Prendendo commiato dal pubblico, Enzo Moscato si è affidato alla voce di Isa Danieli. Non solo fedele custode in scena dei suoi testi, ma amica fin dalla metà degli anni Ottanta, quando alla presenza di Annibale Ruccello, ascolta la prima stesura di Luparella.
In lacrime, seguendo il racconto “così forte e così violento” dello scrittore sconosciuto ed esile, ha una certezza: “Questo testo prima o poi lo dovrò fare“.
Per questo non sorprende che l’inizio della rassegna We Love Enzo – un omaggio in vita a Moscato – presso la Sala Assoli di Napoli, nei Quartieri Spagnoli da sempre scenario di vita e opera dell’autore, abbia visto proprio Isa Danieli leggere da Tempo che fu di Scioscia (Tullio Pironti Editore 2014), i racconti Mata Hari e Bagattelle per un altro malinteso, e la sua interpretazione di Luparella, proiettata con la regia di Giuseppe Bertolucci.
Colpisce l’appuntamento che si sono dati due finali inaspettati. “Ma lassate miezo purtuncine apierte. Sulo miezo“, raccomanda Nanà/Danieli per annunciare la morte della prostituta nelle ultime battute dell’opera.
Un segno di lutto da non esasperare se il trapasso arriva in un bordello, uno spazio inadeguato per avere pudore. Si potrebbe apparire fuori luogo, oppure finire per interrogarsi: “ma nun è ’na pacchianata?“.
L’addio al drammaturgo e poeta
E il teatro non è un “lupanare” così diverso, soprattutto se chi muore ci ha vissuto amando e soffrendo? Mentre da amica e compagna di palco, nella replica di sabato sera, lasciava inavvertitamente disposizioni per vivere il dolore, Enzo Moscato, l’autore e l’interprete, il drammaturgo e il poeta, abbandonava la quinta terrestre, salutando saitelle, surice e palomme, madame, ragazze sole con qualche esperienza e ammore. E Napoli, naturalmente.
La centralità di Napoli
Ormai lontana dalla spietata realtà di Anna Maria Ortese, dominata e sovrascritta dal turismo di massa, sempre più facile preda di aggettivazioni, eppure la stessa che in questi giorni, nel centro storico, si prepara alla raccolta degli abeti per il falò del giorno di Sant’Antonio – come documentato ne Il segreto di cyop&kaf – e al gioco tra bande di ragazzi nelle strade a chi ricava più legna. Un rito arcaico eppure bambino, collettivo, pericoloso e proibito, sgradito ai borghesi, con voci sempre nuove e diverse. Un fuoco per combattere il buio, come la scrittura di Enzo Moscato.
L’invenzione di una lingua nuova
Una lingua, “eresia permanente“, non solo quando si declina in poesia, ma anche quando diventa vagabondaggio nelle pluralità del napoletano, sfuggendo all’imposizione esterna dell’idioma di Stato.
Un esperimento che non può accontentarsi dell’immediatezza del parlato di strada e neppure dei riferimenti teatrali precedenti, De Filippo su tutti. Il napoletano di Moscato ha una costruzione semantica complessa, anti naturalistica, con inserti latini o tedeschi, conseguenza diretta della sua giovinezza da lettore: “Uno che ha letto Sulla strada di Jack Kerouac a quattordici anni come può concepire il rapporto con la lingua napoletana in un modo canonico?“.
Prima l’insegnamento, poi il teatro
Ma anche i libri di Moravia, Miller, Artaud, Genet, trovati sulle bancarelle di via Foria o Port’Alba, apriranno nuove prospettive per Moscato: nato e cresciuto nei Quartieri Spagnoli – “Sette figli, una casa piccola, mio padre spesso disoccupato, mia madre che invece lavorava sempre” – l’oggetto libro fa scavalcare il confine geografico per confrontarsi con altre tradizioni, non solo con la propria.
“Bisogna, idealmente e concretamente, camminare, camminare, allontanarsi, estradarsi, esularsi, per terre e lingue ignote“. Così il giovane Moscato, inizia a rendersi estraneo: studente anarchico, laureato in filosofia e insegnante, traccia una linea di demarcazione rispetto all’apprendistato sul palco che esigeva la consuetudine teatrale.
Moscato non cresce come Eduardo tra le quinte, osservando gli attori, ma si dedica al teatro con un approccio da studioso, legato al testo, e all’impossibilità di farne un mestiere.
Anche se nei primi anni di attività scrive opere fondamentali come Scannasurice, Trianon, Festa al celeste e nubile santuario, l’impegno in teatro è parziale, collaterale all’insegnamento.
Il superamento di Eduardo
È Franco Quadri – dopo l’assegnazione del Premio Riccione nel 1985, all’unanimità, con Piece Noire – a scuoterlo come “un bum bum bum, un tremolatutto“, e a metterlo di fronte a una scelta definitiva: che fare? Scegliendo di dedicarsi esclusivamente alla drammaturgia, insieme a Manlio Santanelli, Francesco Silvestri, costruisce lo scenario posteduardiano in cui giovani autori colti sperimentano nuove dinamiche per relazionarsi alla tradizione. Occorre tradirla, per onorarla.
“Tradizione non è convenzione, ma è sempre un profondo tradimento di ciò che è stato dato, anche involontario. Il teatro è un grande ossimoro, è una contraddizione vivente, l’unione di tutti i contrari. Il tradimento è implicito nell’atto stesso di fare teatro e quindi la parola tradizione la si può interpretare anche in un’altra maniera“.
C’è l’ironia e l’umanità spietata di Viviani e Eduardo, il contesto storico e geografico, ma Moscato prova degli innesti culturali diversi, con Beckett, Pinter, Artaud. “Ognuno deve provare dei sentieri nuovi. Sono un autore partenopeo, ma nella mia testa ci sono tremila esperienze etnicamente diverse: l’America, la Svezia, la Francia, il Sud America“.
Al pari di Fabrizia Ramondino e Lucio Amelio, espressioni di generazione e classe sociale differenti, Moscato diventa anche l’erede di una Napoli multiculturale e poliglotta, diretto interlocutore con la cultura europea, senza dimenticare l’origine mediterranea. E le tracce della sperimentazione linguistica non si fermano al teatro, ma investono anche il repertorio musicale, come il disco Embargos (1994). Strofe in tedesco, arrangiamenti sudamericani, eppure la sua forma canzone resta saldamente napoletana.
La collaborazione con Martone e Ruccello
Se la scena teatrale della metà degli anni Ottanta si arricchisce sempre più di drammaturghi (Neiwiller, Silvestri), interpreti (Toni Servillo) e registi (Mario Martone), è con Annibale Ruccello che Moscato condivide e sviluppa più temi e linguaggi: l’instabilità, “il cadere progressivo” di Napoli, senza rinunciare al sogno del riscatto.
E proprio la morte prematura di Ruccello segna una frattura definitiva nella sua produzione teatrale: Bordello di mare con città – scritto su commissione, un mese dopo l’incidente dell’amico e collega, rappresentato solo trent’anni dopo, con la regia di Carlo Cerciello (2016) – è il tentativo di superamento di un lutto e la presa di coscienza che nulla sarà più come prima. Se nel primo tempo il testo segue una struttura classica, iscrivendosi regolarmente nel teatro dei fatti, il secondo atto si scompone e sveste di narrazione, per diventare “una scrittura de-lirica“, uno dei tratti distintivi di Moscato nell’opera successiva: Rasoi (1991), Co’Stell’Azioni (1995).
In veste di attore
E la sperimentazione non si arresta nell’età più matura, ma procede tra forme diverse: dalla prosa alla poesia, dalla canzone al teatro. Il cinema, al contrario, lo vede solo nel ruolo di attore: da uomo antico e allo stesso tempo anticipatore, lo concepisce più come una distrazione dalla rigidità e dal “gelo del teatro” che un’occasione di indagine nei segni e nei suoni della stesura.
Eppure partecipa a Morte di un matematico napoletano, debutto cinematografico di Mario Martone (1992), Quijote di Mimmo Paladino (2006) e Il giovane favoloso, sempre di Mario Martone (2014).
Ma è nella trasposizione del romanzo di Enzo Striano, Il resto di niente, di Antonietta De Lillo (2004), nel ruolo del filosofo Gaetano Filangieri, che Moscato lascia un testamento in immagine, riassunto di una sovrapposizione tra realtà e finzione, illuminismo settecentesco e avanguardia degli anni Ottanta: “Io ho avuto solo il coraggio di scrivere e la banale idea di morire in un letto d’infermo. Essere bambino fino alla fine. La prova suprema, questo mi fu negato. Costruirli i sogni, non dirli soltanto. Volerli“.
Una visione per Napoli
Perché è camminando oggi nei vicoli dei quartieri spagnoli che furono racconti, versi e testi teatrali di Moscato, che si può avere certezza che “i mali moderni“, eternamente denunciati già da Viviani ed Eduardo, non solo non siano cessati ma abbiano cambiato semplicemente forma: la morte della figlia di Titina in Bordello di mare con città non è forse una Rituccia di Napoli Milionaria! che ha atteso che la nottata passasse senza riuscirci?
Il sogno del riscatto di Napoli, Enzo Moscato ha continuato a disegnarlo, sperimentarlo nei suoni, senza riuscire a vederlo, per assistere a un’eterna corruzione di ribellione che qualcuno sta ancora aspettando.
Anche per questo, il portone del bordello di Luparella, così come il teatro di Moscato deve restare aperto: per continuare ad avere visione di una città e di una umanità diversa. Tanto agli artisti basta poco, un uscio sempre aperto al pubblico del futuro. Anche “sulo miezo“.