A proposito di Rino Gaetano

È una storia che inizia nel dopoguerra, in un sud che è ancora quello dell’emigrazione e dei sassi di Matera denunciati da Carlo Levi e definiti da Togliatti «una vergogna nazionale». Si conclude all’alba degli anni Ottanta della plastificazione culturale, sulla Via Nomentana. In mezzo, c’è tanta Roma, che è ancora sud, ma anche un po’ nord. Almeno rispetto alla fenicia Siracusa o alla greca Reggio Calabria. E all’altrettanto greca Crotone.

Uno dei nomi dell’avversione di Alberto Fortis per Roma nelle sue canzoni è Vincenzo Micocci: «Vincenzo, io ti ammazzerò».

Micocci, che appunto era romanissimo, fu discografico di quelli evoluti, che negli anni Settanta si guardavano attorno, cercavano di comprendere le trasformazioni in atto nel mondo musicale e prima ancora nella cultura dei giovani. Dopo esser transitato per la Ricordi, nel 1970 aveva fondato l’etichetta discografica IT che lanciò, tra gli altri, Antonello Venditti e Francesco De Gregori, scoprendo alcuni tra i maggiori talenti di quella generazione. Ora, il torto subito da Fortis per mano di Micocci era stato quello di esser scritturato, sì, dalla IT, ma senza che ci si decidesse a fargli fare un disco. Dovette apparire al cantautore milanese una espressione esecrabile di una certa romanità. Da qui, i versi feroci di Milano e Vincenzo («Vincenzo, io ti ammazzerò, sei troppo stupido per vivere»).

Micocci, che prima di sfoderare il suo infallibile fiuto (con l’eccezione, certo, dell’autore de La sedia di lillà) era stato critico musicale col pallino del jazz, lo troviamo una domenica mattina del 1975 al Teatro Trianon di Roma ad allestire uno strano concerto. Strano, innanzitutto perché si svolge di mattina. Poi, perché è tenuto in un quartiere periferico di Roma (all’epoca la retorica del recupero delle periferie non era di moda). È un happening della musica giovanile non solo rigorosamente cantautorale, quello che sta per proporre, affiancando artisti già in voga con nomi poco conosciuti. Ci sono così il gruppo jazz-rock dei Perigeo, Lucio Dalla, Renzo Zenobi, Ernesto Bassignano, Antonello Venditti, Francesco De Gregori, il percussionista Toni Esposito, ma anche Ron, che è ancora Rosalino Cellamare, Paolo Conte, il jazzista Mario Schiano e alcuni artisti emergenti di cui purtroppo non si sentirà più parlare (in testa Carmelita Gadaleta). Nel mazzo, c’è anche Rino Gaetano che propone una versione acustica di un suo cavallo di battaglia di quel momento, Ad esempio a me piace il Sud, interpretato anche da Nicola Di Bari a Canzonissima.

«Ad esempio a me piace la strada / Col verde bruciato, magari sul tardi / Macchie più scure senza rugiada / Coi fichi d’India e le spine dei cardi / Ad esempio a me piace vedere  /La donna nel nero, nel lutto di sempre / Sulla sua soglia tutte le sere / Che aspetta il marito che torna dai campi»

Un anno dopo quel concerto, quasi una prova generale di quello che si terrà alcuni anni dopo per celebrare il genio di Demetrio Stratos, alcuni di quegli artisti – Dalla, Venditti, De Gregori – intonano L’Internazionale per un lavoro di Mario Schiano. Probabile che la collaborazione sia nata proprio un anno prima al Trianon. Dentro non c’è anche Rino Gaetano. E non sappiamo se per insofferenza a certi inni o altro.

Il cantautore, però, alcuni anni dopo, nel 1981, suonerà di nuovo dal vivo con i New Perigeo, per il Q Concert ideato dal suo amico Riccardo Cocciante. Due su quattro, sull’EP che ne fu tratto, saranno le canzoni che recano la firma del cantautore crotonese: Ancora insieme, scritta a quattro mani con l’autore del Concerto per Margherita, e Aida, già presente sull’album omonimo del 1977, che potremmo definire l’unico inno possibile per la voce di Rino. Visionario, disperato, arrabbiato.

«Aida / Le tue battaglie / I compromessi / La povertà / I salari bassi / La fame bussa / Il terrore russo / Cristo e Stalin / Aida / La costituente / La democrazia / E chi ce l’ha / E poi trent’anni / Di safari / Fra antilopi e giaguari / Sciacalli e lapin»

Erano anni di collaborazioni e di trasversalità e il creativissimo seppur ingenuo panorama musicale italiano non poteva esser più ridotto ai cantautori impegnati mentre cominciavano a venir fuori commistioni con il pop e figure di artisti bizzarri, come il primo Alberto Camerini, Ivan Cattaneo, Enzo Carella, per citarne solo alcuni.

Scoperto da Micocci, Rino Gaetano è un po’ un trait d’union tra il mondo dei De Gregori e dei Venditti, suoi grandi amici, e questa nuova ventata di trasgressione. Ma ridurlo a questa funzione non ci fa comprendere davvero perché ne parliamo ancora oggi, a 40 anni di distanza dalla morte.

Salvatore Antonio Gaetano nasce il 25 ottobre del 1950 a Crotone ma si trasferisce già a dieci anni, coi suoi, a Roma. Studia da geometra anche se ben presto teatro e musica lo distraggono e infine catturano. L’ambiente è quello del Folkstudio e gli esordi sono nel 1973 alla IT che lo lancia col nome salgariano di Kammamuri’s – in realtà scelto dallo stesso cantante –  e con due singoli contenenti nomi di donne, I love you Maryanna (inno alla marijuana) e Jaqueline.

La Roma in cui si muove il giovane Rino è una capitale della creatività ma anche la città papalina e centro della vita politica e degli intrallazzi del tempo contro cui il milanese Fortis lancerà i suoi strali. La musica con cui era cresciuto, e che costituirà il suo background, quella dei giovani formatisi tra gli anni ’60 e ’70, dunque il beat italiano (anzi, il bit, come lo definisce Bertoncelli), naturalmente i Beatles, Bob Dylan, successivamente il reggae di Bob Marley ma anche i grandi cantautori italiani, da Fabrizio De Andrè a Giorgio Gaber e Enzo Jannacci. Soprattutto Jannacci.

Gaetano ha da subito una sua precisa idea della musica d’autore, almeno di quella che vuol proporre lui, che non è polverosa, mostra un certo gusto per il nonsense ed è imparentata con l’ironia amara del medico cantautore milanese e poco altro. Le carte vengono scoperte con l’esordio a 33 giri dato alle stampe nel 1974, Ingresso libero. La perfezione giunge appena due anni dopo, con Mio fratello è figlio unico.

La cifra di Rino è il surrealismo. E parliamo di cifra tout court, non di cifra stilistica o artistica. Perché surreale fu quasi tutto nella sua breve esistenza, compresa la assurda scomparsa. Soprannominato dagli amici Dracula, perché amava vivere di notte e dormire di giorno, l’artista riuscì a mantenere sempre una dimensione popolare – un vero amore per il popolo, per gli ultimi – ma coniugandola con un’attitudine sperimentale colta e letture tutt’altro che scontate, forse sconosciute anche agli accigliati colleghi cantautori (Palazzeschi, Beckett, Ionesco, Majakovskij).

In Ingresso Libero, Rino canta il suo meridione con quello che è il suo primo vero biglietto da visita, la succitata Ad esempio a me piace il Sud. È fin troppo facile affermare che il mezzogiorno del ragazzo trapiantato a Roma ma ancora legatissimo alla sua terra d’origine sia quello pasoliniano, premoderno, resistente alla industrializzazione e alla modernizzazione forzata. Gaetano è figlio di un portiere di condominio che viene dal sud del sud dei santi, per dirla con Carmelo Bene, che si riferiva alla sua Puglia. Nel giro dei cantautori imbevuti di politica, non nasconde, da un lato, la sua diffidenza per i soloni impegnati e, dall’altro, il suo amore per tutto ciò che è basico. Sicché la sua stessa arte può dirsi populista e coltissima. Di modo che le sue canzoni non risultano spocchiose e, perciò, raggiungono la massa, ma contengono una voglia di giocare con le parole che accomuna la miglior arte popolare con il teatro e la letteratura più raffinata.

«L’arte mia è l’arte di tutti gli italiani, solo che oggi vogliamo nasconderla, ci siamo trovati tutti molto impegnati, molto tristi, molto macabri. Ma l’Italia è stata sempre la patria dei vari Petrolini e Totò» (Intervista a Enzo Siciliano, 1978)

In qualche modo, il gioco condotto sulle parole da Rino, attraverso girandole di nomi attinti dalla cultura popolare, e perciò dalla tv (Maurizio Costanzo) e dal calcio (Chinaglia, Brera, Panatta, Bearzot), anticipa di qualche anno quello del Battiato pop e cazzaro, che però punta su nomi altisonanti della cultura (Stravinskij, Landolfi, Majorana) e citazioni dal pop anglofono (Ruby Tuesday e Mr Tambourine man).

Lo stile interpretativo di Gaetano è personalissimo, almeno quanto quello di un Dalla, cui è accomunato dalla profonda e a volte amara ironia. Ma diversamente dall’emiliano, che era musicista completo, Rino strimpella la chitarra senza grande sapienza tecnica e sfugge alla definizione di musicista come a quella di cantautore (in realtà non si riteneva neppure un buon cantante), per doversi piuttosto considerare un cantastorie popolare moderno.

«Le canzoni di Rino vanno giudicate così, senza troppe analisi tecniche o disquisizioni in materia. Sono emozionanti nella propria schiettezza, nel piacere che emanano». (Vincenzo Micocci)

Il gusto per gli arrangiamenti e la conoscenza delle sequenze armoniche gli consentono di dar vita a racconti per immagini e stati d’animo, con musiche semplici ma mai banali, che trovano interpreti di prima scelta. Quanto accade soprattutto in Mio fratello è figlio unico dove il sitar di Gaio Chiocchio (Pierrot Lunaire, Amedeo Minghi) si affianca al sax tenore di Toni Formichella (Mario Schiano), senza dimenticare il clavicembalo di Arturo Stalteri (ancora Pierrot Lunaire e poi in proprio con dischi importanti del minimalismo romantico come Andrè sulla luna).

L’album è prodotto da Micocci e vive di straordinario equilibrio tra la musica e testi che divertono, fanno riflettere e sono impegnati nella medesima misura in cui Gaetano scaltramente lo nega. Da questo punto di vista, il calabrese era fin troppo avanti, proiettato nel gioco del postmoderno con l’astuzia di chi sa che certi ideologismi cominciano a mostrare la corda e stare dalla parte degli sfruttati è un’altra cosa.

«Certo, parlo di emigranti, del sovraffollamento, delle case, del bisogno degli ospedali e delle scuole… Ma dipende da come ne parli. Esistono periodi sociali, oggi è così mentre prima c’era stato il boom, quando si parlava di amore e Morandi cantava fatti mandare dalla mamma a prendere il latte, che oggi non puoi, col prezzo che ha il latte. Oggi il boom non c’è più e io non sono cieco. Io cerco di scrivere canzoni d’amore per la nostra società. Ma certo non sono cieco su quello che accade attorno a me».

Nelle otto canzoni di Mio fratello è figlio unico, Gaetano prende le distanze dal cantautorato in cui è cresciuto, presentandosi come un oggetto alieno, precorrendo i tempi. L’apertura è affidata alla title track, una ballata durissima, un vero cazzotto nello stomaco dal testo dissacrante ma attestante la più sincera e rabbiosa vicinanza ai diseredati, ai vessati, agli umiliati. La successiva Sfiorivano le viole, invece, conduce a ritmo di bossanova in territori di malinconia infinita. Glu Glu è a suo modo un manifesto della poetica di Gaetano, con la sua scanzonatezza a nascondere una sensibilità unica per temi alti e anche politici. Cogli la mia rosa d’amore è ancora un atto d’amore per il sud ed un invito a non fermarsi alla fotografia dei suoi luoghi, cogliendo con pudore e rispetto la verità e la bellezza dietro visioni anche squallide e dolorose (il figlio in Germania, la miniera, i muri bianchi di calce). Berta è tra le canzoni più note del cantautore e sfodera un irresistibile funk casareccio per tratteggiare un’immagine di donna che lo stesso Gaetano descrive essere moralmente non raccomandabile, e schierata contro gli eroi, i santi, le novelle, i falsi miti. Rosita – ancora una donna! – è un valzer con fiati che riconducono ad una quotidianità tutta italiana; è una delle canzoni d’amore più belle e devastanti scritte in Italia, una delle vette poetiche dell’album e dell’intero canzoniere di Rino Gaetano, che stavolta considera la possibilità che l’incontro con una donna possa cancellare qualsiasi problema sociale ed individuale di uno degli umili che popolano il suo mondo (ma in fondo è un po’ un cerchio che si chiude, se si tengono presenti i versi della prima traccia, dove: mio fratello è figlio unico… sfruttato, represso, calpestato, odiato… ma ti amo Mariù – Mario secondo alcuni). Al compleanno della zia Rosina e La zappa, il tridente, il rastrello concludono il disco con due bozzetti folli e poetici ad un tempo, con uno sguardo singolare sulla vita della provincia.

Con il successivo Aida, Gaetano conferma il suo stato di grazia ma comincia ad essere oggetto delle attenzioni destabilizzanti che inevitabilmente conseguono al successo. Il che non gli farà cambiare di una virgola le abitudini di frequentatore di osterie, nottambulo malvestito, osservatore senza pregiudizio delle esistenze più fragili, ma forse intaccherà nel profondo il suo essere. Il cane contrito, imprigionato da un fastidioso raggio di luce sulla copertina di Mio fratello è figlio unico sembra essere diventata una realtà, quella dello stesso Rino, e lontanissimi appaiono i tempi in cui Tu forse non essenzialmente tu (1974) veniva lanciata nell’etere radiofonico nazionale dai soliti Arbore e Boncompagni, destando stupore e parimenti incomprensione, così come quelli delle ubriacature allegre e degli scherzi con Venditti e gli altri amici del giro folk romano.

Per alcuni anni, Gaetano produce ancora album di canzoni irriverenti ed intelligenti, profetiche e poetiche, anarchiche e deliranti, va a Sanremo con Gianna conquistando il terzo posto, si consacra con Nuntereggae più, collabora con Mogol per Resta vile maschio, dove vai?, duetta con una giovanissima Anna Oxa.

Un incidente automobilistico sulla Nomentana, con conseguente rifiuto di più ospedali ad accoglierlo per le cure che avrebbero potuto forse strapparlo alla morte, troncherà la vita del trentenne e con essa la sua incontenibile creatività, proprio nel mentre pensava ad un film con Maurizio Nichetti e si preparava per il matrimonio. Ma anche questo, Rino, probabilmente lo aveva previsto, nel testo di una sua ancora enigmatica canzone di circa dieci anni prima, La ballata di Renzo:

«Quel giorno Renzo uscì / Andò lungo quella strada / Quando un’auto veloce lo investì / Quell’uomo lo aiutò e Renzo allora partì / Per un ospedale che lo curasse / Per guarir / Quando Renzo morì, io ero al bar / Bevevo un caffè / Quando Renzo morì, io ero al bar / Al bar con gli amici / Quando Renzo morì, io ero al bar».