Amy Winehouse: il tempo della musica

L’eleganza virtuosa di Sarah Vaughan che non precipita mai nell’ostentazione, la rabbia degli esclusi e diseredati in amore di Janis Joplin, il colore autunnale della rassegnazione di Etta James. Poche interpreti nella storia della pop music hanno raggiunto e sintetizzato i caratteri delle loro antesignane, nessuna è riuscita a sfidare il passato e a custodire uno stile personale come Amy Winehouse. Voce antica di decenni, come se seguisse i solchi dei dischi della Mercury Records per trovare i tratti distintivi del suo profilo, consapevolezza da veterana e ironia di chi sa il fatto suo, il tutto racchiuso in un corpo giovane, inesperto, bruciato nell’arco di ventisette anni: anche se il passaggio terrestre di Amy Winehouse è stato breve, di fatto il suo appetito musicale, come il talento, le ha consegnato il titolo di regina del soul a tempo indeterminato, tra passato, presente e futuro. Una maratoneta che ha attraversato tra vertigini di alti e bassi, come i suoi fraseggi jazz, i primi dieci anni del duemila in velocità, a ritmo di premi e cadute, scuotendo la testa con acconciatura da Ronettes, sugli echi di Phil Spector.

E se c’è qualcuno che continua a investigare nei videotape amatoriali di amici e parenti – tra tutti il regista Asif Kapadia con il suo documentario Amy – The Girl Behind The Name (2015) – cercando di istruire un processo di colpa sul perché delle dipendenze, cosa e chi l’abbia indotta a cominciare e sul perché nessuno intorno abbia cercato di fermarla, gli anni trascorsi dal 23 luglio del 2011 non hanno oscurato la passione e l’unicità della cantante londinese, mettendo in luce ciò che veramente le importava: fare musica sì, ma a modo suo, amando e consumando il jazz dei dischi che collezionava sin da ragazzina, costruendo un suono per voce sola. Come dichiara in un’intervista poco dopo l’uscita del suo primo disco, Frank (2003): «Penso che più la gente mi vede, tanto più si accorgerà che tutto quello che so fare bene sono canzoni. Quindi lasciatemi in pace e lo farò. Farò musica, ho solo bisogno di tempo per fare musica». E sarà sempre il tempo la variabile con cui la Winehouse non riuscirà mai a competere e dominare. A 19 anni, dopo essere entrata nella National Youth Jazz Orchestra, è già una promessa, per naturalezza e controllo, come interprete per la musica soul e jazz, tanto che i discografici che l’ascoltano, si chiedono che cosa possa diventare a 25 visto che ha già la maturità di un’artista settantenne. Come per Jack/ Robin Williams, diretto da Francis Ford Coppola, Amy cresce a un ritmo quattro volte più veloce dei suoi coetanei, la celebrità arriva alla soglia dei vent’anni e in Inghilterra firma con la Island Records per vincere i primi premi con l’album Frank. Educata a una cultura da piccoli palchi per improvvisazioni, cadenza di ascolti e studio, ritmo regolare senza accelerazioni, in cui le uniche sincopi consentite sono per Charlie Parker, con l’uscita del secondo album, Back to Black (2006), la cantante naufragherà in tour mondiali, stadi e arene con il tutto esaurito, cerimonie, premi e presenze televisive. Ciò che si smarrisce è il tempo per fare musica: se il codice dell’industria impone la velocità e il profitto, Amy Winehouse deraglia e si perde in un’altra dimensione. Come Winona Ryder nel film Ragazze interrotte (1999) sulle note di Bookends – dove Simon and Garfunkel cantano, creando quasi per gioco, una spirale sul tempo trascorso: «È passato del tempo e che tempo è passato, passato un tempo di innocenza, un tempo di fiducia, doveva essere molto tempo fa, ho una fotografia, custodisci i tuoi ricordi, sono tutto quello che ti resta» – ripete al suo medico: «Dovrei spiegare che il tempo a volte si muove in avanti e poi indietro e poi in avanti ancora e non riesci a controllarlo?», così la cantante si perde negli incubi del passato familiare e nelle angosce del futuro sentimentale, nei battiti delle hit che il suo pubblico adora, sognando di tornare agli standard di Cole Porter e George Gershwin. Il successo accelera e la spinge avanti, un passo che lei stessa è cosciente di non riuscire a tenere, senza evitare di perdere il controllo. E se il mondo le proclama amore incondizionato a tutte le ore, preferirebbe solo un uomo più forte di lei che le accarezzi i capelli.

Ma proprio quando sembra che la stagione dell’incanto si sia conclusa per sempre, dietro a premi, scandali e stampa, ecco che il jazz la rimette in asse, le restituisce l’equilibrio sotto le sembianze di Tony Bennett: l’occasione di duettare con uno dei suoi miti, per l’album Duets II. Dalle riprese video delle prove Amy Winehouse appare nervosa: si irrigidisce, ha paura di sbagliare e chiede scusa per il tempo sprecato; è l’interprete statunitense a bloccarla: «Andiamo avanti finché non facciamo la canzone al completo, va bene? Non hai fretta, vero? Quindi abbiamo tempo, poi migliora ogni volta e tu sei meravigliosa». Il risultato è la monumentale versione dello standard Body and Soul, già interpretata da Frank Sinatra, Ella Fitzgerald, Sarah Vaughan ed Etta James. Amy Winehouse si lascia trasportare in armonia dagli archi, la sua voce è limpida e senza sforzi, con colori e fermezza che solo le grandi interpreti sanno di avere e come giocarci. Non riesce a smettere di sorridere al suo compagno di duetto e la testa continua a ondeggiare lentamente, divertendosi nei cambi repentini della controvoce.

Non proverà mai soddisfazione per l’uscita a settembre 2011 del brano con l’idolo americano, il cuore le imporrà di fermarsi un pomeriggio di luglio, nella sua casa di Camden, tra pettegolezzi, false anticipazioni e giudizi affrettati. Eppure il tempo concesso a Tony Bennett per poterla conoscere lo farà sentenziare: «È stata una delle cantanti jazz più vere che abbia mai sentito, per me dovrebbe essere trattata come Ella Fitzgerald o Billie Holiday. Aveva il dono totale. Se fosse ancora viva le direi: rallenta, sei troppo importante».

E mentre ancora viene celebrato il suo stile, dalla sfilata di Jean Paul Gautier ai tributi musicali di Patti Smith, George Micheal, Coldplay, erette statue a Camden e dipinti murales nelle strade di tutto il mondo, il tempo della musica, quello che riconosce il talento e lo mantiene in vita, le ha restituito finalmente la dimensione che le apparteneva, al netto di intrusioni e foto rubate: l’eternità delle dive, che vanno avanti a testa alta e ritmo d’orchestra.