Ayala: «Ancora una volta Falcone aveva ragione»

C’è un profilo in controluce in una delle foto più rappresentative di Giovanni Falcone: il magistrato ride in ogni angolo del viso appoggiato delicatamente alla mano, mostrando, inconsciamente ma con eleganza, un Camel Trophy in titanio. Sembrerebbe l’immagine perfetta di una pubblicità per orologi, invece lo scatto ritrae una conversazione tra due persone che non sono semplici colleghi, ma grandi amici. È quel profilo in controluce, quell’ombra che attraversa sulla sinistra il ritratto di Falcone ad aver provocato l’espressione divertita per una battuta sagace, un commento ironico o un’osservazione caustica. La stessa sagoma che lo accompagna sulle colline in Brasile, in giacca e cravatta per le vie di Parigi e vicino al mare prima di tuffarsi. Un comprimario che non conosce lateralità, Giuseppe Ayala. Se la storia dell’antimafia fosse narrata come una tragedia di Eschilo, il pubblico ministero del maxiprocesso ne sarebbe il nunzio, ma la sua requisitoria non troverebbe spazio sul palco di un teatro greco, ma nell’aula bunker di Palermo, o come qualcuno l’ha definita, l’astronave verde. Se in Edipo re è proprio il messaggero a descrivere l’accecamento del re di Tebe e il suicidio di Giocasta, è Ayala a togliere in aula con voce ferma, durante l’udienza dell’11 aprile 1987, la cecità sulla mafia, svelandone il suo funzionamento, struttura e apparato. Un’incisività dell’accusa e conoscenza dettagliata del fenomeno, reso possibile dalla stretta collaborazione tra giudice istruttore e pubblico ministero. Un legame di lealtà, fiducia e stima che va dalle cene tra amici alle aule di tribunale, un rapporto siglato da determinazione e ironia. Dopo quasi trent’anni dalla strage di Capaci, è ancora Giuseppe Ayala, il messaggero, la voce che ricordava al maxiprocesso che l’accusa in realtà aveva difeso la dignità del popolo, a continuare a tracciare il ritratto di Giovanni Falcone. Un racconto importante soprattutto per i tebani contemporanei.

Qual è stato il suo primo incontro con Giovanni Falcone?

«Lo ricordo perfettamente. Ho iniziato la mia carriera facendo il pretore in una città vicino Caltanissetta e poi nel settembre ‘81 presi possesso dell’ufficio alla Procura della Repubblica di Palermo. Assieme a me arrivò anche Alfredo Morvillo, fratello di Francesca, allora compagna non ufficiale di Giovanni. Arrivammo in aumento di organico, quindi non ereditammo il lavoro di chi c’era prima, diciamo che i primi giorni avevamo ben poco da fare. La frequentazione del bar del tribunale si ripeteva almeno due o tre volte nell’arco della mattinata. In una di queste occasioni, Alfredo mi presentò Falcone; nel periodo successivo organizzò qualche cenetta a casa sua e ritrovai Giovanni e Francesca. Come succede spesso, anche senza volerlo, a fine cena le donne iniziano a parlare tra di loro e gli uomini fanno altrettanto, non dovrebbe essere così eppure accade sempre. Noi eravamo da poco tempo alla procura e Giovanni in quel periodo si era occupato del famoso processo Spatola, nel quale maturò quello che viene chiamato il metodo Falcone. Ne parlammo a lungo. Le sue parole mi incuriosirono molto, perché avvertivo la novità e dalle sue spiegazioni capivo anche che si apriva una nuova strada per i processi contro la mafia».

A quel punto fu Falcone ad invitarla a passare una mattina per parlare più approfonditamente nel suo ufficio.

«Andai a trovarlo e mi spiegò le convinzioni che aveva maturato: i delitti di mafia erano diversi tra di loro – omicidi, estorsione, sequestro di persona, ad esempio –  però a differenza degli altri sono accomunati da quello che Giovanni definiva un fil rouge, da una logica associativa; di conseguenza con i fascicoli che riguardavano la mafia bisognava cambiare la metodologia di lavoro: occorreva riunirli, in modo tale da riuscire a capire il conduttore che li tenesse uniti. Un’idea rivoluzionaria che fu la base principale per cui nascerà il pool antimafia. Feci due o tre osservazioni che lo colpirono, come mi disse lui stesso. Il nostro rapporto diventò da quel momento di stima e simpatia reciproca. Anni dopo, prendendo atto di questo grande legame amichevole, Giovanni mi disse, scherzando, che non se ne sapeva dare una spiegazione, se non pensando sessualmente all’attrazione degli opposti. Caratterialmente eravamo diversi. Io estroverso, esuberante, Giovanni molto riservato».

Infatti lei ha sempre detto che caratterialmente è più simile a Paolo Borsellino.

«Non c’è dubbio. Non facendo parte del pool antimafia ma essendo il loro pubblico ministero, di fiducia come scrisse Antonino Caponnetto, almeno una volta alla settimana mi convocavano per partecipare a una loro riunione. Quando c’eravamo tutti, il cancelliere chiamava Caponnetto che se entrando trovava me e Borsellino seduti accanto, subito diceva: «Ayala e Borsellino, da due parti opposte del tavolo, altrimenti oggi non si lavora». Con Giovanni – che aveva la sua ironia, spesso demenziale – avevo una base di valori condivisa, amavamo molto il nostro lavoro, speravamo di avere dei risultati, che poi con il tempo sono venuti, ma caratterialmente era indubbio che fossimo diversi, appunto «gli opposti si attraggono». Da Giovanni ho imparato moltissimo, ho sempre detto che mi ha cambiato la vita due volte: quando ci è entrato e quando se ne è andato. Dopo quasi trent’anni sento fortissima la sua mancanza e spesso mi ritrovo a pensare a lui. Essendo figlio unico, se devo pensare a un fratello, penso sempre a Giovanni Falcone».

Un rapporto totale, dal lavoro all’amicizia.

«Il lavoro fu l’occasione per cementificare il nostro rapporto. Il pool decise di avere un pubblico ministero di riferimento, anche questa fu una scelta intelligente del metodo Falcone. Il giudice istruttore conclusa l’istruttoria, si spoglia del processo, ma la partita vera si gioca al dibattimento. Quello che occorreva era un pubblico ministero che seguisse la fase antecedente, che fosse padrone del processo, così che durante il dibattimento potesse valorizzare al massimo il lavoro istruttorio. La scelta cadde su di me, l’ultimo arrivato. Si creò un po’di invidia in ufficio, un collega chiese «Ma perché avete scelto Ayala?» e Giovanni rispose: «Be’, sai abbiamo scelto con il criterio dell’ordine alfabetico.» Un personaggio sciasciano per ironia, capacità di analisi, comprensione di un fenomeno, come quello mafioso, che nessuno aveva capito a fondo prima di lui. I risultati sono arrivati proprio grazie a questa capacità. Quando Falcone istruì il processo Spatola, addirittura nel palazzo di Giustizia c’era ancora chi chiedeva: «Ma siete sicuri che la mafia esista? Sono dei criminali come ce ne sono in altre parti del mondo», il codice penale italiano – una cosa che mi fa ancora rabbia – non prevedeva la parola mafia. Il disegno di legge di Pio La Torre per introdurre il reato di associazione di tipo mafioso, l’articolo 416 bis, c’era già in Parlamento, ma come tanti disegni di legge, aveva subito una battuta d’arresto. Il 3 settembre 1982 quando ci fu la tragedia di Carlo Alberto dalla Chiesa, di sua moglie e di Domenico Russo – bisogna sempre ricordare le scorte – lo stato fu chiamato a dare delle risposte, un segnale. Il parlamento si rimboccò le maniche e fu finalmente introdotto l’articolo che sicuramente fu accelerato dall’uccisione di dalla Chiesa. Un’ottima legge, bisogna riconoscerlo, perché cura l’aspetto degli interventi patrimoniali. Una strategia fondamentale, perché i mafiosi qualche anno di galera lo mettono anche in conto, ma se gli si toglie tutto quello che hanno guadagnato, è un deterrente maggiore. Il terrorista opera per una visione ideologica, il mafioso per gestire il potere al fine di guadagnare. Quando si va a colpire l’essenza del suo agire, il patrimonio, è la sanzione più pesante».

Com’è cambiata la conduzione delle indagini tra mafia e narcotraffico a livello internazionale con il metodo Falcone?

«Per le operazioni di cooperazione internazionale prima c’era un sistema in cui viaggiavano le carte, non i giudici. Questa fu una grande novità introdotta da Falcone, per cui fummo anche accusati, viaggiando sempre insieme, di «turismo giudiziario». Negli Stati Uniti il primo interlocutore fu Rudolph Giuliani con cui iniziò una collaborazione, non semplicemente produttiva, ma di vantaggio bilaterale essendoci gli stessi problemi criminali che accomunavano le due diverse nazioni. Questo fece sì che Giovanni acquistasse una grande credibilità e stima in America. Dopo il suo assassinio c’è stato un documento del Congresso, dove c’è scritto che la sua morte offende non soltanto l’Italia, ma gli Stati Uniti e il mondo intero».

Non le è sembrato paradossale, proprio per l’antigiuridicità del mandato, vedere lo stesso Giuliani aver affiancato Donald Trump?

«Ai tempi della cooperazione, lui era il mio omologo, Procuratore Federale del South District di New York; il Rudolph Giuliani che abbiamo conosciuto noi – repubblicano, certo, non ne ha mai fatto mistero – era molto lontano da quello di oggi. Attraverso i giornali e i media, mi rendo conto che si è assistito a un deterioramento intellettuale. La National Italian American Foundation organizza ogni anno una grande manifestazione all’hotel Hilton a Washington dove interviene il presidente degli Stati Uniti; dopo la morte di Giovanni, nel ’93, fui invitato e da lì ci spostammo a New York, dove mi coinvolsero in un’iniziativa elettorale per la campagna di Giuliani come sindaco, dove ricordammo il nostro grande amico. Anche lui aveva avuto l’intuizione di capire e condividere la strategia di Giovanni, è un merito che gli va riconosciuto, sarà anche per questo che la prima statua in onore di Falcone non è in Italia, ma nell’atrio della grande scuola dell’FBI. Quando chiesi al Direttore, Louis Freeh, perché avesse scelto proprio quel posto, mi rispose: «Perché mi sono reso conto che almeno due volte al giorno ci devono passare necessariamente tutti gli allievi e tutti devono pensare a Giovanni Falcone».

Con le dichiarazioni di Tommaso Buscetta si enuclea l’anatomia della mafia, si apre uno squarcio sulla sua natura, costituzione e cultura. Che riflesso ebbero queste rivelazioni sul pool?

«La squadra funzionava con una sintonia di metodologia di lavoro spaventosa, tutti grandissimi lavoratori, con un affiatamento incredibile. L’esempio facile è quello calcistico: tu puoi avere ottimi giocatori ma se non c’è intesa tra di loro, la resa sarà decisamente mediocre. Ci fu collaborazione per non lasciare scoperta nessuna indagine e un rapporto basato su una grandissima fiducia. Spesso negli anni mi hanno ripetuto: «La vostra esperienza è stata irripetibile, non semplicemente che non si sia ripetuta, ma è irripetibile, soprattutto per l’aspetto umano di questo gruppo». Non c’erano riserve né gelosie. Una squadra formata da grandi professionisti, ma la vera differenza del pool antimafia è l’aspetto umano. Ed è per questo che non ci sarà un altro pool».

Falcone divenne un conoscitore non solo della struttura ma soprattutto del linguaggio mafioso.

«Le faccio un esempio. Apprendemmo da Buscetta che quando qualcuno di Cosa Nostra indica una persona con l’epiteto «signor» ne sottintende un uso dispregiativo. Un giorno Giovanni ed io stavamo interrogando un mafioso, che rispondendo ad una domanda lo apostrofò con: «Signor Falcone». In quel momento Giovanni posò la penna, lo guardò e gli disse: «Guardi, io sono il giudice Falcone, è lei il signor». Buscetta è stato importante ma come ho specificato nella requisitoria al maxiprocesso, non gli dobbiamo tributare l’intero successo: noi avevamo i pezzi del mosaico – grazie al lavoro anche della polizia giudiziaria – ma mancava il disegno. Moltissime cose le avevamo già acquisite ma non capite fino in fondo, perché ci mancava il riferimento. Quando Buscetta ci descrive le regole interne a Cosa Nostra, abbiamo letto nella maniera giusta tutti gli elementi che avevamo, fu un processo di decodificazione».

Come cominciò la collaborazione di Buscetta?

«Quando Buscetta viene arrestato in Brasile su esecuzione di un nostro mandato di cattura internazionale, Giovanni va ad interrogarlo da solo. Di ritorno mi telefona e mi chiede di incontrarci perché aveva da dirmi una cosa importante, e quando arrivai a casa sua mi disse: «Ho avuta netta la sensazione che voglia collaborare, gli ho fatto la solita domanda: Buscetta, ne vogliamo parlare della mafia?» Normalmente durante gli interrogatori rispondevano: «Posso dirle quello che leggo sui giornali, oppure possiamo commentare Il padrino». Al contrario Buscetta rispose «Dottore Falcone, tutta la notte non basterebbe e sono molto stanco adesso, mi perdoni». Giovanni concluse «Secondo me è un segnale che mi ha mandato».

E lei non volle credere a questa possibilità?

«Sbagliando gli dissi «Giovanni, questo si chiama effetto jet lag», perché che Buscetta volesse collaborare mi sembrava improbabile. E invece aveva ragione, ancora una volta. Buscetta fu estradato ed arrivò in Italia. Falcone non lo fece mai venire a Palermo durante l’istruttoria, ma fu ospitato in un piccolo appartamento della questura di San Vitale, a Roma. In carcere, per ragioni di sicurezza, non avrebbe potuto starci, ci sono dei caffè che in galera facilmente diventano l’ultimo caffè. Il resto è noto: 360 pagine di verbale, tutte scritte personalmente da Giovanni con penna stilografica, una sua grande passione. Senza mai commettere un errore, neanche una cancellatura. «Giuseppe, scrivendo io rendo al meglio» mi diceva e mai un avvocato difensore ha osservato o obiettato su qualche dettaglio della trascrizione».

Un episodio che fa capire la conoscenza di Falcone della lingua adoperata dai mafiosi è quando lei viene presentato a Buscetta.

«Verso la fine dell’’85, eravamo vicini all’ordinanza di rinvio a giudizio e poi il maxiprocesso sarebbe cominciato il 10 febbraio 1986, Falcone mi telefonò per comunicarmi che saremmo dovuti andare in America. «Dobbiamo sentire Buscetta per le ultime rifiniture». Un elicottero dell’FBI ci prese a Manhattan e ci portò verso una destinazione ignota, ma capimmo che stavamo andando verso il New Jersey. Atterrammo in una villa con un laghetto artificiale vicino. Dopo dieci minuti sentimmo l’altro elicottero in arrivo che trasportava Buscetta. Naturalmente l’FBI pensò che l’interrogatorio sarebbe durato un bel po’, quindi gli elicotteri se ne andarono, tornando dopo circa due ore. Giovanni, contro le aspettative, compose un verbale da niente, con pochi dettagli, al massimo in una mezz’oretta, e io interdetto mi chiesi: ma siamo venuti fino in America per così poco? Invece Giovanni proprio per la sua piena compenetrazione nella logica comportamentale dei mafiosi, aveva voluto questo viaggio per accreditarmi a Buscetta, perché al dibattimento Falcone non ci sarebbe stato, ma Buscetta avrebbe trovato me come pubblico ministero. Così mi presentò «Adesso comincia il maxiprocesso, io non ci sarò, ci sarà il dottor Ayala, è la stessa cosa». La scelta dell’espressione mi stupì. Quando due mafiosi si incontrano tra di loro e uno dei due è in compagnia di un altro, che è mafioso ma l’interlocutore non lo sa, chi lo presenta dice è la stessa cosa. Scherzando, tornando in albergo, mi venne da chiedergli la sera «Giovanni, tu sei ridotto male, parli come i mafiosi?» e lui mi rispose «Giuse’, hai ragione, ma se tu vuoi essere capito fino in fondo dalla controparte, ti rivolgi a lui utilizzando la tua lingua o la sua?» Ancora una volta, Falcone aveva ragione.

Anche nelle interviste, il giudice Falcone conosce e sa dosare il peso delle parole, persino nelle pause.

«Sì, Giovanni soppesava le parole non essendo un oratore. Era un uomo che calcolava ogni espressione, non c’era mai un azzardo, niente più del necessario. Ed era sempre molto misurato, tanto che ripetevo spesso: il self control non l’hanno inventato gli inglesi, magari l’hanno copiato da Falcone. Durante la mia requisitoria del maxiprocesso, Falcone e Borsellino non potevano essere presenti in aula perché i giudici istruttori ormai si erano spogliati del procedimento, ma avevano i loro informatori sull’andamento, alcuni avvocati della parte civile e tutti i giornali che ne scrivevano quotidianamente. Per otto nove giorni non sono mai uscito dall’aula bunker, quando finisco finalmente incontro Giovanni. In quell’occasione, al contrario della sua proverbiale pacatezza di giudizio, iniziò a riempirmi di complimenti. Capì che ero sorpreso, quasi imbarazzato dalle sue parole e mi disse: «La verità, caro Ayala, è una. Tu sei un grande oratore, anzi sei The Voice, come Frank Sinatra, però non ti dimenticare che la canzone l’abbiamo scritta noi». Io avevo cantato bene e fatto un’ottima requisitoria, ma la canzone, l’istruttoria, l’avevano scritta loro. Una battuta indimenticabile».

L’umorismo e l’ironia sono un tratto di distinzione del pool.

«Ero e sono ancora legato ad alcuni esponenti del pool, con Giuseppe Di Lello ci vediamo spesso e Leonardo Guarnotta è segretario generale della Fondazione Falcone, io il vice presidente. Con il passare del tempo, ovviamente ci capita di ricordare momenti di quegli anni e ci siamo resi conto che l’ironia è stata la nostra forza. Essendo contagiosa, per fortuna, si trasmette e ne siamo dotati tutti. Si possono conoscere molte persone intelligenti e noiose, ma un cretino dotato di ironia non esiste. L’ironia, se c’è, vuol dire che appartiene a una persona intelligente. L’autoironia, poi, è il massimo».

Nel suo libro, Chi ha paura muore ogni giorno, parla spesso di discussioni con Falcone su cinema e libri, quali erano i vostri preferiti?

«Noi discutevamo moltissimo su Il Gattopardo, che è un grande libro, questo è indubbio, ma per noi siciliani significa molto di più: in quel dialogo tra il Principe e l’emissario Chevalley, mandato dai Savoia, c’è tutto il necessario per capire la Sicilia. Inoltre amavamo Leonardo Sciascia, che io avevo il vantaggio di conoscere. A Caltanissetta tra i miei compagni di scuola c’era sua figlia, Laura, questo mi consentì di incontrarlo diverse volte. Per quanto fosse divino nello scrivere, Sciascia era mal disposto a conversare. Solo una volta ci intrattenne in gruppo su Voltaire, e da allora diventammo tutti illuministi, comprando Candide e commentandolo tra di noi. L’incontro con Sciascia ha segnato la mia formazione culturale con una chiacchierata di mezz’ora».

Immagino il vostro disappunto leggendo il suo articolo, I professionisti dell’antimafia nel gennaio 1987. Quali furono le vostre considerazioni?

«Falcone e io traemmo le stesse conclusioni: l’articolo era condivisibile e una delle riprove che la grandezza di Sciascia era nella capacità di guardare lontano, il suo orizzonte è molto dopo il nostro. Indovinò perfettamente il contesto e il suo futuro, anche perché l’antimafia strumentale e di mestiere l’abbiamo scoperta in più occasioni e Sciascia intuì i suoi difetti quando l’antimafia era ancora una novità. Intravide quello che fu il suo uso strumentale. L’ errore dell’articolo furono gli esempi, Sciascia ne fece due: Leoluca Orlando, sindaco di Palermo, che da politico può essere sempre esposto alla critica, e Paolo Borsellino, un magistrato – e che magistrato! – da poco nominato Procuratore della Repubblica a Marsala. Uno sbaglio che lo stesso Sciascia in seguito riconobbe. Da Paolo non partì nessuna polemica e tempo dopo trovarono l’opportunità per chiarirsi. Anni dopo fui invitato da Nando della Chiesa a Milano in un teatro per un dibattito con Piero Ostellino, che allora era direttore del Corriere della sera e lo scrittore Corrado Stajano. Quando fu il mio turno per prendere parola, il pubblico si aspettava chissà che considerazione facessi, invece confermai: ero e sono completamente d’accordo con Leonardo Sciascia, è l’esempio con Borsellino ad essere sbagliato, ma non l’articolo».

Una contraddizione soprattutto per il senso dello stato e la moralità di Borsellino.

«Paolo era un uomo di destra, quella destra con un profondo rispetto dello stato e delle sue istituzioni, nell’accezione più nobile del termine. Di stretta osservanza monarchica, tanto che per prenderlo in giro lo chiamavo il sabaudo».

Le propongo un esperimento da correlativo oggettivo, una serie di immagini legate al giudice Falcone. Cosa ricorda con il Laphroig?

«Il Laphroig me lo fece scoprire Giovanni. Quando iniziammo a vivere sotto scorta, al ristorante non ci andavamo più, avevamo tre macchine blindate per ciascuno, uomini armati con mitra, era un casino. Quindi ripiegammo con delle cene a casa e una volta tirò fuori questa bottiglia di whisky e mi disse: provalo. Era difficilissimo trovarlo a Palermo, ma per i fumatori è quasi meglio del caffè. Giovanni era un grande fumatore, soprattutto numericamente. Smise di fumare nel 1989, buttò il pacchetto e disse «Non fumerò più» e io risposi «Giova’, voglio vedere» e invece non gli vidi più accendere una sigaretta. Se volevo fumare gli chiedevo se gli desse fastidio, e lui: «No, però ti voglio guardare mentre fumi». Quando lavoravamo insieme al Palazzo di Giustizia di Palermo, continuavamo anche di pomeriggio, perché i fascicoli non potevano essere portati a casa, erano diventate montagne. Il mio ufficio era al secondo piano e verso le 8 scendevo da Giovanni al piano terra, c’era la bottiglia di Laphroig nascosta e facevamo un sorso di fine giornata, parlando di lavoro, e poi ci si chiedeva sempre: e adesso che facciamo? Una volta mi disse: «Aspetta che chiamo Francesca, magari vieni a mangiare da me». Ma la Morvillo gli comunicò che in casa non c’era niente, allora Giovanni mi propose: «Giuseppe, porta un pesciolino e un pezzetto di pane, che io moltiplico».

La cartolina comprata a Bruxelles della Grand Place.

«Andammo in Belgio per interrogare un trafficante di stupefacenti, Gillet. Ovviamente anche all’estero c’era sempre una squadra che si occupava della nostra sicurezza, quella volta ci vennero a prendere con macchine blindate e ci scortarono in un albergo fuori città, in prossimità del carcere dove era detenuto Gillet. Passeggiammo tutta la notte nel corridoio dell’albergo, scortati da due uomini armati, andammo a dormire, l’indomani mattina ci recammo al carcere per l’interrogatorio e il pomeriggio avevamo già l’aereo per tornare, perché Giovanni preferiva operare così: non appena finito l’incontro si tornava subito. Scherzando e non scherzando gli chiesi: «Giovanni, scusami, ma tornando a Palermo non possiamo dire di essere stati a Bruxelles. Che cazzo abbiamo visto? Un albergo e un carcere che avrebbero potuto essere di qualunque città. Almeno la Grand Place potremmo vederla, chiediamo alla scorta». Giovanni era contrarissimo: «Ma no, facciamo una figura di merda, sembriamo poi due provinciali». Decisi di non dargli ascolto e proposi lo stesso la sosta ad un membro della scorta che parlava italiano. Una piccola deviazione per la Grand Place prima di dirigerci in aeroporto. E la facemmo. «Solo tu puoi fare queste cose» rideva Giovanni e comprammo la cartolina. Non eravamo mai stati a Bruxelles e ogni volta che mi è capitato di tornarci, quando sono stato Sottosegretario per i rapporti internazionali del Ministero di Grazia e Giustizia, se avessi potuto evitare la Grand Place l’avrei fatto. Tanta fu la fretta di andarci la prima volta con Falcone, tanto in seguito il desiderio di schivarla nelle occasioni successive».

La collezione delle papere di legno.

«Una vera fissazione. Nasceva da un episodio dell’inizio della sua carriera. Anche lui cominciò come pretore, a Lentini, nella Sicilia orientale. E una volta durante quell’incarico fece un errore, insomma una papera, che un avvocato con molto rispetto gli fece notare. Giovanni ne prese atto e da quel momento diventò appassionato di papere. Il divertimento maggiore era quando Borsellino entrava nel suo ufficio, ne sequestrava una dalla sua scrivania, per poi chiederne il riscatto «‘A paparella è in mio possesso, allora, c’amma a fare?». Tra Giovanni e Paolo c’era un rapporto personale molto più solido, perché si conoscevano da ragazzini, erano dello stesso quartiere di Palermo, la Kalsa. Non avevano bisogno di parlare, bastava che si guardassero per dirsi tutto. Un’intesa straordinaria».

Il tavolo da ping pong.

«Quando Tommaso Buscetta decise di collaborare con la giustizia – anche se tenne a specificare fin dal primo verbale che non si reputava un pentito – Giovanni prendeva il volo di stato di mattina, andava a Roma e il pomeriggio tornava a Palermo con i verbali della giornata. Aveva affittato una casa a Mondello quell’anno e c’era sempre una riunione, ogni sera al suo ritorno, in cui ci incontravamo, i giudici istruttori ed io, dividendoci i compiti. Dopo sei viaggi, le carte cominciarono a diventare tante, che non ci bastava più lo spazio nello studio, così passammo al tavolo della camera da pranzo. Quando non bastò neanche più quello, Giovanni si ricordò che in giardino c’era un tavolo da ping pong. Togliemmo la retina e lavorammo così».

La sentenza del dicembre ’87, il successo del maxiprocesso, doveva essere una prima battaglia vinta, in realtà fu l’epilogo di una stagione?

«Giusto un mese dopo, nel gennaio ’88, ci fu la vicenda del Consiglio Superiore della Magistratura, che bocciò Falcone come successore di Caponnetto da capo dell’Ufficio Istruzione a Palermo in nome del principio di anzianità. Fu preferito Antonino Meli, con sedici anni di servizio in più. Una scelta che fu condizionata anche dalle vicine elezioni dell’Associazione Nazionale Magistrati: l’anzianità era un baluardo, all’epoca si faceva carriera a due condizioni, invecchiare e non demeritare. Quando si mette in discussione il criterio di anzianità come principale parametro, si sovverte l’intera logica, e si preferisce il merito al non demerito. Molti in quella occasione votarono contro Giovanni – non voglio essere buonista, spero di essere realista –  per poter poi in campagna elettorale avvalersi del principio che si fosse ribadita l’anzianità come cardine. Meli non condivideva la metodologia del suo predecessore, Caponnetto, e il CSM, semplicemente rivitalizzando il criterio di anzianità, non solo boccia Falcone, ma anche il pool. Di fatto il pool antimafia finisce per mano del CSM, non per mano della mafia. Appena arrivato, Meli sconvolse l’accentramento di tutti i procedimenti di mafia e cominciò a spezzettare come si faceva all’antica, ledendo la visione unitaria di Falcone. Accantonato il presupposto su cui si basava il pool, la riunione dei dispositivi di delitti di mafia, viene meno il pool stesso. Il CSM si rivelò il primo nemico dei magistrati, non aspettavo il caso di Luca Palamara per dirlo».

Anche Francesco Cossiga massacrò Palamara in tempi non sospetti.

«Tempo fa riproposero quell’intervista televisiva a Cossiga in cui c’è la bellissima espressione, «il tonno Palamara», e non posso che essere d’accordo. A Cossiga mi lega un ricordo di grande simpatia ed affetto, del resto Falcone andò a Roma grazie al suo intervento, senza togliere nessun merito a Claudio Martelli, però l’idea della sua nomina al Ministero di Giustizia partì da lui. Lo convocò al Quirinale e si stabilì che diventasse Direttore Generale degli Affari Penali. Con Cossiga successivamente stabilimmo un rapporto di amicizia, e fu proprio lui a raccontarmi quello che Giovanni disse una volta finito il loro incontro, davanti alla porta dell’ascensore: «Presidente, mi raccomando, non si dimentichi di Ayala, non me lo lasci solo». Fu in questo modo che venni chiamato anche io al Quirinale e fu concordato con Gerardo Chiaromonte, allora Presidente della Commissione Antimafia, che fossi nominato consulente per la stessa commissione.

Vi ritrovaste entrambi a Roma, ma con due incarichi diversi, riusciste sempre a vedervi?

«Per un periodo ci fu un momento di freddezza, per un malinteso. Una sera tornando in albergo trovai un plico, naturalmente ce l’ho ancora conservato, e dentro c’era il libro di Giovanni con Marcelle Padovani, Cose di Cosa Nostra, la dedica recitava: a Giuseppe, con memore affetto. E io mi incazzai. Presi il telefono, lo chiamai, era sera e sapevo che l’avrei trovato ancora al Ministero, in ufficio. Mi lasciò parlare, dopodiché mi chiese: «Senti, tu stasera hai impegni a cena?» «Non ho impegni» «E dove sei?» «In albergo» «Non ti muovere che appena finisco ti passo a prendere e mangiamo assieme». Andammo in un ristorante che amavamo tantissimo, a via Garibaldi, dove c’era una saletta riservata. Il cameriere arrivò per l’ordinazione e trovò questi due signori, seduti uno di fronte all’altro, che si tenevano per le mani e piangevano. Perché capimmo quanto eravamo stati stupidi a cadere nella trappola di alcuni colleghi, che avevano riportato parole mai dette all’uno riferite all’altro. Quella sera lo scoprimmo e ci guardammo in faccia: «Ma può essere che siamo due cretini, Giuse’, e invece ci siamo sempre sentiti intelligenti?» e io gli risposi «Guarda Falcone, io non lo so se lo siamo sempre, in questa occasione lo siamo stati. Speriamo che non si ripeta».