Chico Buarque: la frana del Brasile

Se ad occhio nudo fosse possibile osservare la linea equatoriale, si potrebbe constatare subito la divisione del globo, facendo risaltare non semplicemente le geografie dei due emisferi ma la ripartizione terreste tra scrittori che abitano le loro case e scrittori che osservano il mondo da lì. Il nord impara a conoscere se stesso occupando lo spazio che lo circonda, prediligendo il racconto autobiografico e l’ironia narcisista – come Nora Ephron in Moving on, a love story «Ma, come ho detto, questa non è una storia di soldi. Questa è una storia sull’amore. Ho firmato il contratto di locazione perché non ero pronta a divorziare dal mio edificio» – oppure ritracciando il confine del male che non appartiene solo a chi è distante, ma soprattutto a chi è più vicino, magari sullo stesso pianerottolo – Rosemary’s baby di Ira Levin. La casa è il teatro del dramma borghese, delle mutazioni famigliari, si occupa di un’introspezione che riguarda sempre il singolo, e coincide il più delle volte con l’architettura psicologica di chi la abita – L’incubo di Hill House di Shirley Jackson. Discorso differente per l’emisfero meridionale, dove gli scrittori partono dal loro posto, rifugio da e nel mondo, per affacciarvisi e descriverlo. È questo il caso dell’ultimo romanzo di Chico Buarque, Quella gente (Feltrinelli, pagg. 144, euro 15.00, traduzione di Roberto Francavilla).

Dal suo appartamento dell’edificio Saint Eugene, nel quartiere dell’alta borghesia di Rio de Janeiro, Leblon, lo scrittore in crisi, Duarte, osserva la città e il nuovo Brasile all’inizio del mandato presidenziale di Jair Bolsonaro. Anticipando le descrizioni apocalittiche del teologo e scrittore Frei Betto durante la pandemia, Buarque indaga il dissolversi dell’umanità, la ricerca ossessiva di un colpevole da accusare di povertà, di deturpare le strade con la sua sola presenza, la caccia a chi, spinto dalla disperazione, è costretto a rubare nelle case dei più abbienti per poter provvedere alla sopravvivenza.

«Sdraiato di schiena, si contorce tutto mentre è colpito da un’altra serie di pallottole a bruciapelo. Ormai inerte, gli sbirri continuano a sparargli alla pancia, al petto, al collo, alla testa, lo uccidono molte volte, come si ammazza uno scarafaggio a colpi di ciabatta. Fra le grida di hurrà e gli applausi, gli spettatori scendono dai rispettivi edifici e dalle macchine e corrono verso il palco delle prodezze».

 Se Kleber Mendonça Filho con il film Aquarius (2016) dalle stanze di un palazzo sull’oceano, presagiva l’arrivo di una nuova classe dirigente disposta a cancellare tutte le conquiste in tema di solidarietà sociale, cultura e rifiuto dell’economia di mercato ottenute grazie al governo Lula, il romanzo Quella gente si pone come successore in linea di continuità e illustra il completamento, la fine della scalata del nuovo gruppo sociale al potere: una borghesia arrivista, apertamente razzista che si immortala con i cadaveri per strada per un selfie, che non disprezza il linciaggio dei più poveri, una classe in cui un giudice della corte federale può senza scrupoli spiare i movimenti dei vicini e denunciare tutte le irregolarità del buon costume all’amministratore di condominio o un padre in lutto può percuotere con violenza un senzatetto fuori al proprio country club. A tutti questi episodi di brutalità e intolleranza, Duarte assiste impassibile, completamente incapace di poter intervenire, perso nei propri egoismi, problemi e ricordi personali. Seguendo la formula quasi di un diario di guerra, registra quotidianamente gli eventi, le storie e i visi da tutti i punti focali possibili. Un racconto trasversale che non risparmia i piani più alti per scendere fino alle spiagge con i tramonti di Rio, le case più povere piene di scarafaggi, le strade buie dove vivono nell’ombra spacciatori e tassisti di fortuna. Lo smarrimento di Duarte, – che per Buarque coincide con lo stato confusionale di tutto il Brasile – da testimone inerte e scrittore bloccato su un romanzo da anni, oscilla tra passato e il futuro, tra le due ex mogli, Maria Clare e Rosane. Come Isaac Bashevis Singer in Nemici. Una storia d’amore faceva coincidere le amanti del suo protagonista Herman alle epoche dell’ebraismo moderno, tra fase precedente all’Olocausto e secondo dopoguerra, Buarque fotografa nelle compagne di Duarte i due modelli del Brasile democratico e la loro storia. Se Maria Clara, traduttrice, recupera la lingua portoghese del seicento e sa destreggiarsi nell’utilizzo delle parole per non ferire l’ex marito e offrirgli soccorso, Rosane, con la sua statua di Bolsonaro sul proprio balcone ornata di nastri dei colori presidenziali, non manca di sottolineare le mancanze dello scrittore e il disprezzo, l’assenza di ambizione e le riserve per una prudenza etica e politica che nella società brasiliana non hanno più ragione di esistere.

È un vortice inarrestabile quello che sembra avvolgere «casa Brasile» per Chico Buarque, una frana che investe l’intero paese sudamericano senza più radici, dove il passato e il futuro travolgono i rapporti famigliari, ricchi e poveri, giovani e vecchi, tra sogni verosimili di incidenti aerei e vicini armati di mazze da baseball e la realtà che il più delle volte è più spaventosa di qualsiasi incubo.