La vita di Bruno Rizzi è il romanzo meglio nascosto del Novecento italiano, la storia di intuizioni eretiche che hanno girato il mondo viaggiando sulle gambe del loro autore, ma senza chiamarlo mai per nome. Fu genio anticonformista e autodidatta, nessuna accademia filosofica o scuola politica ne reclamò la paternità perché nessuna sarebbe stata in grado di ammaestrarlo. Visse nell’anonimato intellettuale, si fece carboneria di un pensiero irregolare che riscosse zero proseliti e almeno un plagio, come tutti i dissidenti sedette sempre al tavolo degli indesiderati: fu l’anonimo per antonomasia, Bruno R., l’autore che dirottava la visuale da sé per mettere meglio a fuoco le idee raccolte in un libro che cambiò il mondo mentre il mondo stava leggendo altro. A vent’anni partecipò a Livorno ai lavori di fondazione del partito comunista, a trenta lo lasciò preferendo inseguire una via autonoma al socialismo. In quegli anni la polizia fascista lo teneva d’occhio, le belle donne pure, affascinate da quel fisico dinoccolato e robusto, il portamento elegante da Sceicco Bianco e il look sempre in tiro almeno quanto la sua lingua veloce e colta. Se Borges è lo scrittore dei sentieri che si biforcano, Rizzi è l’antieroe di quelli che si spezzano: studiò scienze politiche al politecnico di Milano ma non terminò mai gli studi, scrisse libri per tutta la vita ma dovette spesso pubblicarseli da solo perché completamente diseredato, ad eccezione di alcuni circoli anarchici, dall’ambiente editoriale italiano. Si guadagnò il pane facendo il rappresentante di calzature in tutta Europa e tra una commessa e l’altra scriveva, appuntava, ragionava di sociologia politica all’Università Anonima Rizziana di cui era al contempo studente, ricercatore e professore. Con La burocratizzazione del mondo scrisse il capolavoro che avrebbe avuto tutte le carte in regola per lanciare il suo nome accanto a quelli di Lewis Mumford e John Kenneth Galbraith nel trio di grandi visionari che avevano intravisto tutti i limiti dell’efficientismo novecentesco, ma se i concetti di macchina e tecnostruttura diventarono presto dei classici, la burocratizzazione si realizzò ignara di avere anche una definizione.
Mentre nel 1939 Hitler invadeva la Polonia inaugurando di fatto la Seconda Guerra Mondiale, Rizzi rifletteva su un’Europa divisa in tre blocchi politici diversi: le democrazie capitaliste, le dittature nazifasciste e il caso indecifrabile dell’Unione Sovietica, una forma intermedia tra socialismo e capitalismo che lui definì «collettivismo burocratico» irrompendo con scompiglio nel dibattito trotskista dell’epoca. Solo tre anni prima Trotsky aveva pubblicato La rivoluzione tradita, un libro con cui accusava lo stalinismo di aver degenerato il progetto rivoluzionario dell’URSS, promuovendo l’ascesa di una casta che aveva usurpato il potere operaio: i burocrati. Tuttavia Trotsky e i suoi seguaci erano convinti che si trattasse soltanto di una fase transitoria e che presto i valori rivoluzionari si sarebbero affermati totalmente sia in Unione Sovietica che nel resto d’Europa. Rizzi era di tutt’altro avviso: la burocrazia staliniana non costituiva una casta, come la chiamava Trotsky, ma una vera e propria classe dominante che aveva soppiantato la borghesia del vecchio sistema; pur non essendo ciascun singolo burocrate formalmente proprietario di alcun mezzo di produzione, l’intera classe burocratica deteneva e gestiva tutti i mezzi di produzione dello stato a danno dei lavoratori. Anziché una dittatura del proletariato, lo stalinismo aveva instaurato una dittatura della burocrazia in cui i lavoratori non potevano essere definiti nemmeno più proletari, dal momento che l’apparato burocratico ne regolava rigidamente la forza lavoro e il tempo per conto di uno stato totalitario come in Noi, la distopia sovietica di Evgenij Zamjatin dove uno stato totalitario organizza la vita di lavoratori con nomi alfanumerici in base alla Tavola delle Ore.
La prima eresia di Rizzi fu non farsi abbindolare dalla teleologia comunista secondo cui lo stalinismo era soltanto una deviazione di un disegno destinato a perfezionarsi; la seconda fu usare l’analisi strutturale propria del marxismo per rilevare, al netto delle differenze ideologiche, la perfetta corrispondenza della condizione sovietica con l’Italia fascista, la Germania nazista e persino con l’America capitalista di Roosevelt, il quale, cercando soluzioni alla crisi del ‘29, aveva mandato una squadra di economisti in Italia a studiare il corporativismo fascista.
La burocratizzazione del mondo fu pubblicato nel 1939 a Parigi, dove Rizzi era in esilio, a nome Bruno R. per eludere le maglie della censura di guerra, ma non servì a molto; il libro venne lo stesso ritirato subito dalle autorità francesi. Rizzi riuscì a conservarne una manciata di copie, perché per certe opere leggendarie i lettori si pesano, non si contano: la prima copia la fece recapitare presso l’esilio messicano di Trotsky; un’altra la consegnò personalmente a George Bernard Shaw durante uno dei suoi viaggi di lavoro londinesi, nel corso dei quali si confrontò anche con George Orwell lasciandogli più di uno spunto in vista di 1984; una terza la portò al trotskista parigino Pierre Naville a cui lasciò anche un approfondimento sulle convergenze socio-strutturali tra l’Italia fascista e la Russia stalinista, e quando poi ripassò in sede per discutere con loro quelle idee, venne cacciato via dai trotskisti a male parole.
Deluso dall’emarginazione subita, rientrò in Italia nel 1943 stabilendosi a Gargnano, sul lago di Garda, a pochi passi da Villa Feltrinelli dove Mussolini si gonfiava per l’ultima volta il petto nella Repubblica di Salò prima di ritrovarselo sottosopra a Piazzale Loreto. Da socialista antifascista, Rizzi visse quel periodo appartato e in solitudine, affinando gli strumenti marxisti e allargando le sue ricerche a una prospettiva storica, con la speranza che dopo la guerra avrebbe ottenuto la meritata considerazione internazionale. In realtà quel riconoscimento già era arrivato, ma era il riconoscimento che si deve ai fantasmi, quelli che vivono in mezzo agli altri senza mai palesarsi davvero. La burocratizzazione del mondo aveva scosso Trotsky a tal punto da generare un dibattito interno ai suoi seguaci americani, tra i quali spiccava James Burnham, autore nel 1942 del libro La rivoluzione manageriale, tradotto in tutto il mondo e uscito per la prima volta in Italia per Mondadori con il titolo La rivoluzione dei tecnici. Ai pochi che avevano letto La burocratizzazione del mondo – tra cui Guy Debord che citerà Rizzi più volte nei suoi scritti – le tesi di Burnham su una nuova classe manageriale, che tanto in Unione Sovietica quanto nelle democrazie capitaliste avrebbe preso il posto dei capitalisti borghesi, appaiono subito un plagio, eccezion fatta per il giudizio esaltante che Burnham dà del nascente sistema manageriale.
Una volta letta La rivoluzione manageriale, Rizzi andò su tutte le furie e telefonò all’autore a New York, il quale negò di averlo plagiato pur ammettendo di aver dibattuto più volte insieme a Trotsky le sue tesi sul collettivismo burocratico. Cosa andava cercando quel volgare venditore di scarpe da uno stimato professore della Columbia University? Da una parte il rigore accademico, il metodo, l’apparato di note bibliografiche; dall’altra un’erudizione anarchica, la ricerca randagia e solitaria, uno stile di scrittura colloquiale e filologicamente non organizzato. Se prima della guerra Rizzi era rimasto inascoltato e rifiutato, dopo la Liberazione divenne il rimosso e lo scarto. All’estero lo plagiavano, in Italia nessuno sembrava interessato a pubblicare i suoi scritti; diventato solitario al limite dell’asociale, iniziò a pubblicarsi i libri a proprie spese con una piccola casa editrice di sua proprietà, l’Editrice Razionalista. Nel frattempo riprese la sua attività di rappresentante di scarpe a Bussolengo, nel veronese, dove le sue parole trovarono mani di artigiani locali come lungimiranti editori, le loro orecchie e i loro sogni meglio di tutti i lettori del mondo. Rizzi incontrò i commercianti e gli artigiani del luogo, li organizzò, gli fornì nozioni teoriche e strumenti culturali, infuse nei loro cuori spirito di iniziativa e coraggio trasformando un modesto polo artigianale calzaturiero in un piccolo polo industriale che nel giro di qualche anno moltiplicò la produzione e aprì all’esportazione. Tuttavia il primo pensiero restavano i suoi libri che nessuno voleva leggere: intanto ne aveva fatto parola viva, carne e sudore nelle valli del nordest, William Faulkner adattato al grande romanzo italiano.
Lavorando fattivamente nel commercio, Rizzi rivalutò il ruolo del mercato nella costruzione di un sistema socialista asfissiato dalla panificazione dei burocrati; si trattava naturalmente di un mercato depurato dallo sfruttamento e i cui mezzi di produzione non appartenessero né a un capitalista né a una classe manageriale statale, come avvenuto per i burocrati sovietici, bensì ai lavoratori stessi. Rizzi considerava il collettivismo burocratico un sistema di produzione di tipo feudale, individuando nel crollo dell’impero romano un precedente storico in cui la crisi del mercato – proprio come a inizio Novecento – aveva prodotto una decadenza generale negli scambi culturali e nel progresso civile e materiale. Organizzò queste sue nuove idee in un volume monumentale, La rovina antica e l’età feudale, che avrebbe dovuto uscire per Il Mulino grazie all’interessamento di Giorgio Galli, ma poi non se ne fece più nulla perché la casa editrice percepì il lavoro di Rizzi alla stregua di una freakeria. Sedotto e abbandonato per l’ennesima volta dall’editoria italiana, Rizzi si pubblica anche questo libro in autonomia prolungando la propria vita nell’anonimato fino al 1977, anno della sua morte e beffardamente anche di una inaspettata riscoperta presso gli ambienti socialisti craxiani in cerca di pensatori marxisti non ortodossi da poter strumentalizzare: serviva il grimaldello per aprire le porte all’avanzata liberista degli anni Ottanta in cui il ruolo dello Stato si marginalizzerà sempre di più spianando la strada al dominio del mercato. Non era certamente l’approdo politico che Rizzi avrebbe immaginato per le sue tesi: se la soppressione dell’economia di mercato porta all’accentramento totalitario della burocrazia statale, come aveva acutamente analizzato nei suoi scritti, la scomparsa dello stato produceva evidentemente altre forme di totalitarismo: quelle di un mercato incontrollato e deregolamentato in cui i lavoratori sono solo consumatori e carne da macello. Oggi La burocratizzazione del mondo riecheggia nei consigli di amministrazione delle grandi multinazionali, nella Banca Centrale Europea, nel board del Fondo Monetario Internazionale, nelle agenzie di rating, nei comitati tecnico-scientifici e nei consulenti economici che – proprio come un tempo la burocrazia dell’URSS – costituiscono oggi una nuova classe dominante che collettivamente detiene il potere e la gestione dei mezzi di produzione e comunicazione, l’accentramento delle decisioni e del sapere.
Forse certe volte è meglio restare profeti senza voce, anonimi urlatori al vento, che essere geni recuperati e poi travisati.