Perché tutti gli studenti dovrebbero conoscere Ipazia

Passeggiavamo, oggi, verso il mezzodì, in Santa Croce. Io e i miei discepoli, appena giunti da etruschi cenotafi e vetuste necropoli – e per gli strani fili che legano parole e mondi, perfino di Bassani e del suo cupo viaggio a memorare antiche civiltà, perdute mai, avevamo trattato -, dopo aver guardato, inteneriti, giovani britanne che vasi lustrali e preci recavano. Alle madri rimpiante, a capitani coraggiosi. Penati celtici.

Bare nell’albero maestro scavate. Piacevano all’amico nostro errabondo e furioso, incattivito e mosso dal rimpianto. Si sa, i poeti sono creature ingenue, a volte, con testa e occhi sciolti dal pianto e sogni in tasca. Sogni fragili, Foscolo caro. Patria e bandiere, poi! Ma ti vogliamo ascoltare: tanta passione, tale tenace ardore meritano un pubblico attento. Chiedono amore e cura. Tu sai, poeta scatenato, quante volte e con quale indulgenza ti ho accompagnato, tenendoti il braccio, in quelle penombre. In quei pellegrinaggi. E quando oggi, un po’ stanchi, io e i giovin signori al monumento di “chi vide sotto l’etereo padiglion rotarsi più mondi, e il Sole irradiarli immoto” ci siamo fermati, perdonami, se puoi, ma il tuo consunto – dal mio amore, certo Niccolò, che altro? – testo ho abbandonato.

C’era una storia che di colpo dovevo raccontare. La favola di Ipazia sacra, Ipazia luminosa. Per strapparla al cupo patriarcato. Per farla laica santa subito – lei sì, maledetti! -. Per far dimenticare che Cirillo seminatore di odio e di atre tempeste raccoglitore è entrato fiero nel calendario di Romana Chiesa. Beato prima e santo poi. Adorato e celebrato e pregato ed evocato a est e a ovest: ortodossi e copti e buoni cattolici e amen e sempre sia lodato.

Cirillo. Il tuo massacratore.

Dei parabolani mandante.

Dei cocci taglienti ideatore.

Del tuo genio sfrenato inquisitore.

Del tuo corpo eburneo stupratore.

Dei tuoi pezzi – tanti, Ipazia astro, dispersi al vento, polvere di stelle – ispiratore.

Oh sì, Cirillo maschio e fiero, che fastidio Ipazia in riva al mare con i suoi innamorati discepoli a indagare, intenta, il cosmo. Pianeti ed ellissi, gravità intuite. E sole che lei sapeva immoto, pensa. E con Plotino sempre a fianco camminando, un filo pigramente, iniziava gli amati studenti a misteri lontani. Non più Eleusi, niente fandonie. Basta lotte titaniche e olimpiche faide. Basta velo di Maia. Guardare in alto, più in alto, su! Soli e galassie spalancati: è tutto lì, sapete? Allora torniamo alle carte e agli astrolabi e alle celesti mappe. Itinera divini, loro sì.

E tu, Cirillo sulla scena del mondo in libera caduta, medioevo alle porte – finalmente, lo aspettavi! Tremori e lupi in città, draghi e apocalissi da raccontare, dal pulpito spaventare e confèssati! e pèntiti e prega! e l’offerta, grazie e così sia -, ecco, Cirillo e i tuoi impotenti sgherri, che irritazione, vero? quella pazza donna con troppe idee di cielo in testa. Pretende di insegnare. A uomini, poi, siamo seri.

Un padre debole, Teone arrogante. Matematica e numeri in dono alla sacra Ipazia? Formule da custodire? Una donna, suvvia. Caparbia, sempre. Niente vincoli nuziali. Libera e di codici soltanto innamorata. Da equazioni avvinta. Amplessi con teoremi. Bisogna fermarla, vescovo austero, santo subito. Nobile Cirillo, il cielo ti ha mandato. Quel cielo così fisso, fermo. Empireo e scale per raggiungerlo. Cupole chiuse e varchi sigillati. Va circondata, Ipazia visionaria e ridente. In chiesa trascinata. Chiudete le porte. Con òstraka tagliata. Squarciata e lacerata. Stuprata. Ancora e ancora. Bravi, parabolani. Mai vista una donna di scienza appassionata. Che violata sia. Punita e senza indugio massacrata. Ipazia immolata, a Santa Croce non ti abbiamo trovata. Cremata e nel vento dispersa. Blowin’ in the wind. In testa nostra inchiodata. Santificata.

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Davvero, la vita e la morte divine della scienziata greca Ipazia, nata ad Alessandria d’Egitto nel 355 d.C. e ivi uccisa nel 415, periodicamente devono essere narrate agli studenti. Ad amici e a conoscenti. Urbi et orbi.

Io mi accontento del pulpito della cattedra, non è un privilegio da poco. La “sacra Ipazia”, come è fissata nella memoria da un brano poetico contenuto nell’Antologia Palatina, era figlia di Teone, geometra e rispettato filosofo nella città cosmopolita presso il delta del Nilo, e aveva di sicuro un fratello di nome Epifanio; nulla sappiamo della madre, già morta all’inizio del quinto secolo.

Sulle orme del padre

Il padre, noto docente, si dedicò per anni allo studio dell’astronomia – osservò e prese appunti sull’eclissi solare e su quella lunare del 364 – e dei numeri, redigendo con l’attenta revisione e collaborazione della figlia un commento imponente al “Sistema matematico” di Tolomeo.

Circa cent’anni dopo, il filosofo bizantino Damascio scrisse che Ipazia non si accontentava del sapere che viene dalle scienze matematiche alle quali il padre fin da piccola l’aveva introdotta, bensì aveva approfondito anche le altre discipline filosofiche.

Una statua raffigurante Ipazia

Ipazia, dunque, possedeva tutte le carte in regola per succedere a Teone come insegnante nella raffinata comunità urbana che aveva il suo fulcro nel Museo fondato quasi settecento anni prima da Tolomeo I Soter.

Anche se nel quarto secolo d.C. l’antico edificio era distrutto, la città egizia proseguiva nel solco della tradizione di centro didattico di chiara fama per quanto riguardava la medicina e la matematica.

I discepoli dell’accademia alessandrina

Sappiamo con certezza che nel 393 Ipazia era professoressa e rettrice dell’accademia alessandrina che, secondo il Kline, “offriva un’insolita combinazione di interessi teorici e pratici che si sarebbe rivelata così feconda mille anni dopo. Fino al suo declino, la Scuola di Alessandria godette di una piena e indiscussa libertà di pensiero”.

Sinesio, Porfirio e Giamblico ebbero da subito un posto d’onore fra gli allievi di Ipazia: il primo, soprattutto, grazie all’adorata magistra, si convertì in modo radicale alla filosofia e diventò in seguito poeta metafisico e religioso di notevole profondità, fece realizzare un astrolabio, seguendo alla lettera le indicazioni della docente e, come scrisse, “perfezionando lo strumento” rispetto all’uso – un semplice congegno che servisse come orologio notturno – che ne avevano fatto Tolomeo e i suoi successori.

I dubbi sulla teoria di Tolomeo

Da questi e altri indizi ricavati da molteplici fonti (purtroppo mancano scritti autografi della scienziata), sappiamo che Ipazia e alcuni colleghi astronomi della sua epoca non consideravano definitiva la teoria di Tolomeo sul cosmo: era giustamente ritenuta un’ipotesi matematica, nulla di più.

Bisognava insistere con le ricerche e l’osservazione della volta celeste per avvicinarsi a una comprensione adeguata della disposizione dell’universo. Solo in tarda epoca medievale si innalzò la teoria di Tolomeo a una sorta di certezza che sistemava il visibile e l’invisibile e metteva d’accordo le Scritture con la realtà così com’era percepita.

In altre testimonianze, Ipazia è descritta come una pedagoga dalla forte carica seduttiva e dotata di un carisma oratorio tale che, appena iniziò a praticare l’insegnamento pubblico, chiunque desiderava partecipare alle sue lezioni. Ascoltarla senza fiatare. Quando girava nelle strade e indugiava nelle piazze, come prima di lei Socrate tra i mercati e l’agorà di Atene, oppure Aristotele fra i porticati ombrosi e i vicoli nascosti dagli ulivi sull’Acropoli.

Ipazia era così: a volte le aule le stavano strette, fuori l’estate bruciava e le piaceva scortare frotte di adoranti discepoli verso la spiaggia, magari imbarcarsi dopo il meriggio e scivolare lungo la costa mentre ripassava equazioni e dimostrava teorie sulla gravità dei corpi e lo strano corso dei raggi del sole. Che, più lo studiava e lo osservava riparando lo sguardo con le mani sottili, più le pareva fermo. A dispetto delle apparenze e di ciance del popolo e dei sacerdoti.

La feroce palla di fuoco sopra le loro teste era al centro dei pensieri e dei moti di cose vive e morte. Era un polo d’attrazione straordinario, anche se l’istinto suggeriva agli umani, fissandolo ipnotizzati, che lento ma costante si muovesse intorno a loro, ai monti e ai mari. Notte e giorno. Tramonto e resurrezione. E invece no. La brillante erudita aveva molto intuito e provava a dimostrarlo.

La scelta di non sposarsi

Passeggiando tra i templi o insonne dentro la magione elegante che il padre le aveva lasciato. Ipazia era tutta parole e numeri, volumi e rotoli di papiro che l’avvolgevano come una calda coperta e la facevano sentire invincibile. Autonoma e indifferente al matrimonio che da una donna – da tutte le donne, forse, in saecula saeculorum – ci si aspetta che venga sognato e perseguito come unica via di salvezza e di ordine.

Ipazia non ci sta. Si innamora di uno studioso, forse, ma ognuno a casa sua, si condividono le formule di fisica ma non il talamo, non serve. Finché Teone vive, Ipazia è libera di rimanere tale, di non rendere conto a nessuno se non alla cultura di cui è diventata gioiosa sacerdotessa facendo ricerche e istruendo. Docente e pensatrice, scrittrice e astronoma: per la donna geniale non esiste altro, crede di poter decidere del suo tempo e delle giornate, mai uguali o noiose.

I timori del padre

Teone, ritenuto dal volgo un padre screanzato in quanto orgoglioso della figlia volitiva e a lui superiore e soprattutto non fa pressioni perché lei si sposi, soltanto verso la fine dell’esistenza, ormai debole e malato, comincia ad avere paura. Per lei, per l’amatissima e troppo indipendente Ipazia. – Figlia preziosa, davvero escludi le nozze con un uomo da te scelto che ti garantirà un porto saldo e una reputazione al riparo dai pettegolezzi? Sono tempi duri e infidi, dopo la mia morte ti metteranno con le spalle al muro. Non sarai più la venerata scienziata, bensì una creatura fragile e abbandonata, magari arrogante, agli occhi altrui. Perché hai dimostrato che senza un marito una donna può vivere, lavorare e prosperare, che non è necessario partorire figli per essere creative. Non te lo perdoneranno mai -.

Possiamo solo immaginare la preoccupazione di un uomo al crepuscolo della vita in un mondo che declina con lui. Un impero disfatto e Roma guidata da imbelli senatori, la caduta degli dèi e l’inarrestabile ascesa di quella che gli storici avevano definito una “setta giudaica” fra mille altre e invece si stava imponendo come uno Stato solido, come religione unica e indiscutibile nel Mediterraneo. Il Cristianesimo e i suoi monarchi.

L’assunzione di Cirillo sul trono episcopale

Quando il vescovo Teofilo muore, nel 412, Cirillo sale sul trono episcopale di Alessandria e inizia a governare da principe autoritario. Deteneva un potere immenso e travalicava senza pudore i limiti consentiti alla carica ricoperta. Il patriarca e i suoi più accesi seguaci, fra cui Ierace, vennero presto accusati, a partire dalla comunità ebraica, di essere “seminatori di discordie”: quando Ierace fu arrestato e torturato, Cirillo reagì duramente nei confronti degli ebrei, che a loro volta massacrarono un certo numero di cristiani.

La vendetta del vescovo fu esemplare: ebrei espulsi in massa da Alessandria, i loro beni confiscati e decine di sinagoghe rase al suolo. Il prefetto Oreste e Cirillo giunsero allo scontro totale ma nulla ottenne l’autorità laica contro quella ecclesiastica, perché in base alla costituzione del 4 febbraio 384 il clero rendeva conto soltanto al tribunale della Chiesa cattolica.

I monaci parabolani

E qui entrano in scena i parabolani, monaci scesi dai monti della Nitria per dare pieno sostegno a Cirillo. Ufficialmente infermieri che si dedicavano con abnegazione alla cura degli appestati, diventarono presto un corpo speciale di polizia al servizio dei vescovi di Alessandria.

Come i pretoriani di antica memoria, i parabolani avevano creato un cordone protettivo intorno al loro principe, che difendevano con atti di feroce integralismo, se occorreva. In questo mondo che brucia, matura l’omicidio di Ipazia.

La scienziata era amica del prefetto, lo frequentava con regolarità e l’invidia dai mostruosi occhi verdi iniziò a far circolare voci. Ipazia era una pagana saccente, Ipazia era blasfema e disprezzava i maschi, Ipazia aveva osato rifiutare proposte di matrimonio, Ipazia si dedicava alla musica e ai numeri. Ipazia aveva studiato filosofia e – udite, udite! – insegnava a classi di soli giovani uomini. Ipazia era di certo una strega. Ipazia adorava Satana in segreto.

L’uccisione di Ipazia

Un gruppo di fanatici parabolani che berciavano come Caronte e perdevano bava e sangue dagli occhi invasati come cani vomitati dagli inferi, un giorno la seguì, con violenza la prese e la rinchiuse dentro una chiesa, il Cesareo, già tempio di Augusto trasformato in cattedrale cristiana. Porte sbarrate, iniziò il martirio di Ipazia a opera del branco.

L’uccisione di Ipazia

Furono sadici e si presero tutto il tempo del mondo. Predatori scatenati sopra il corpo di una donna inerme di mezza età. Il corpo di una donna. Il corpo di tutte le donne prima e durante e dopo Ipazia. Usando cocci ricavati da affilate conchiglie la scorticarono viva e le strapparono mammelle, occhi, tendini e arti. Uno dopo l’altro. Lentamente e ridendo sguaiati. Senza mai cessare di stuprarla, per ore interminabili.

Lo stupro e le torture

Violentata e picchiata e squartata, ma dosando l’orrore perché non morisse subito, Ipazia ricevette la sua punizione. Per essere stata una donna fiera e indomita, gentile e autosufficiente. Per avere scelto di annullarsi sui libri invece che sul telaio o tra pentole di lucido rame. Ipazia la pazza, la insultavano. Pazza e stolta, blasfema e così presuntuosa da credere di essere padrona del proprio cervello e, culpa gravis, del proprio corpo.

I parabolani, unti del Signore e protetti dal vescovo, sapevano come castigare una donna tanto diabolica e insegnare alle altre quale fosse il posto a loro destinato. Bisogna innanzitutto umiliare il corpo delle femmine ribelli, poi letteralmente smembrarlo e farlo a piccoli, insignificanti pezzi. Quindi bruciare ciò che resta e disseminare ossa e tendini e brandelli di pelle ustionata in giro per la città. A titolo di monito.

Questo e altro fu fatto a Ipazia, nell’anno del Signore 415, in primavera. Era marzo e correva la quaresima. Ci si preparava per la santa Pasqua e si chiedevano digiuni e decime. Preci e conversioni. Il patriarca Cirillo assurse a nuova gloria perché, narrano le Cronache del tempo, “aveva distrutto gli ultimi resti dell’idolatria nella città”. E così sia. E damnatio memoriae di tutte le donne e dei loro impuri corpi, che inducono in tentazione e ignorano castità e virtù. E pretendono di pensare. Di parlare, perfino.

Il mandante dell’omicidio

Un secolo dopo la morte della scienziata, Damascio individua Cirillo come responsabile e mandante dell’omicidio, in quanto sarebbe stato accecato dall’odio verso la filosofa che aveva tanta autorevolezza e prestigio. Il linciaggio era stato organizzato e pianificato a freddo dal vescovo, che poteva contare sulla forza del branco di uomini asserviti e lieti di eseguire un macello. Sul corpo. Di una donna. Una nessuna e centomila donne che volevano e vogliono, come Ipazia sedici secoli fa, alzare lo sguardo verso gli astri. Donne che camminano nel mondo da sole. E vanno fermate.

Cirillo di Alessandria, detto anche Doctor Incarnationis, è stato proclamato Santo, padre e Dottore della Chiesa da papa Leone XIII, nel 1882. Era già venerato come fine teologo e avversario del paganesimo oscuro dalle Chiese conciliari del VI secolo.

Si legge, negli atti del Concilio di Costantinopoli II dell’anno di grazia 553: “Cirillo che è tra i santi, il quale ha predicato la retta fede dei cristiani”. Con buona pace del corpo di Ipazia, evaporato in nuvole di fumo acre dal rogo allestito con i suoi poveri resti nel Cinerone. “Puro e disposto a salire alle stelle”. Ipazia sacra.