“Stalingrado”, il bestseller ritrovato

Con l’uscita di Stalingrado (Adelphi), prima parte del dittico sulla “grande guerra patriottica (come i russi chiamano la seconda guerra mondiale) del giornalista e scrittore sovietico Vasilij Grossman, si ha un’immagine e una sostanza letteraria ancora più ricche. Vita e destino (Pubblicato da Adelphi, nel 2008 – mentre circola in russo sin dal 1980 – e ripubblicato sempre di recente dalla stessa casa editrice) si poneva già come un fluviale romanzo illuminato dall’intreccio di rara intensità fra realismo e poesia.

In italiano risultano disponibili otto volumi delle opere dell’artista ucraino; compreso l’illuminante testo, scritto a quattro mani con il poeta Erenburg, Il libro nero, che indaga sui crimini di guerra compiuti dagli invasori nazisti fra il 1941 e il 1944.

In russo risulta un totale di trenta volumi, dopo lo sdoganamento post 1991 seguito alle vicissitudini subite in epoca sovietica.

In realtà, si deve parlare di trittico, considerando l’esistenza di un terzo romanzo dal titolo Il popolo immortale, redatto nel 1943 e in traduzione in lingua italiana. Sarà interessante confrontare le sue pagine con quelle dei due citati, la cui lavorazione prende un ventennio, dal dopoguerra alla morte dell’autore nel settembre 1964.

Era difficile soltanto immaginare l’esistenza di un’altra opera – per di più di quasi mille pagine – paragonabile a Vita e destino, finora considerata il capolavoro di Grossman.

È significativo citare un passaggio di una lettera indirizzata all’allora segretario generale del PCUS Nikita Krushev: “Ritengo (…) di aver scritto la verità, di averla scritta amando e compiangendo gli uomini, credendo negli uomini. Io chiedo la libertà per il mio libro“.

Un romanzo “pericoloso”

Il romanzo viene considerato dal Cremlino addirittura più pericoloso per l’Unione Sovietica delle opere di Solzenicyn e del Dottor Zivago di Pasternak. Sarà la casa editrice L’Age d’Homme di Ginevra a editare nell’80 l’opera in francese; seguita dall’italiana Jaca Book. Solo con Gorbaciov viene pubblicata a puntate su una rivista nel 1988.

Quanto all’epopea della battaglia del 1942-1943 che decide l’intero conflitto, il titolo imposto dalle autorità staliniste, Per una giusta causa, non piacque all’autore. Ecco dunque che il testo di Adelphi giustamente adotta l’intitolazione Stalingrado.

Tra ufficiali e civili sovietici, militari tedeschi, impiegati e scienziati, giornalisti e qualche commissario politico si contano ben 142 personaggi divisi in 19 gruppi – comodamente elencati al termine del libro.

Il lettore s’immerge nella pagina trovandosi di fronte a due elementi: le distese quasi infinite di steppa, campagna, foreste che si alternano alle rovine di Stalingrado; la folla di personaggi che si danno il cambio come fra le quinte di un palcoscenico.

Le vicende collettive, le storie individuali, gli intrecci politici, sentimentali, bellici si collegano fra loro grazie alla regia dettata dalla Storia. Le vite non possono che essere regolate dalle vicende dei rapporti fra classi sociali, nazioni, schieramenti internazionali.

In questo senso Grossman parla di destino; intendendolo nell’accezione laica. Ma un laicismo non di rigida osservanza marxista, per di più temperato da un sapore di cristianità di rito ortodosso. Una certa religiosità aleggia sulle folle delle città e dei campi di battaglia narrati da questo immenso romanzo.

La prima guerra tecnologica e le vittime civili

Si è parlato, a proposito di Stalingrado  (In Italia trai libri più venduti in queste settimane sulla spinta del conflitto in Ucraina) come del Tolstoj del XX secolo. Riferendosi alla grandiosità del progetto letterario; del suo realizzarsi fra decine e decine di figure umane, vicende, paesaggi potenti, scende difficilmente dimenticabili.

In realtà il paragone risuona come una forzatura; una coltre nerastra si distende sull’intero panorama di una guerra che partorisce tra 60 e 68 milioni di cadaveri; fra questi 25 milioni sono sovietici.

La battaglia di Stalingrado dura dal luglio ’42 a gennaio ’43, con un milione e mezzo di morti.

In parallelo si svolge l’assedio di Leningrado, dal settembre 1941 al gennaio 1944, che causò tra 1.600.000 e 2.000.000 di morti fra i sovietici e oltre 200.000 fra tedeschi e alleati.

Cuikov al quartier generale della 62esima armata

È dunque un’epica della guerra di materiali e tecnologia descritta per la prima volta da Ernst Jünger nella Grande Guerra. I toni di Grossman sono inevitabilmente immersi in un alternarsi di mestizia e orrore.

Si passa da un episodio all’altro senza una pausa di respiro, elegia, riflessione pacata. Non c’è tempo: i cannoni rimbombano sempre, gli attacchi e le ritirate si danno tragicamente il cambio. La potenza delle descrizioni si adegua con la facilità del genio letterario ai numeri, alle dimensioni, agli spazi immensi. È l’epopea della civiltà occidentale messa in crisi dalla guerra tecnologica, in cui sono di gran lunga i civili a esser più colpiti, i Paesi a subire i bombardamenti, le città a essere sventrate.

Il (lungo) “Secolo breve”

Dal 22 giugno 1941 all’8 maggio 1945, Vasiliji Grossman subisce tre grandi ferite: la prima come russo che vive l’invasione da parte dei fascisti europei della Santa Madre Russia (Svyatoy Matuska Rossija, come ogni russo per tradizione chiama la patria); la seconda come ebreo che assiste alla Shoah (si pensi a quel truce gioiello che è il reportage Treblinka); infine, come sovietico vittima del totalitarismo staliniano deve sopportare censura e divieti di pubblicazione. La morte civile per uno scrittore.

Fino all’ultimo giorno di vita Grossman cura, aggiusta, rimedita, conserva gelosamente i propri manoscritti. Memorie fra le più perfettamente imperfette, dunque umanissime, del tragico secolo breve. In realtà fin troppo lungo per chi ha dovuto viverlo sui vari fronti.