Si può amare Massimo Troisi senza capire chi è stato davvero?

Compleanni, anniversari e funerali. Da qualche anno la cultura sembra stia seguendo le calendarizzazioni degli appuntamenti da alberghi di cerimonie: alla stagione delle nuove proposte, sempre più breve anche se sostenuta da un grande carosello pubblicitario, si affianca la richiesta e l’esigenza di recuperare e riproporre il passato, una sicurezza che nell’economia dei consumi – per case editrici, di distribuzione e produttrici –  non è affatto da criticare.

Nel passaggio da quando ciò che si considerava “vecchio” ha iniziato ad essere apprezzato come “vintage”, per le nuove generazioni il passato è una moda, trasgressione e curiosità, mentre per i contemporanei è sindrome dell’âge d’or: niente sarà bello come allora.

Il passato contro le incertezze

Forse, più semplicemente, il passato è già noto: in un momento – che in realtà si ripete ad oltranza – di crisi energetica, economica, il consumatore, già riluttante all’idea di dover pagare per libri, dischi e biglietti del cinema, alla possibilità di investire su una certezza, senza rischiare delusioni, preferisce una scelta sicura. Il passato non è una terra straniera, più una carta fedele.

Così l’arte ha scoperto il vantaggio di ricordare: Titanic (1997) di James Cameron, per i suoi venticinque anni in sala, al primo posto con gli incassi maggiori, ne è un esempio.

La passione per il vintage da Titanic ai Beatles

Come ogni nuova pubblicazione in versione deluxe di un disco dei Beatles – tra gli ultimi Revolver: Special Edition (2022) – la pietra miliare batterà sempre l’inedito. E se le ristampe si esauriscono, il ricordo può prendere forme diverse con le celebrazioni di centenari dalla nascita o più comunemente, compleanni.

È il mercato che impone di riappropriarsi del passato, in questo continuo esercizio di memoria che segue regole ben precise: condivisioni di foto sui social, nuove edizioni con nuove prefazioni o racconti inediti, documentari.

Ma come avviene e si realizza questa scoperta di ciò che si è esaurito per sempre? Ricordiamo quello che già sappiamo o celebriamo, credendo di saperlo?

Siamo turisti della memoria?

Serve rileggere il monito di Yasmina Reza, nel suo ultimo romanzo, Serge: durante una visita al campo di concentramento di Auschwitz, la voce narrante riflette: “Ricordati. Ma perché? (…) Un sapere che non è intimamente in relazione con sé è vano. Non ci si deve aspettare niente dalla memoria. Questo feticismo della memoria è un simulacro”.

Esattamente come i visitatori di Reza, da spettatore o lettore, il pubblico si pone in una condizione da turista del ricordo, senza abitare la conoscenza profonda del passato.

Le celebrazioni per Massimo Troisi

Ed è da viaggiatore di passaggio che questa Italia si prepara a celebrare il settantesimo compleanno di Massimo Troisi. A fronte dei tanti documentari e film di prossima uscita o già distribuiti – Il mio amico Massimo (2022) di Alessandro Bencivenga.

 

E ancora: I magnifici 4 della risata (2023 disponibile su Raiplay) di Mario Canale, Laggiù qualcuno mi ama (2023, presentato al 73º Festival Internazionale del Cinema di Berlino nella sezione Berlinale Special e sarà in sala dal 23 febbraio) di Mario Martone, Da domani mi alzo tardi (2020, in distribuzione dal 2023) di Stefano Veneruso – i fan più accaniti, suoi contemporanei, così come le generazioni più giovani, ma anche i fedeli e i saltuari, aspettano di poter celebrare il regista napoletano, scomparso nel 1994.

Un autentico e rinnovato dolore che per l’occasione permetterà di rivedere i più famosi film e sketch de La Smorfia su YouTube, condividere su Instagram foto in bianco e nero che negli anni sono diventati serigrafie, imitazioni e immagini votive.

Si ama Massimo Troisi, si venera, difficile sarebbe sostenere il contrario. Eppure riesce difficile far combaciare lo stesso pubblico adorante con la realtà incontrovertibile del contemporaneo: un’Italia plebiscitaria che segue Sanremo, la stessa manifestazione che Troisi aveva disertato nel 1981 per censura sui suoi testi:Mi hanno detto di fare tutto, tranne parlare di religione, di politica, di terrorismo, terremoto, perché sai adesso il paese sta in una situazione un po’ così, così adesso sono indeciso fra una poesia di Giovanni Pascoli e Carducci“.

Lo stesso Paese che affolla i palinsesti televisivi con fiction girate a Napoli, obbligatoriamente con Vesuvio sullo sfondo, circondato da tutti i luoghi comuni che Troisi combatteva. “A Napoli c’è il sole, pensano lo sappiano tutti quanti, mica un sole normale, piccirille, no, ce sta ‘nu sole accussì. A Napoli non piove mai e mica è bello. Ho un impermeabile a casa, nuovo, mai messo, sta ancora nel cellophane“.

Il “campione del Nord Africa”

Questa Italia buona che vota e investe la destra al governo, in una politica di riflesso che va dai respingimenti dei migranti ai cori razzisti degli stadi, che si fa difficoltà a comprendere come possa contemporaneamente anche amare e ricordare Troisi, l’attore che in occasione della prima vittoria dello scudetto del Napoli rispose agli striscioni “Siete i campioni del Nord Africa” con “Io preferisco essere un campione del Nord Africa piuttosto che mettermi a fare gli striscioni da Sud Africa“, riferendosi all’apartheid.

Autore della più bella battuta antifascista su Mussolini, contenuta nel film Le vie del Signore sono finite (1987): “Per far arrivare i treni in orario, mica c’era bisogno di farlo capo del governo, bastava farlo capo stazione“.

Cosa ricorda l’Italia presenzialista e ossessionata dai social dell’attore che faceva di discrezione e rifiuto alla sovresposizione un segno di riconoscimento? In fin dei conti sarebbe stato proprio Troisi a non apprezzare questo impegno celebrativo, come è chiaro dall’episodio raccontato da Federico Chiacchiari e Demetrio Salvi, autori del libro Massimo Troisi – Il comico dei sentimenti: “Lui che quando gli consegnammo il volume finito e dopo averlo attentamente letto ci disse, sorpreso: Possibile che si possono scrivere così tante cose su di me?“.

Chi era Troisi oltre la comicità

In realtà di cose da scrivere e riprendere su Troisi ce ne sarebbero molte, il problema è sempre cosa si sceglie di raccontare e con quale sguardo scendere nella complessità del personaggio, per Troisi, per molto tempo sottovalutata.

Nel caso de Il mio amico Massimo (2022) di Alessandro Bencivenga, moto e centro del documentario è il racconto intimo degli amici più prossimi e anche regalando degli aneddoti inediti – il più bello è quello che vede Clarissa Burt saltare sul letto per festeggiare la Coppa Volpi per la migliore interpretazione maschile in Che ora è di Ettore Scola – molto si concentra sull’emotività del ricordo, della mancanza – assolutamente comprensibile – di una persona come Troisi.

Per I magnifici 4 della risata di Mario Canale, invece, canale preferenziale è la panoramica sulla comicità italiana di Francesco Nuti, Carlo Verdone, Roberto Benigni e Massimo Troisi. Non tanto belli, giovani e incazzati nei loro vent’anni, ma che costruirono un nuovo modo di fare cinema e comicità in una società che stava cambiando dopo le ideologie e il ’77.

Rischio dell’operazione è seguire il filo rosso della comicità, marginalizzando il contesto. La risata non era obiettivo quanto mezzo per far circolare con leggerezza un nuovo modo di guardare agli scambi intergenerazionali, ai rapporti sentimentali ma soprattutto all’inadeguatezza rispetto a un mondo che iniziava a ricercare la perfomance più dello sguardo critico. Per il lavoro di Martone occorre aspettare per vederlo in sala, alimentando fiducia, senza dimenticare di poter essere delusi. Staremo a vedere.

Intanto l’immagine di Troisi, sempre così presente in questi giorni di commemorazione, tra giornali e video, corre il pericolo di sbiadirsi: in una rappresentazione oleografica che appiattisce, smorza le avversioni e dipinge solo il bene universalmente riconosciuto, sembra di riascoltare le parole di Pasolini, che Troisi amava e molte volte imitava: “La morte non è nel non potere più comunicare, ma nel non potere più essere compresi.