Perché Italo Calvino mi affidò il suo “Barone rampante”

Da contestatore si era immedesimato in Cosimo Piovasco di Rondò, ma invece di salire su un albero e non scendere più, Armando Pugliese, prese una decisione diversa: incontrare Italo Calvino e mettere in scena Il barone rampante.

Nell’anno del centenario dello scrittore, al margine delle celebrazioni, tra convegni, mostre e nuovi studi critici, il regista – allievo in accademia di Luca Ronconi, vincitore del Premio Ubu, nella sua accurata carriera ha lavorato per i migliori teatri italiani, dal Teatro di Roma allo Stabile di Catania – racconta l’avventura dei primi anni settanta della messinscena del romanzo, la generosità di un venerato maestro che non creava distanza con i più giovani, la congiunzione tra il suo spettacolo e il romanzo Malacqua, pubblicato per la prima volta per Einaudi nel 1977 e scritto dal fratello Nicola.

Qual è stato il primo incontro con Italo Calvino?

Avevo deciso di portare Il barone rampante in teatro. Scena per scena, con i bozzetti già pronti di Bruno Garofalo, non andai a trovarlo la prima volta a Torino ma alla Versiliana, a Marina di Pietrasanta. Immediatamente gli presentai il progetto, chiedendogli di ridurre il testo, e ne fu entusiasta. Conservo anche una copia di quella stesura, quarantaquattro pagine in cui Calvino cambiava un po’ tutto rispetto al romanzo, mentre io volevo restargli fedele. Così mi scrisse una lettera, confidandomi che non era capace di rimettere mano a Il barone rampante “perché mi viene da cambiare, mi viene da reinventare”. Mi consigliò di lavorarci da solo.

Senza nessun aiuto?

Mi suggerì di andare a trovare Rodolfo Wilcock, suo amico e scrittore, che all’epoca abitava nella periferia di Roma, in un casolare senza luce. Trascorremmo il pomeriggio insieme, ma quando arrivò il momento di chiedergli una collaborazione, rifiutò: “Pugliese, è meglio che scriva da sé la riduzione”. Il motivo di questa decisione fu la rottura con la moglie di Calvino, Chichita. Entrambi argentini, la loro amicizia si era interrotta, raffreddata. Così lavorai solo. Debuttammo per la Biennale di Venezia, nel palazzetto del porto di Mestre.

Perché decise di mettere in scena proprio Il barone rampante?

Ero ovviamente un appassionato di tutti i romanzi di Calvino, ma per me Il barone rampante era particolarmente significativo, come una specie di propulsore di tutto quello che sarebbe accaduto dopo, il ’68 e ciò che questo momento storico ha determinato in seguito. È un romanzo basato sulla ribellione: mi identificavo io così come tanti altri ragazzi.

E quali furono le impressioni di Calvino per la trasposizione teatrale?

Presente alla prima, si manifestò estremamente soddisfatto, tanto che partecipò e intervenne alla conferenza stampa. Di recente, mi sono rammaricato per delle affermazioni comparse su Repubblica, circa il rapporto di Calvino con le trasposizioni teatrali delle sue opere: prima di tutto Il barone rampante con la mia regia non è stata per niente un’edizione modesta, anzi fu di grande impatto per il pubblico. Chiunque è libero di portare in scena nuove versioni, ma non vedo perché sminuire la mia; inoltre Calvino non è mai stato contrario o diffidente alla mia riduzione, tanto che una traduzione fu portata in scena in Polonia, con il suo permesso. Ho ritenuto opportuno far presente questa imprecisione, anche perché Calvino era una persona meravigliosa, un bambino, mi dispiaceva che gli fosse stata assegnata la parte del dissidente. Come tutte le grandi personalità che ho avuto modo di incontrare, non aveva bisogno di rappresentarsi: era entusiasta dei progetti dei giovani e del nostro lavoro.

Chi tra i grandi le ha dimostrato questa disponibilità?

Quando ho girato dei film di Lina Wertmüller, Sophia Loren è stata adorabile, senza bisogno di marcare il confine tra lei e gli altri. Insomma, non se l’è mai tirata. Ma più di tutti Romolo Valli, con cui ho avuto un bellissimo rapporto. Quando fu nominato direttore artistico del Festival dei Due Mondi, pianificammo molti progetti, rimasti irrealizzati, tranne uno che portai in scena dopo la sua morte: Risorgimento, scritto da Roberto Lerici, a Villa Redenta, a Spoleto.

Ma tornando a Il barone rampante, cosa colpì Calvino?

L’allestimento utilizzato nei due anni di repliche era stato realizzato pensando a un ovale di alberi che accogliesse il pubblico durante lo spettacolo. L’azione scenica era divisa in pedane, come punti di appoggio, e percorsi aerei. Una scelta che era piaciuta particolarmente a Calvino, che aveva rifiutato di cedere i diritti a Nino Manfredi per girarne un film dallo stesso romanzo. Con la mia compagnia portammo lo spettacolo in giro per tutta Italia, a Roma montammo il primo Teatro Tenda, eravamo giovani. Avevo venticinque anni.

Un grande scrittore che apre le porte a un regista quasi esordiente, cose che non accadono spesso ormai.

E come si entusiasmò per il mio progetto per Il barone rampante, allo stesso modo si appassionò a Malacqua, il romanzo di mio fratello Nicola, tanto da farlo pubblicare per Einaudi. Calvino chiese alcune correzioni, e credo che mio fratello alcune le abbia fatte, una o due, ma alla terza rispose: se lo vuoi pubblicare così bene, altrimenti arrivederci e grazie. Nicola decise di non modificarlo ulteriormente: era un po’ particolare mio fratello. Dopo la morte di Calvino, l’Einaudi non ebbe più interesse a curare nuove edizioni, nonostante dopo le prime due, le copie fossero andate esaurite. Nicola dispose che solo Tullio Pironti, nostro amico di gioventù, avrebbe dovuto pubblicarlo, con delle correzioni che l’editore accettò. E di recente l’ultima uscita è stata con Bompiani, con una buona diffusione. Oggettivamente è un romanzo che nella narrativa napoletana fa un passo avanti rispetto agli altri. Anche a rileggerlo adesso è di una modernità incredibile.

Nonostante la sua eccezionalità ha attraversato degli anni di oblio, ci sono stati degli ostacoli alla diffusione di Malacqua?

Due furono i motivi principali: mio fratello, che in qualche modo era restio a un nuovo impegno con una casa editrice, non si decideva, infatti fu solo dopo la sua morte che riuscimmo a far ripubblicare il romanzo da Pironti. Ma determinante fu la morte di Calvino, come se dopo l’Einaudi avesse deciso di chiudergli la porta. L’ideologia in quegli anni ancora dominava: Nicola scriveva come giornalista per il Roma, un quotidiano di destra, mentre l’Einaudi aveva ancora una facciata di sinistra. Malacqua andò nell’oblio nonostante il tutto esaurito, e per anni è circolato in forma di fotocopia tra gli studenti delle università napoletane: era diventato un modello per gli scrittori che sarebbero arrivati dopo.

Intanto c’è stata anche la sua trasposizione teatrale. Quali sono state le difficoltà per questo lavoro?

L’ho studiato e ci ho dovuto lavorare parecchio, soprattutto per allestire una scaletta teatrale che fosse comprensibile per il pubblico, eppure i risultati posso dire che li abbiamo ottenuti. Portato in scena al Napoli Teatro Festival, la produzione poi non si è dimostrata interessata a organizzarne una tournée: non avendo nomi di attori con grande visibilità, è difficile per uno spettacolo continuare a circuitare. Purtroppo le decisioni in questo paese vengono prese così.

Un sistema che cede al ricatto della fama e dei like, sprecando il talento di chi sa raccontare con elegante lateralitá e ama quello che fa. La prima volta Pugliese salì sull’albero con Cosimo affamato di futuro, e con la spinta di Calvino. Ora ci risale nella solitudine del contemporaneo, in un mondo dall’appetito di visibilità.