Amir Issaa e l’esegesi del rap

Quarant’anni dividono un banale sfottò di famiglia e la sua istituzionalizzazione. Chi l’avrebbe mai detto, infatti, che le parole irridenti di Keith “Cowboy” Wiggins rivolte al fratello più piccolo, in procinto di arruolarsi nell’esercito nel lontano 1981, avrebbero un giorno costituito la ragione sociale di una cultura destinata a fare epoca e a cambiare le vite di intere generazioni. Perché «Hip, hop, hip, hop…» è innanzitutto una macchietta che il rimpianto musicista del Bronx mise in scena, imitando la marcia dei marines. La leggenda è questa e se a raccontarla è la cricca furiosa di sua Maestà Joseph Saddler, in arte Grandmaster Flash, c’è poco da dubitare. Il mondo, certo, da allora è cambiato. E pure troppo. Otto lustri non sono affatto pochi e la cultura hip hop si è evoluta, emancipandosi o banalizzandosi all’occorrenza. Le boombox si sono presto ristrette come i ragazzi di Szalinski e le posse smaterializzate a suon di clic. Le collane in oro massiccio sfoggiate da Eric B. & Rakim sulla storica copertina di Follow The Leader poi non sono più il cimelio da esibire per esorcizzare un riscatto sociale autentico, bensì un accessorio integrato tra i tanti e perlopiù taroccato. Insomma, come per ogni sottocultura che si rispetti, una volta raggiunta la cima è inutile tornare indietro per risalire nuovamente la china solo per fare a gara a chi ce l’ha più lungo. Che piaccia o meno, la cultura hip hop è diventata pressoché una religione, e allo stesso tempo il canale giusto per veicolare il disagio delle periferie; una way of life alternativa per condividere i propri demoni con gli amici tra un freestyle e l’altro; qualcosa che manderebbe su di giri Freud, tranciando in due i divani degli analisti. Il rap, d’altronde, è anche cura, partecipazione per dirla con Gaber. E non si confonda la crew con il branco, come qualche bigotto sopravvissuto alla guerra fredda vorrebbe ancora oggi far credere ai finti apoti dei cosiddetti salotti buoni. Si prenda poi da esempio esplicativo il dissing, ovvero quella pratica tanto cara ai rapper con la quale non se le mandano a dire; quella scarica di adrenalina verbale che per i mormoni resta un’inclinazione cafona che non ha nulla a che spartire con l’arte e la musica in generale, mentre per i saggi del sol levante assume i caratteri di uno sfogo dai risvolti lenitivi; qualcosa che li riconduce alle grida degli impiegati chiusi nelle izakaya a fine giornata per scacciare l’incubo del karoshi.

Il rapper romano Amir Issaa conosce bene i valori della cultura hip hop e i fraintendimenti che la caratterizzano da sempre. Amir è un esegeta del rap; un falco pellegrino che osserva nitidamente la valle da un’altura raggiunta non senza fatica e una buona dose di coraggio. Educazione rap (ADD Editore) è il manifesto del raggiungimento di uno strumento potentissimo, eppure ancora oggi poco sfruttato; il compendio di un musicista che ha intuito il potere salvifico nascosto dietro la propria arte e rema come un forsennato che ha visto la riva del fiume prima degli altri. Amir tratta il rap alla stregua di una materia scolastica ma senza fare accademia; esamina con garbo vocabolario, costumi, santi e poeti di un fenomeno oramai parte costitutiva della cultura giovanile. E lo fa con l’umiltà di chi ha vissuto gli anni d’oro della scena hip hop italiana, quella dei centri sociali attivi negli anni 90 in una Roma al solito contraddittoria, maledettamente dispersiva, divisa iniquamente in centri di comando e periferie a perdita d’occhio. Amir conosce bene i suoi polli, in quanto membro del Rome Zoo, storico collettivo messo in piedi nel 1996 da oltre 35 artisti capitolini per diffondere il verbo hip hop ovunque, ma soprattutto perché negli anni le ha viste tutte, passando dall’asfalto rovente di Torpignattara al morbido red carpet del Festival del cinema di Venezia, fino al calore asettico delle stanze del Quirinale. L’intento di Amir è valorizzare il rap bypassando la retorica del maledetto che ce l’ha fatta. Educarsi a colpi di rime è per l’autore un’esigenza dello spirito e mai velleità del corpo. I miti sopraggiunti come navi cargo dall’Atlantico assumono così le fattezze dei profeti di un credo scolpito nella memoria.     

«Educazione rap, questo rap mi ha dato le ripetizioni, dopo scuola quando stavo a casa senza genitori, allo specchio imitavo Jay z e Nas Wu Tang dentro il walkman in giro per la città. Poi ho capito che avevo tanto da dire, carta e penna e in tasca appena duemila lire, ma mi sentivo il re dentro il mio isolato e mi ha aiutato a sentirmi meno isolato».

Amir racconta le proprie esperienze nei licei con la luce negli occhi di chi è ancora incredulo mentre si appresta ad entrare nella scuola di suo figlio non per annoiarsi con gli altri genitori nel consiglio di turno, ma per raccontare la faccenda come «mezzo di alfabetizzazione», immaginandola infine come «uno strumento didattico che può aiutare non solo i ragazzi a utilizzare al meglio la lingua italiana, ma anche gli insegnanti a comprendere alcune dinamiche del genere musicale che gli studenti ascoltano di più e che sta raccontando al meglio il loro mondo». Un microcosmo complicato, mai così invasato al suo interno e stimolato dall’esterno. Amir scrive che «l’obiettivo principale dei suoi incontri non è formare nuovi rapper, ma ragazzi consapevoli che le parole sono uno strumento espressivo e di riscatto sociale». Non si risparmia mai, Amir. Da buon rapper, sputa fuori tutto ciò che gli passa per la mente, mettendo in fila ansie e paure una dietro l’altra: «Ripasso mentalmente la scaletta che ho pensato: Anche l’hip hop ha la sua cosmogonia, come il mito greco della creazione del mondo». Cita Malcom X per fissare le coordinate della storia e spiega agli alunni le sue canzoni restringendo il campo meglio di uno zoom su google maps; coglie l’essenza del significato più autentico di MC e l’importanza di non cadere mai nel vortice delle derivazioni spicciole, correndo così il rischio di rimanere in superficie e perdersi la meraviglia degli abissi; di quel sottosuolo da cui egli stesso è partito e che mai potrà rinunciare alle origini: perché il rap è riciclo ed è fatto della stessa sostanza del padre. Non si spreca il buon Amir, soprattutto quando c’è da schierarsi politicamente e mostrare la lettera scritta all’allora Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, invitandolo a prendere posizione sullo ius soli a reti unificate.

«Caro Presidente, mi chiamo Amir e sono un rapper che più volte nelle sue canzoni ha dato voce ai ragazzi di seconda generazione. Nonostante io abbia la cittadinanza da sempre (mia madre è italiana), molte volte sono stato considerato uno straniero per via delle mie origini egiziane. Il problema oltre ad essere legislativo è culturale, dovrebbe cambiare la percezione di come è fatto un italiano nel 2012: non è necessariamente bianco ma può essere di carnagione scura, avere occhi a mandorla, avere capelli afro. Di fatto però non sono cittadini italiani i nati in Italia da genitori di origine straniera. È cittadino solo chi è nato da italiani, mentre il bambino che nasce in Italia da due stranieri viene iscritto all’anagrafe come straniero. I bambini e i ragazzi che vivono questa situazione sono oltre mezzo milione in Italia. Vorrei chiederle, Presidente Giorgio Napolitano, di porre questa questione durante il suo discorso di fine anno a reti unificate».

Dai viaggi tanto formativi quanto celebrativi negli Stati Uniti a quelli inaspettati in Giappone, «facevo fatica a immaginarmi in un luogo così lontano dall’Italia, ma qualche mese dopo ero davvero in cattedra alla Ritsumeikan University di Kyoto per un incontro didattico organizzato dal professore di cultura italiana Hideyuki Doi», il rapper romano di origine egiziana narra le sue esperienze senza sbrodolare nella vacuità dell’artista impegnato ma non troppo. I suoi ricordi non stancano, tutt’altro: stimolano la consapevolezza, alimentando un approccio diverso, finalmente scevro da stereotipi e blasoni. Oltremodo interessante e alquanto inedito è il capitolo dedicato al rapporto delle ragazze con il rap. Amir distingue con parsimonia reazioni, quantificando le tante suggestioni dell’universo femminile sull’argomento, impegnandosi a sottoscrivere il Manifesto per l’antisessismo nel rap italiano non prima di aver mostrato sano scetticismo; vola poi come un loto dalla semplicità delle radici alla complessità del freestyle, fino a specificare con parole concise il senso del laboratorio «Potere alle Parole. Beat e rime contro le discriminazioni», allestito per contrastare interpretazioni banali del fenomeno attraverso la caratterizzazione intrinseca della cultura hip hop e la sua forza comunicativa. E anche quando c’è da sviscerare il disagio al centro della favola, Amir non cede mai alla banalità, al riempitivo di turno, mettendosi sempre in prima linea, tirando fuori il suo impegno nelle carceri ma anche la testardaggine che contraddistingue il suo carattere. Insomma più Amir Issaa e meno Fedez. Ma questa, ahinoi, è un’altra storia.