Come è nato “Il cobra” di Forsyth, su una 500 scassata, nella periferia di Milano

Stamattina a Londra c’era un gran bel sole e una temperatura ideale: mi sa che venendo a Milano mi sono giocato l’unica giornata dell’estate inglese”. Ci saluta così Frederick Forsyth, ironico e quasi cinico come i protagonisti dei suoi romanzi. È venuto (siamo nel 2008) per preparare un libro, Il Cobra, la spy story in cui avrebbe svelato l’alleanza fra colombiani e calabresi che aveva cambiato il mondo del traffico internazionale di droga.

Insieme con Giacomo, giornalista che la sa lunga sull’argomento, gli raccontiamo della ‘ndrangheta che, all’epoca, all’estero conoscevano solo alcuni specialisti, e anche in Italia troppi sottovalutavano (ricordate quando si diceva: “Al Nord la mafia non esiste”?). Gli spieghiamo di come si fosse conquistata il nord Italia grazie alla cocaina e lo portiamo in giro con una 500 scassata per posti che a un londinese devono sembrare più strani di Samarcanda: Buccinasco, Corsico…

A caccia di criminali nell’Hinterland milanese

Gli facciamo vedere le villette al bordo della tangenziale e i luoghi degli agguati del passato. Su un piccolo taccuino marrone, Forsyth segna i nomi dei posti, quelli delle ‘ndrine e da dove vengono: località ancora più esotiche come Platì, Cirò, Soverato… Gli piacciono i dettagli.

Il posto che probabilmente apprezza di più è un angolo dell’ortomercato di Milano: nel parcheggio, non uno dei luoghi più raccomandabili della città, la sera potevi trovare Porsche, Bmw, Mercedes che nessuno si azzardava a toccare. Perché lì, al piano terra del grattacielo della direzione dell’ortomercato, c’era For the King, il night di riferimento della ‘ndrangheta a Milano.

Con Giacomo c’eravamo entrati, una sera, usando come lasciapassare un nome di Reggio Calabria che apriva molte porte e che ci aveva permesso di superare il filtro di buttafuori romeni con cui mai ti sarebbe venuto in mente di litigare.

Dentro, distinti signori di mezz’età bevevano champagne accompagnato da tartine alla ‘nduja, circondati da ragazze che nemmeno un cieco avrebbe scambiato per suore. Forsyth prende appunti: il night For the King è entrato ne Il Cobra. Nel frattempo, però, era stato chiuso dopo un blitz dei Carabinieri che, tra l’altro, avevano scoperto alcuni quintali di cocaina in un camper fermo nel famoso parcheggio.

Il metodo di lavoro di Forsyth

È così che lavora Frederick Forsyth: tra un romanzo e l’altro trascorrono due anni. Il primo lo passa a fare approfondite inchieste giornalistiche sul campo, nel secondo scrive la sua spy story. Perché Forsyth nasce giornalista (anche se la sua prima occupazione è stata quella di pilota di aerei da caccia, il più giovane nella storia della Royal Air Force).

È bravo, lavora per Reuters e poi per BBC, e per la radiotelevisione inglese negli anni ’60 copre le guerre in Nigeria e Biafra. Senonché, a un certo punto, le sue corrispondenze dall’Africa non vengono pubblicate perché politicamente inopportune. “E allora feci una di quelle cose che si fanno a vent’anni” racconta. “Diedi le dimissioni, li mandai a stendere. Grande soddisfazione, solo che a quel punto avevo un problema: come arrivare a fine mese”.

Fu allora che ebbe l’intuizione: “Ci sono storie che non posso scrivere per ragioni di opportunità politica? Allora scrivo un romanzo: cambio un po’ i nomi, mi invento un plot, dico che è fiction e nessuno mi può obiettare niente. E sai una cosa? Se invece che un articolo di giornale ti metti a scrivere fiction, anche le tue fonti si sciolgono, ti raccontano cose che, se gliele mettessi in bocca per un pezzo sul giornale, mai ti racconterebbero”.

Frederick Forsyth
Frederick Forsyth con. Christopher Walken, protagonista del film I mastini della guerra

Tra fiction e giornalismo

E Forsyth le fonti le ha buone (per sua stessa ammissioni ha lavorato anche per i servizi segreti britannici). Il suo primo romanzo fa il botto. È Il giorno dello sciacallo (1971), e con la scusa di un attentato al presidente francese, rivela al mondo l’esistenza di Carlos, il terrorista più spietato e inafferrabile del Novecento. Un aneddoto: quando Carlos venne finalmente arrestato a Parigi, sul suo comodino trovarono una copia del romanzo di Forsyth.

Con questa tecnica ha anticipato i tempi e fatto scoop formidabili. Nel suo I mastini della guerra racconta la storia dei più temibili mercenari (i loro nomi e le loro storie sono chiaramente identificabili) del secolo scorso, un mondo finito: oggi li hanno industrializzati e li chiamano “contractor”. Lui lo scrisse nel 1974, raccontando la storia di mercenari che rovesciavano un regime in Africa in cambio dei diritti per lo sfruttamento dei giacimenti minerari del Paese. Bene, nel 2004, un gruppo di mercenari inglesi guidati da Simon Mann tentò esattamente la stessa cosa in Guinea Equatoriale. Nella realtà non finì bene (per i mercenari): fallito il putsch, vennero tutti arrestati in Zimbabwe.

Mentre nel libro precedente, Dossier Odessa del 1972, aveva fatto conoscere ai suoi lettori l’efficiente rete, con agganci formidabili in parte della Chiesa, che aveva permesso ai peggiori criminali nazisti di fuggire in Sudamerica e rifarsi una vita rispettabile.

Il quarto protocollo

Ma forse il suo scoop più grande è quello del Quarto protocollo (1984). Nel 1968, Stati Uniti, Gran Bretagna e Unione sovietica avevano finalmente firmato il Trattato di non proliferazione nucleare, che regolava tutto il mondo degli ordigni atomici. Ma, oltre al testo reso pubblico, il Trattato conteneva anche quattro protocolli segreti. Con il passare degli anni i primi tre non erano più validi, soprattutto perché diventati obsoleti visto lo sviluppo tecnologico o perché erano state scoperte delle contromisure. Restava in vigore il quarto, quello che vietava di costruire ed esportare componenti di ordigni nucleari in altri Paesi (in buona sostanza, non solo non lanciare bombe atomiche su un altro Paese, ma nemmeno assemblarle e farle scoppiare in loco). In un complicato gioco di spie e doppiogiochisti, Forsyth raccontò esattamente l’esistenza di questo protocollo segreto.

Questa sua capacità di mescolare realtà e fiction, invenzione letteraria e scoop giornalistico non è un segreto. Chi doveva sapere, ha sempre saputo. “Nel 1982, Yuri Andropov divenne segretario generale del Partito comunista dell’Unione sovietica, il capo dell’Urss, insomma. Prima, per 15 anni, era stato il capo del Kgb”, mi racconta in un altro incontro, al bar di un lussuoso albergo di Londra. “Ogni volta che usciva un mio romanzo, il giorno della presentazione un’auto dell’ambasciata russa arrivava alla libreria di Oxford street e ne comprava 50 copie che poi, con valigia diplomatica, partivano per Mosca e finivano alla Lubjanka, sede centrale del Kgb, dove per giorni gli alti ufficiali altro compito non avevano se non studiare il romanzo”.

Spie come lui

In questo caso siamo riusciti a verificare: tutto vero. Ma non sempre, come nei suoi libri, tutto quello che racconta è vero. Quando presentò Il cobra, per dire, spiegò alla stampa di aver esplorato Milano e hinterland insieme a poliziotti sotto copertura, che giravano col volto coperto da passamontagna. Molto più avvincente della 500 scassata con la quale lo avevamo portato a spasso. Perché a Forsyth, come ai suoi personaggi, a volte piace esagerare. Quanto, ormai, i suoi agenti segreti somiglino a lui, o quanto lui somigli a loro, è difficile dirlo. Di certo quando parla, con l’ironia sul filo del cinismo, spesso parla come loro.

Mi guarda, con una certa libidine, mentre mi accendo una sigaretta. “Ho smesso sei mesi fa: l’avevo promesso a mia moglie”, dice. E fa una pausa. “Le mogli passano la vita cercando di cambiarci, mentre noi passiamo la vita cercando di incontrare di nuovo quella ragazza che ci ha fatto innamorare”. Nel 2016 sua moglie, Sandy, si è fatta promettere che non avrebbe più scritto romanzi.