Animali leggendari e dove (non) trovarli

Molti di noi li hanno visti solo ad anelli e cubetti nel piatti, come se il loro habitat naturale fosse la tavolata di una sagra, in un mare di olio su un fondale di olive e patate (…) Non c’è più la forma dell’animale, niente zampe o pinne, niente bocca e soprattutto niente occhi: se lui non vede cosa gli facciamo, non lo vediamo neanche noi”.

Fabio Genovesi potrebbe narrare di branzini, trote, conigli, o di quella gallina che dopo aver felicemente starnazzato nel cortile di sua nonna veniva servita a pranzo per le felicità degli adulti e l’orrore del bambino.

Alla ricerca di un sogno impossibile

Ma il protagonista bestiale è Il calamaro gigante. Essere dai tentacoli lunghi quasi venti metri, personaggio misterioso che Linneo dalla sua tassonomia animale aveva escluso e che però in tutti i mari decine di pescatori e navigatori hanno nei secoli avvistato. Tanto che alla fine si è conquistato anche una voce in Wikipedia, con relativo nome scientifico: Architeuthis dux.

Il mega mollusco fatto letteratura diventa, nel libro, il racconto degli uomini che sono andati a cercarlo lungo diverse epoche. Una caccia alla Moby Dick, dove però l’ossessione non era il confronto titanico fra l’uomo e la balena bianca, da cui solo uno sarebbe uscito vivo. Qui l’obiettivo è l’inseguimento, la ricerca. La possibilità di assistere a un sogno impossibile.

L’infanzia di Fabio Genovesi

Nel ricostruire e immaginare storie calamaresche, Genovesi in parallelo racconta così se stesso bambino, lo stupore del buio e delle stelle. Guidato sempre dalla nonna, non solo responsabile dell’ammazzatina di galline ma anche depositaria di una vita rurale in cui la fede nell’intangibile fa apparire, a lei ma anche al piccolo Fabio, il marito morto con cui continuare il discorso della vita.

Nato a Forte dei Marmi, da sempre lo scrittore ha la penna puntata al largo. A partire dal primo Versilia rock city, passando per il bel Chi manda le onde, arrivando all’ultimo Oro puro che naviga sulle caravelle di Colombo: il mare è sempre presente. Lo è materialmente e lo è nella sua simbologia di elemento base della vita, in continua trasformazione, occasione di metafore sul salpare, il guardare al largo, tenere la rotta…

Dal libro al palcoscenico

L’acqua però è per sua natura difficile da ingabbiare su un palcoscenico. Ciononostante, lo stesso Genovesi ha accettato di farlo quando Angela Finocchiaro, entusiasta della lettura, gli ha proposto di lavorare insieme a una rilettura scenica.

È così che dopo un paio d’anni dalla prima idea, che sembrava impossibile trasformare in spettacolo, è nato Il calamaro gigante formato teatrale.

Qualche taglio, qualche riscrittura e un doppio binario: un’assicuratrice (la Finocchiaro, con il suo classico tono che vira leggermente all’umorismo) che improvvisamente si trova catapultata da un ingorgo autostradale in alto mare, le vicende (interpretate da Bruno Stori, anche lui partecipe dell’adattamento) delle persone che nei secoli hanno creduto nell’esistenza del molluscone e sono andati a cercarne le testimonianze.

Non è mai troppo tardi

Al di là delle modifiche necessarie nel passaggio da un mezzo all’altro, libro e spettacolo condividono la stessa idea di fondo, che sia Genovesi sia la Finocchiaro amano ribadire: “Mai dire ormai”, come titola uno dei capitoli del romanzo.

Perché quando arrivi a pensare che “ormai è troppo tardi” per fare qualcosa, che “ormai non è più il tempo” di sognare, di immaginare, di desiderare: è allora che sei davvero spiaggiato.