È andato tutto bene? Non esattamente

Forse questo non è il periodo giusto, popolato com’è di bollettini di morti e caduti per virus. Il tema, però, è fortissimo, e come tale mai risolto. La “dolce morte” è il soggetto del film di François Ozon che – ironicamente, visto il leitmotiv ripetuto durante il lockdown, coniugandolo al futuro – s’intitola È andato tutto bene.

André Dussollier, che con i suoi 75 anni ormai si candida a ruoli anagraficamente borderline, dopo aver subito un ictus da cui si sta solo parzialmente riprendendo, chiede alle figlie (in particolare a Emmanuèle, interpretata da Sophie Marceau) di farlo morire.

Il film è tratto dal libro, stesso titolo, È andato tutto bene (in Italia pubblicato da Einaudi), scritto dalla parigina Emmanuèle Bernheim nel 2013. Autobiografia della drammatica esperienza vissuta dall’autrice alle prese con la richiesta definitiva del padre 88enne André, è dedicato alla sorella Pascale, con cui Emmanuèle ha condiviso paure e dolori.

Dettaglio extradiegetico luttuoso: quattro anni dopo la pubblicazione, la Bernheim è scomparsa per un cancro ai polmoni.

Pur in mezzo al guado della morte che percorre È andato tutto bene, la scrittrice – che era anche sceneggiatrice, e lo si avverte nella rapidità del fraseggio, nelle descrizioni in soggettiva, nei sentimenti espressi più attraverso i gesti che analizzati – rifiuta il patetico e inserisce momenti di sorriso, in cui le sorelle riescono talvolta a “singhiozzare dal ridere”.

Sotteso a tutto, il grande tema: l’eutanasia. Argomento di cui in Italia periodicamente si torna a parlare, senza mai arrivare a una parola definitiva.

Rifacendosi al caso del dj Fabo e all’assoluzione di Marco Cappato da parte della Consulta, per esempio, l’associazione Luca Coscioni si sta in questo periodo opponendo alla Regione Marche che – a fronte della richiesta del tetraplegico Antonio – afferma che senza una legge il suicidio assistito sarebbe “improprio”.

Non che in Francia la situazione sia molto migliore. La legge Leonetti-Claeys del 2016 permette al paziente di esprimere le proprie volontà, per porre fine a una malattia le cui cure siano ritenute “sproporzionate” rispetto agli esiti attesi, e per garantire “una vita dignitosa fino alla morte”. Morte che dovrebbe avvenire tramite una sedazione profonda.

Mentre lo scorso aprile Luc Bonet, delegato dell’associazione per il diritto a morire con  dignità, ha proposto un emendamento che permetta di “accedere a una morte rapida e indolore”, senza i tempi lunghi della sedazione. Forte anche, Bonet, dei risultati di un sondaggio condotto fra i francesi, secondo cui il 93 per cento sarebbe favorevole all’eutanasia.

Nel caso di André, però, la situazione era particolarmente complessa: perfettamente in grado di intendere e volere, l’uomo non era affetto da malattia letale. “Semplicemente” non se la sentiva più di vivere in quel corpo che corrispondeva solo in parte a ciò che lui era stato, uomo attivo, amante dell’amore e della cucina. Da qui la richiesta – “Voglio che mi aiuti a farla finita”, espressa con un sorriso quasi trionfale – a Emmanuèle, figlia trattata durante la sua infanzia con durezza e talvolta con crudeltà.

Il viaggio del libro da questo momento diventa l’accompagnamento del padre nell’esecuzione della sua volontà. L’indagine su come fare, necessariamente in Svizzera per evitare di finire sotto processo. I documenti, gli incontri con amici e parenti, l’ultima cena. E mentre l’umore di André progressivamente migliora, nella consapevolezza che otterrà ciò cui tende, nelle figlie cresce l’accettazione e la forza per superare gli ostacoli. Fino al finale in cui “sento che mi scendono le lacrime sulle guance”. Lacrime, non singhiozzi. Dolore, non disperazione.

In questo, e appunto nell’accettazione, sta la differenza rispetto a un libro come gli Appunti sul dolore, dove Chimamanda Ngozi Adichie racconta per frammenti impressionistici che ricordano proprio il singhiozzare la morte del padre, avvenuta in periodo di lockdown e resa quindi più dura dalla distanza – lui in Nigeria, lei negli Stati Uniti – che non ha permesso la condivisione fisica del lutto, come quella che invece è stata fra Emmanuèle e Pascale.

La dedica (in questi libri le dediche costruiscono tanto più un senso, per chi legge e per chi scrive, Bernheim la rivolgeva alla sorella viva, Chimamanda al genitore morto) è “In memoriam: James Nwoye Adichie, 1932-2020”.

E la morte qui arriva all’improvviso, mentre si aspetta la chiamata Zoom su cui la famiglia si ritrova ogni domenica. Invece: “Mi ha chiamata mio fratello Chucks per dirmelo, e sono andata in pezzi”. Il percorso nel lutto non si risolve. L’ultimo capitolo sono due righe: “Sto scrivendo di mio padre al passato, e non posso credere che sto scrivendo di mio padre al passato”.

Scriveva Marcel Proust, nelle pagine della Recherche dedicate alla morte di Albertine: “Poiché la morte di Albertine potesse sopprimere le mie sofferenze, l’urto avrebbe dovuto ucciderla non solo in Touraine, ma dentro di me. Lì non era mai stata più viva”. Come (sia pur più sinteticamente) Albertine, il padre di Chimamanda è in realtà ancora vivo. Vivo nei flash dei ricordi, nelle parole non dette, nei progetti incompiuti. Ghost e diversi altri lo hanno rappresentato in immagini: la persona che morendo non scompare ma resta in qualche modo presente, non si allontana ancora.

L’evento tragico avviene all’improvviso, e questo lascia la scrittrice nigeriana a chiedersi ossessivamente: “Come ha fatto in fretta la mia vita a diventare un’altra vita”. Alle prese con un dolore così “concreto, schiacciante, impenetrabile”, la scrittura allora – contrariamente a quando avveniva con È andato tutto bene – non sembra fornire alcun sollievo.

Lo sapeva bene Joan Didion, scomparsa un paio di giorni prima di Natale, che al lutto ha dedicato alcune delle più belle pagine degli ultimi anni. E lo ha raccontato in particolare nell’Anno del pensiero magico (dedica: “Questo libro è per John e Quintana”: il marito e la figlia, morti entrambi nel giro di venti mesi), che si apre con “La vita cambia in fretta. La vita cambia in un istante. Una sera ti metti a tavola e la vita che conoscevi è finita”.

Per accettare la morte di John (lo scrittore John Gregory Dunne), l’autrice indaga fra le parole degli scrittori e i referti dell’autopsia. Ripercorre gli ultimi momenti, cede ai ricordi, si aggrappa al dolore. Quel dolore che “non tiene le distanze”, e “arriva a ondate, parossismi, ansie improvvise che ti tagliano le gambe e ti accecano e cancellano la quotidianità della vita”.

Per arrivare a capire, infine, che, come lui le disse in tutt’altro momento, al cambiamento bisogna abbandonarsi. Abbandonando così la persona amata. Forse, facendo le debite differenze di valore letterario, in qualche modo il lutto “agito” della Bernheim, in cui lei ha potuto fare qualcosa, essere parte attiva, è più semplice da affrontare dell’improvviso cessare del battito che ti inchioda alla solitudine e all’impotenza.