo, mentre le Tiller Girls scendono dal treno a Vienna – “Questa mattina dall’espresso proveniente da Berlino sono scese le trentaquattro gambe più attraenti del mondo” – o al dirigente della Coca – Cola C.R. McNamara in Uno, due, tre!, mentre Wilder cerca di intervistare l’irrefrenabile Mr. Vanderbilt con venti fattorini che scattano sull’attenti?

Infine, la struttura: nell’ultimo capitolo dedicato all’arte della recensione breve, Wilder sa individuare, dagli errori degli altri, i teoremi geometrici per la costruzione della sceneggiatura. E se Dino Risi insegnava che il soggetto di un film doveva entrare al massimo in una cartolina postale, il regista riduce, con ironia, la trama a ricetta:

Film francese

1 Montmartre. 1 mansarda lercia. 3 vetri rotti. 1 pittore americano squattrinato. 1 monte di pietà. 1 tempesta di neve.

14 metri di Champs Élysées. 1 graziosa modella francese. 1 bettola. 3 apaches. 1 apache innamorato. 1 ballo. 1 sguardo. 1 fogna. 1 grata difettosa. 1 eredità. 1 mostra di pittura. 1 premio.

1 uomo arrivato. 1 Notre Dame. 1 cartello “Tre anni dopo”.

1 Bois de Boulogne. 3 bambini che giocano. 2 teneri genitori.

Titoli: Le catacombe di Parigi; Le bettole di Montmartre; La lampada e la falena; La legge dell’amore.

C’è tutto il non visto, il non ancora avvenuto del cinema di Wilder in Inviato speciale. Cronache da Berlino e Vienna tra le due guerre: quella leggerezza che solo la gioventù e il tempo di pace potevano restituire alle pagine, proprio come tenterà di fare Christopher Isherwood ne La violetta del Prater; l’immagine di un periodo sospeso e pieno di speranza, a ritmo jazz dell’orchestra di Paul Whiteman e sdraiato al sole, come i corpi dei protagonisti di Menschen am Sonntag, prima sceneggiatura del regista.

La gioia di fare il bagno nel fiume di domenica e abbronzarsi. L’inconsapevolezza di cosa sarebbe successo anni dopo, proprio a Wannsee.