Un uomo e un bambino nell’inferno di Auschwitz

Nelle pagine di Se questo è un uomo, Levi racconta, tra le altre cose, gli ultimi giorni vissuti dai prigionieri rimasti ad Auschwitz prima dell’arrivo delle truppe russe, ore caratterizzate da terribili altalene di speranza e angoscia, quando gli aguzzini sembravano spariti e i prigionieri potevano muoversi in cerca di cibo e medicine, e altri di vero terrore con le improvvise ricomparse delle SS più incattivite che mai.

Al termine di quell’orribile calvario, un manipolo di sopravvissuti poté assaporare la fine dell’incubo. Tra queste persone, pochissimi erano stati i bambini, che avevano vita molto breve nell’arcipelago dei vai campi articolati attorno a Auschwitz. Stando ai dati reperiti dallo storico Bruno Maida, tra i prigionieri di nazionalità italiana sotto i 14 anni, erano rimasti in vita soltanto 25 ragazzi.

Uno di loro compare sorridente, con occhi nerissimi, viso luminoso e capelli ben pettinati in una foto di qualche mese dopo, nell’aprile 1945. È seduto in braccio a un uomo con occhiali rotondi che lo guarda con affetto, come se fosse suo padre, e il bambino – all’epoca dodicenne – mostra una grande serenità per quella vicinanza.

Si tratta di una immagine realizzata a Cracovia, dove il ragazzino si era recato per testimoniare davanti a una commissione di inchiesta polacca sui fatti accaduti a Auschwitz, il più giovane tra tutti gli ex prigionieri che ebbero il coraggio di parlare con i giudici. I giornali dell’epoca si buttarono sul personaggio che divenne molto celebre, ma si trattò soltanto di una breve fiammata, perché subito il bambino scomparve, si nascose nell’anonimato insieme all’uomo che lo teneva in braccio nella fotografia. Venne cercato a lungo, ma il suo nome – Luigi Ferri – non era lo stesso che assunse al rientro dalla guerra e che porta ancora oggi.

Il bambino ricomparve brevemente in occasione dell’inaugurazione del monumento commemorativo dedicato alle vittime di Auschwitz, nel 1967, ormai trentaquattrenne, sempre con i capelli neri e solo un po’ di pancia in più. Con lui, ancora una volta, l’uomo con gli occhiali che lo aveva tenuto in braccio nella foto scattata durante le deposizioni a Cracovia. Di nuovo, i media si interessarono alla coppia, li ritrassero nella baracca dove avevano vissuto insieme all’epoca della prigionia, produssero numerosi articoli di giornale, ma di nuovo i due scomparvero nell’anonimato della vita tranquilla che avevano scelto.

Gli storici, gli studiosi, gli appassionati, i responsabili degli archivi (nelle pubblicazioni ufficiali del Museo di Auschwitz Luigi Ferri è l’italiano più citato dopo Primo Levi) si sono messi sulle tracce di questo bambino per avere dalla sua stessa voce il racconto della vicenda che lo aveva condotto al lager, lui di religione cattolica e “ariano”, e di come avesse potuto sopravvivere nel campo di sterminio di Birkenau.

Luigi Ferri, però, non ha mai voluto raccontare a nessuno quel dramma, come se il bambino che era stato e aveva vissuto quell’orrore, fosse rimasto per sempre chiuso dentro quella bolla di tempo trascorso e irripetibile, mentre il ragazzo, l’uomo e il vecchio che oggi è diventato fossero nati nell’aprile 1945 e avessero cominciato la loro vita soltanto in quel momento. Una storia, due persone diverse e il silenzio come unica strada per non soccombere alle ferite morali e psicologiche subite durante la prigionia. Dimenticare per poter vivere davvero, crearsi una famiglia e essere felici, nonostante tutto.

Luigi Ferri c’è riuscito e oggi, a ormai novant’anni, può guardare con serenità ai suoi anni trascorsi dopo l’orrore del lager, alla sua famiglia, a quanto ha costruito, alla vita che ha avuto. Eppure quel bambino è ancora dentro di lui. Ci è voluto Frediano Sessi – saggista e scrittore, nonché uno dei più autorevoli studiosi italiani della Shoah – per trovare il modo di incontrarlo e individuare un terreno comune che permettesse di srotolare, un’unica volta, tutta la sua storia, dall’arresto, all’arrivo al campo di sterminio, ai mesi trascorsi in quell’orrore, fino alla liberazione.

La racconta nel libro Il bambino scomparso. Una storia di Auschwitz (Marsilio, 160 pp., 16 euro). Come un ragazzino “ariano” e cattolico ha potuto finire in quel luogo? Come ha potuto salvarsi quando tutti i bambini venivano subito indirizzati alle camere a gas? Cosa ricorda del funzionamento del campo di concentramento? E, soprattutto, chi era l’uomo ritratto con lui nella foto dopo la liberazione?

Questa figura è forse la più toccante di tutto il libro, un uomo la cui storia resta ancora poco conosciuta perché purtroppo non approfondita dagli storici. Si trattava di Otto Wolken, medico ebreo di Vienna, arrestato dalla Gestapo per attività di opposizione al regime nazista sin dal 1938 e sopravvissuto prima al carcere, poi ai diversi Lager, per sette anni, rischiando più volte di essere assassinato e, l’ultima volta, poche ore prima della liberazione.

Una figura, quella di Otto Wolken, davvero eroica che seppe erigere con la sua lotta a favore dei compagni di prigionia, il proprio altruismo, la costante difesa della dignità della persona, un muro contro la disumanizzazione perpetrata attivamente dal sistema concentrazionario nazista. A lui si deve una delle testimonianze più significative e documentate dei crimini avvenuti ad Auschwitz e a lui si deve la vita dopo il lager di Luigi Ferri, sopravvissuto proprio grazie all’intervento indispensabile di Otto Wolken.

È un magma ancora molto caldo quello che Sessi ha riversato nelle pagine del libro che racconta questa vicenda. Il volume ha il pregio non soltanto di presentarci una storia di Auschwitz – naturalmente drammatica, ma, una volta tanto a lieto fine –, quanto quello di riportare e alla luce una testimonianza davvero incontaminata.

I testimoni dell’olocausto hanno avuto all’inizio grosse difficoltà a parlarne, per la prova terribile che costituiva per ciascuno di loro dover rievocare i fatti orribili attraverso cui erano passati, ma anche per una certa ritrosia o disinteresse o addirittura incredulità da parte di chi scopriva per la prima volta queste vicende.

Col tempo, i testimoni si sono però moltiplicati, molti hanno trovato il coraggio o il desiderio di raccontare la propria storia. Questo naturalmente ha fatto sì che, nelle ripetizioni, nei vai incontri, nelle scritture eventuali ci fosse una inevitabile elaborazione dei fatti e dei ricordi stessi. Nel caso di Luigi Ferri, invece, tutto è rimasto intatto nella sua memoria, come dentro uno scrigno chiuso per oltre settant’anni e che, al momento della riapertura, ha potuto svelare un mondo integro nelle immagini e nei fatti.

Leggere la sua testimonianza è quasi come entrare in una antica tomba, conservata intatta quale era al momento della sua chiusura e ora ritrovata integra, col suo carico di dolore, ma soprattutto di verità. Una testimonianza unica e preziosa che ritrova vita nelle pagine di questo libro, scritto in prima persona con una acuta scelta narrativa, come se fosse il racconto diretto di Luigi, ma sostenuto da ampie ricerche d’archivio che gettano importante luce sulla sua figura, sul mondo concentrazionario nazista e sul personaggio di Otto Wolken.

La voce vera del bambino degli anni Quaranta torna attraverso citazioni virgolettate e si unisce a una ricca documentazione, tra cui spiccano i diari segreti dello stesso Wolken, nascosti durante la permanenza nel lager e sui cui il medico annotò fatti e crudeltà alle quali assistette nei lunghi anni della sua prigionia.

Il racconto di un mondo spietato che abbiamo imparato a conoscere, ma soprattutto il regalo di vedere un amore tra un uomo e un bambino diventati padre e figlio a Brirkenau – Luigi aveva perduto il papà diversi anni prima, mentre Otto non aveva famiglia –, un amore nato nell’asprezza del campo di concentramento eppure cresciuto con un’intensità che ha salvato entrambi.