L’ossessione che Boris Godunov condivide con Macbeth

La tua corona mi abbrucia le pupille; e la tua chioma, tu, seconda apparizione dalla fronte cerchiata d’oro… Perché mi mostrate tutto ciò? Schizzatemi fuori dall’orbite, occhi.. Oribile vista! Ora lo vedo ch’è proprio vero, poiché Banquo, da i capelli aggrumati di sangue, mi sorride...”. (Macbeth)

Che oppressione!… Debbo un po’ riprendermi… Ho sentito che tutto il sangue mi è salito al viso con violenza… ed è ripiombato giù pesantemente. Ecco perché per tredici anni senza tregua ho visto in sogno un bambino assassinato!… Ma chi è dunque il mio minaccioso avversario? Chi è contro di me? Un vuoto nome, un’ombra”. (Boris Godunov)

I fantasmi si aggirano per l’Europa. Non sono quelli di Marx. È Macbeth ossessionato dagli spettri di quelli che ha ucciso per il potere. Ed è – un paio di secoli dopo – Godunov, che non riesce a cancellare dalla vista la figura del bimbo ucciso per usurparne la corona di zar.

Da questi due precedenti, oltre che dalla dozzina di tomi della Storia dello stato russo scritta da Nikolaj Michajlovic Karamzin a inizio Ottocento, che ha preso vita il Boris Godunov di Modest Musorgskij che ha inaugurato il 7 dicembre la nuova stagione della Scala, con l’apprezzatissima direzione di Riccardo Chailly e la regia del danese Kasper Holten.

Un tocco shakespeariano

Alessandro Baricco, spettatore della Prima, a caldo ammetteva che la cultura russa non è particolarmente nelle sue corde ma che, comunque, lo incuriosisce: vederla rappresentata per lui è più interessante che assistere alla messa in scena di qualcosa che conosce molto bene come Shakespeare.

Eppure è vero che fra i due autori il legame corre fortissimo. Lo stringono la smania del potere e il senso di colpa, l’ossessione del sangue sulle mani della Lady che non riesce a lavarsele e su quelle quelle del russo che toglie la vita a un innocente.

Con alcune tangenze anche cronologiche. Come è stato ricordato, l’autore inglese visse (1564-1616) negli stessi anni in cui si consumavano ascesa e caduta dello zar Boris che – realmente esistito, durante il cosiddetto “Periodo dei torbidi” – prese il posto di Dimitrij, figlio di Ivan il Terribile, e lo eliminò (anche se non tuti gli storici concordano sull’ultima parte).

Puskin riprese la vicenda nel suo dramma del 1825, la pubblicò nel 1831 e sei anni dopo – per rimanere in suggestioni cruente – morì in duello. L’opera originaria di Musorgskij – il cosiddetto Ur-Boris, rappresentato alla Scala – risale invece al 1869, salvo che fu subito censurata e l’autore ne ripresentò una versione meno “trasgressiva” nei toni cupi, nell’assenza di intrecci sentimentali e personaggi femminili forti. Anche questa tuttavia ebbe scarse fortune, e altri in seguito intervennero.

Eppure, è proprio nella sua cupezza, in quei fantasmi che tormentano i due tiranni (anche se Ildar Abdrazakov, il basso che interpreta Boris, il suo personaggio non lo condanna in toto, ne comprende debolezze e sentimenti paterni) che sta il fascino del racconto.

Non a caso, a dare un’ultima stilettata, dopo scene di bambini cadaveri con abiti tinti di sangue, dopo i figli dello zar trucidati fra gli ori, in scena alla Scala arriva anche un pugnale. Che né Puskin né Musorgskij avevano in realtà previsto, e che dà un ulteriore tocco shakespeariano alla vicenda.

La voce del popolo

Vicenda di cui il protagonista è sì il nome del titolo, ma lo è anche e forse di più il popolo russo. Nell’opera lo canta il coro (diretto da Alberto Malazzi).

Nel dramma, Puskin ne agita le voci, in un incalzare di parole e battute che passano dall’uno all’altro. In entrambi i casi, questo popolo che ondeggia, cambia opinione a seconda di chi gli si rivolge, porta al trono lo zar e poi corre a incoronare un altro… questo popolo provoca una suggestione inquietante che attraversa i secoli (anche Macbeth, d’altra parte, prima fu incoronato e poi la foresta si mosse ad abbatterlo) e ci porta a oggi, al pensiero di come l’opinione pubblica può essere pilotata, da parole e da post.

Chi c’era alla “prima”

La sera della Prima, come sempre, il teatro si è riempito di famosi di ogni categoria. Attori, registi, scrittori, ballerini… E politici. Inseguiti da telecamere assassine (per le tempie dei colleghi ricacciati indietro da muscolosi cameramen e “socialmen”), impegnati a giostrarsi fra uno strascico da sirena e una pensosa riflessione: tutti a esprimersi sull’importanza di dare la scena alla musica russa.

Perché la cultura e l’arte non combattono le guerre ma anzi, come dice la regista Andrée Ruth Shammah, è a loro che ci si può affidare per una ritrovata coesione. E se dalla Scala Bruno Vespa viaggiando in tutta Italia sulle onde di Rai 1 definiva il Boris Godunov “opera severa”, Ignazio La Russa alzava il volume sulla colonna sonora di un foyer sovraffollato per edurre il pubblico: “Noi siamo contro tutti i tiranni.

Poi, l’orologio del teatro richiama in sala. Chi nel Palco Reale, talmente sovraffollato di autorità da far ghignare un Roberto D’Agostino ancor più cruento di Boris: “Qui va a finire come a Casamicciola...”.

Chi in platea a sbirciare sui visori che traducono il testo rigorosamente cantato in russo. Chi in sala stampa a scrivere di “atroci sciocchezze” e di vere atrocità.