L’eredità clandestina di Antonio Neiwiller

Difficile per Napoli vivere a una dimensione. Se nel sottosuolo accumula e registra le epoche storiche, in superficie incoraggia la contaminazione: appropriandosi ogni volta di ciò che arriva da fuori, tanto da non riuscire nettamente a distinguere quale sia stato il confine, tra dominati e dominatori.

Tutto inevitabilmente non può che finire per appartenere alla città. La cultura napoletana non conosce una sola stratificazione, un’unica radice, innesto o mezzo di applicazione, così i suoi artisti.

Se negli ultimi tempi la città è sempre più prodiga di calore e affetto nei confronti di chi continua a marciare unicamente sull’oleografia da turista, non superando il perimetro tracciato da corde di mandolini e spaghetti, facilmente dimentica gli uomini che non possono essere a una dimensione, come avrebbe insegnato Herbert Marcuse: gli sperimentatori, gli anti convenzionali, i “clandestini”.

Omaggio a una mente fuori dalle convenzioni

Tra questi, Antonio Neiwiller, ha rappresentato tutti i linguaggi e le eversioni. Non solo attore ma anche regista, drammaturgo ma anche poeta, uno dei fondatori dei Teatri Uniti e sempre attento alla fase laboratoriale: il rischio, l’azzardo, il mettersi in gioco senza paure, perché “le scuole più dignitose sono quelle che non insegnano la dizione ma trovano la tua voce”.

La foto di Antonio Neiwiller nella locandina di “Vita immaginaria di Antonio Neiwiller 1948 > 1993 > ∞”

Tante dimensioni a servizio di un unico percorso: l’abbandono degli stereotipi e la “necessità della comunicazione dove è diventata banale, obbligatoria, vuota”. Un’abilità riconosciuta anche da Toni Servillo, fondatore insieme a Neiwiller e Mario Martone dei Teatri Uniti nel 1987: “Aveva la straordinaria capacità di sviluppare sia una dimensione astratta legata al suo rigoroso lavoro di ricerca teatrale laboratoriale che una dimensione figurativa da attore in grado di reinventare in scena con assoluta originalità”.

La kermesse a 30 anni dalla morte

E così, a trent’anni dalla morte, anche se non ha fatto a tempo ad essere prigioniero della memoria storica del cinema italiano – pur restando l’indimenticabile Sciòn Sciòn sindaco di Stromboli in Caro Diario di Nanni Moretti e Don Simplicio in Morte di un matematico napoletano di Mario Martone – il pensiero e l’anima di Antonio Neiwiller ritornano in scena, a modo loro.

Proiezione (Antonio Neiwiller Il monologo de L’altro sguardo di Rossella Ragazzi), concerto (Antonio Raia con Walter Forestiere e apporti visivi di cyop&kaf), e spettacolo (Il Maestro è nell’anima Parole, musica e immagini con e per Antonio Neiwiller, con Antonello Cossia), più linguaggi concentrati nell’evento Vita immaginaria di Antonio Neiwiller 1948 > 1993 > ∞ (kermesse realizzata presso la Sala Assoli di Napoli, a cura di Agenzia Teatri, Casa del Contemporaneo a Associazione Assoli, che avrà una chiusura il 9 novembre, giorno della morte, al Teatro Grassi di Milano).

L’amicizia (im)possibile di Antonio Raia

Nessuna commemorazione o manovra di ricordo, piuttosto un tentativo per rimettere in circolo “una voce così densa e ricca di opportunità di riformulazione del reale”, così Antonio Raia spiega il progetto La memoria bucata. Apparente soliloquio con Antonio Neiwiller. Anche questo, un disegno a più dimensioni.

Compositore e sassofonista, mettendo insieme frammenti audio di interviste tenute dall’attore, Raia ha dato forma ad un’unica traccia di trenta minuti – disponibile gratuitamente su bandcamp – una suite che mette in dialogo parola e musica, per dare nuovo spazio a una figura che il teatro italiano aveva lasciato in ombra.

Ma volendo spiegare le motivazioni che legano la sua arte a Neiwiller, Raia scrive il breve ma denso libro, omonimo della composizione, La memoria bucata (monitor edizioni, 40pp, 2023). “Per i più è fuori logica che si possa essere amici di qualcuno che non si è conosciuto nella carne, ma per me questa cosa è miope. Antonio e io siamo amici perché io lo rispetto e lo ascolto, cerco uno scontro e lo accolgo”.

Il suo metodo e l’ultima testimonianza

Ed è grazie alle sue pagine se il profilo dell’attore risale in superficie, facendo emergere metodo e temi, ossessioni e previsioni future: c’è la ricerca instancabile dei suoni, il rifiuto di appiattirsi alla logica di mercato e di cercare nuove connessioni, tutto in funzione del “nostro restare aperti al mondo”.

Anche se Raia non incontrerà mai Neiwiller, ricostruisce un sistema di indagine, con regole e inviti per evitare il banale, brevi appunti, perché anche se “allevati come prodotti che dovranno consumare altri prodotti” non si può soccombere a un destino ritenuto fatale.

E come chiusura all’apparente soliloquio, La memoria bucata termina con una sezione scritta dall’attore. Otto pagine inedite, titolate Finché potrò, parte del suo quaderno Memorie di un clandestino, ultima testimonianza a pochi mesi dalla scomparsa nel 1993.

Ma più che dare risposte certe, scorrendo le linee dei suoi appunti, Neiwiller è teso ad autointerrogarsi sulle possibilità dell’arte: “Voglio capire se può esistere un teatro clandestino. “Clandestino” perché fuori da rapporti che si sono consolidati, strutturati e irrigiditi”. Per l’ultima volta, Neiwiller trova la forza per immaginare nuove opportunità, riscrivere gli spazi, guardare all’arte sì, come a un progetto radicale e politico, ma senza perdere il pragmatismo “(come ci sosterranno i contanti?)”. Ancora il teatro come antisistema, scardinato dagli interessi politici ed economici, ultima parentesi di progresso, aperta a tutti, perché “l’arte non può che testimoniare questo scandalo. Ancora una volta, ancora di più”.

Nell’epoca in cui intellettuali e attori, addetti ai lavori e scrittori, assecondano la riduzione del proprio pensiero ed espressione a un formato Instagram, in cui le immagini e i filmati vengono riprodotti e inviati all’infinito, ma sempre ridotti allo spessore di uno schermo, parole, vita e opere di Antonio Neiwiller vivono nella dispersione delle sue dimensioni: riecheggiano, rinsegnano e risuonano nella mente di chi c’era ma anche di chi è venuto dopo, un racconto anarchico che raccomanda di resistere e non cedere. Con la promessa di un’altra dimensione realizzabile: un teatro aperto a chi sa ascoltare.