“Casalinghitudine” e la dignità letteraria delle ricette

Era un luglio afoso, come tanti altri. In Umbria, però, ci sono alture e fitti boschi, scorci di laghi che un tempo erano vulcani e ulivi, i fratelli ulivi del santo complice di lupi e di stelle.

Francesco spezzava il pane e si fermava sui sassi a scherzare coi mendicanti. Era un giullare inconsapevole, di dio o dei principi non è importante: ridere lo è, a lungo e di se stessi. Poi si riprende il viaggio, feriti da un rovo spuntato all’improvviso e smagriti dal digiuno.

Anche Clara in un caldo mattino di mezza estate si alzò e guardò allo specchio della casa in cui si era ritirata: un Sodalizio dedicato a San Martino e che ha origine da una struttura urbana perugina del 1574.

Semplicemente, dopo i fasti di una Rinascita smemorata, un ospizio. Per anziani o malati cronici, appena sopra la soglia dell’autosufficienza. Finestroni ampi che catturano luce e declivi da cui ammirare le storte alture di una regione di mare orfana e i filari in attesa di vendemmia.

Prepararsi al “viaggio”

Clara è stanca e tirata, anche lei come il pazzo amico delle fiere e dei predatori della Curia papale nemico ha perso peso. Molto e rapidamente. Non perché si dimentichi di bisogni prosaici o per avere svuotato la sporta e distribuito croste di formaggio fuori da un lebbrosario.

Clara vorrebbe nutrirsi, un cucchiaio di gnocchi al semolino che la zia Ermelinda preparava per Kippur o una fetta unta di pizza alle melanzane condivisa con i compagni di partito, in attesa dei risultati elettorali davanti alla tv.

Anni Settanta e tutto in comune: cibo e amanti, impegno politico e volantinaggio. Clara amava mangiare e i rituali della tavola avevano scandito la sua intera esistenza, fra coloro con cui era cresciuta e poi da sola negli anni dello studio e del canto. Sposa e madre, altre abitudini e nuove ricette.

Spezie ed esperimenti, mentre la vita rotola via si affettano zucchine per memorabili frittate e si pratica un culto ossessivo per il vitello tonnato perfetto, servito la prima volta che i futuri suoceri vengono a pranzo.

Clara adesso è magra, troppo magra. Deperita, quasi. Le ore si snodano tra divano e letto, la debolezza la umilia ma lei non si sottrae alle visite della famiglia allargata – le care sorelle, i nipoti rumorosi e beati di giovinezza -, che l’ha accompagnata nel buen retiro del Sodalizio e deve aiutarla a fare i bagagli, di nuovo.

Clara è pronta per un nuovo pellegrinaggio, come il “vecchierel canuto e bianco” cantato da Petrarca, secoli prima. Un vecchio ostinato e impavido che, pur malconcio e insicuro sulle gambe, prende un bastone, saluta brusco i parenti ansiosi e parte per Roma.

Deve vedere Caput Mundi e pregare in ginocchio di fronte alla Veronica, la “vera immagine” del volto di Cristo impresso su un lacero panno. Reliquie e camminate sfiancanti, penitenze sui sagrati a Trastevere e il meritato congedo. La stanchezza è tanta, le giunture dolgono. Il pellegrino è pronto per rientrare a casa. Quella celeste, non altre.

Chi era Clara Sereni

Anche Clara è sfinita e convince i familiari a organizzarle un viaggio, senza aiuto non riesce nemmeno a chiudere la valigia. Non è Roma, però, la destinazione: non questa volta. Nell’eterna città ha trascorso gran parte della vita, sola mai o forse sempre. Come tutti, in fondo. Clara e i libri, gli spartiti e le lotte in piazza.

Clara e un padre ingombrante, un figlio desiderato e perduto nei gorghi della psicosi mentale. Clara e le parole per dirlo. Dunque, Clara parte, ma verso nord. Svizzera tedesca e austera, cioccolato e orologi, banche e una promessa di buona morte. Lascia il Sodalizio e approda in un diverso nosocomio, elegante come i Campi Elisi. Tutto è eburneo e silente nel Paese di Calvino.

La morte stessa arriva piano scendendo, goccia dopo goccia, in un bolo trasparente che dal trespolo di acciaio cade nelle vene di Clara. Nessun dolore né rimpianto. Gocce letèe e avorio luminoso. Dentro e fuori Clara, che scivola in un rapido sonno prima che il buio la prenda. Le condizioni sono le sue, il tempo e il luogo anche, le appartengono. La chiamano morte assistita. Clara non spende una parola per definirla, non ha mai amato le frasi fatte partorite dai soloni della retorica. Nemmeno eutanasia è un termine che la convince: non c’è nulla di buono o sacro e giusto nella fine.

Semplicemente, Clara non lascia che la malattia ormai terminale abbia l’ultima parola sul suo corpo e su una volontà ferrea e capace di decidere. Il libero arbitrio, sì, quello è reliquia da adorare e celebrare. Come siamo caduti nel mondo non è una scelta, altri l’hanno compiuta per noi. Dove e come e quando scivolarne fuori è dignità non negoziabile.

È gloria che ci definisce umani dalla schiena retta. Il giullare di dio avrebbe approvato e compreso Clara: egli stesso a un certo punto smise di curarsi e di medicare le piaghe. I fraticelli lo imploravano ma lui, testardo e santo subito, si negava, irremovibile. Francesco e Clara scelgono. E ne rivendicano il valore assoluto. Se tutto è pellegrinaggio, determino io la meta. Il punto e il giorno. Se non ora, quando?

Clara Sereni è morta in una clinica di Zurigo nell’estate del 2018. Era nata nel 1946 da famiglia di origine ebraica, il padre Emilio noto dirigente del Partito Comunista e la madre Xenia scrittrice antifascista.

Il rapporto con una famiglia sofisticata ma impegnativa, il successivo matrimonio con il regista Stefano Rulli e la nascita dell’unico figlio Matteo, segnato da grave disabilità psichica, sono state le sfide che ha messo al centro della sua narrativa. Per lo più memoriali, viaggi nel lessico privato che le ha suggerito, anno dopo anno, le parole e i modi di dire per plasmare e dare forma a ricordi eterogenei.

La dimensione pubblica della politica agita e a tratti urlata dei collettivi anni Settanta e quella domestica dove avere cura di amici, amanti, marito e figlio, sorelle e genitori. Il lavoro e le passioni artistiche tenuti insieme con fatica, come accadde a molte donne della sua generazione. Intellettuale colta ed esigente, troppo in fretta dimenticata, nel 1987 ha pubblicato un originale divertissement, per nulla frivolo e solo in apparenza leggero nei toni.

La nascita di una parola nuova: casalinghitudine

Casalinghitudine fu il titolo voluto per sottolineare la crasi impossibile: l’intimità delle case e delle persone con cui dividiamo spazi, stoviglie e coperte (“per irretire il mondo”, rideva Clara), piante sul terrazzo e pomodori sottolio. E al tempo stesso solitudine subìta eppure necessaria e sfuggente quando più ne avremmo bisogno.

Gli altri invadono stanze e chiedono di essere nutriti. Avidi ci seguono e domandano abbracci o un polpettone fumante. La casa è organo vivo e pulsante, le camere tutte occupate, si è messi all’angolo. Da se stessi o dai tiranni con cui intrecciamo le ore e apparecchiamo il tavolo buono del tinello. Clara Sereni pubblica un libro che sfugge a ogni rassicurante definizione.

Con Casalinghitudine, le ricette per la prima volta entrano nella tradizione letteraria e il titolo stortignaccolo conquista un posto duraturo nei dizionari.

Memoir, manuale-manifesto o ritratto sociologico del Belpaese dagli anni Sessanta del boom economico agli Ottanta del conformismo piccolo borghese, l’operetta è divenuta un classico della narrazione antiepica.

La poesia e la pratica del cibo

Sapori e ricordi, la messa in scena del cibo diventa per Clara il pretesto di creare legami ed esprimere affetti delicati e disincanti altrettanto feroci. Gli alimenti e la loro ricombinazione a seconda del momento e dell’occasione sono rapsòdi nel senso arcaico del termine: coloro che tessono e intrecciano eventi grazie al potere dell’affabulazione.

Come gli aedi trenta secoli fa giravano senza posa in Tessaglia raccogliendo frammenti di discorsi interrotti e cucendoli abilmente nella tela di più vite, i piatti descritti da Clara-Babette (che nel racconto di Karen Blixen ama l’umanità dolente allestendo con cura un pranzo di ricche portate) sono arazzi senza tempo né spazio.

Bisogna allontanare lo sguardo per coglierne l’insieme: trama e ordito finalmente si tengono. Il pellegrino ha trovato la strada maestra e all’incrocio fra il cardo e il decumano c’è Clara ad attenderlo.

Entrambi sono a casa. Zurigo o Roma, non ha importanza.